Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9296 del 11/04/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 11/04/2017, (ud. 24/01/2017, dep.11/04/2017),  n. 9296

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3611/2014 proposto da:

T.D., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIALE GIUSEPPE MAZZINI 142, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO

ALBERTO PENNISI, che lo rappresenta e difende unitamente

all’avvocato ANDREA INGIULLA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO ISTRUZIONE UNIVERSITA’ RICERCA, (OMISSIS), in persona del

Ministro pro tempore, C.P.G., P.B.,

D.V.A., B.D., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

DEI PORTOGHESI 12, presso L’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li

rappresenta e difende ai sensi del R.D. n. 1611 del 1933, art. 44;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 406/2013 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 21/11/2013 R.G.N. 51/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

24/01/2017 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;

udito l’Avvocato GIAMMARIOLI PAOLO per delega Avvocato PENNISI

VINCENZO ALBERTO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per l’inammissibilità o in

subordine rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. T.D. adiva il Giudice del lavoro di Udine e, premesso di essere risultato vincitore di un concorso bandito dal Ministero dell’Istruzione per il profilo professionale C2 e di avere preso servizio nel giugno 2004, deduceva di essere stato illegittimamente licenziato a fine ottobre 2004 per mancato superamento del periodo di prova. La sua domanda di impugnativa del recesso veniva respinta in primo grado con sentenza del Tribunale di Udine n. 244/2012.

2. La Corte di appello di Trieste, con sentenza n. 406/13, confermava tale pronuncia, respingendo l’appello proposto dal T.. A fondamento del decisum, svolgeva le seguenti considerazioni:

a) il rapporto di lavoro del pubblico impiego è assoggettato per legge (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 70, comma 13, che richiama del D.P.R. n. 487 del 1994, art. 17) ad un periodo di prova e il bando di concorso, che costituisce la legge del rapporto tra le parti, ne prevedeva l’apposizione; il recesso intimato nel periodo di prova ha natura discrezionale, mentre incombe sul interessato l’onere di provare che l’iniziativa datoriale è determinata da motivo illecito o che la prova non è stata svolta; la durata del periodo di prova è stabilita dal C.C.N.L. e sarebbe stato illogico definirne una durata maggiore, come preteso dal ricorrente sul presupposto che il rapporto di lavoro era part-time;

b) l’istruttoria svolta in primo grado, esaustiva ed immune da vizi, aveva evidenziato che nel primo periodo di lavoro, svolto a Trieste presso l’ufficio scolastico regionale, il T. aveva frapposto un rifiuto a predisporre lettere e corrispondenza; non si era voluto recare in Tribunale per il contenzioso dell’Amministrazione; non aveva prodotto atti o istruttorie, nè curato affari amministrativi, nè studiato il C.C.N.L. di comparto scolastico ed aveva altresì osservato un contegno arrogante; nel secondo periodo di lavoro, svolto a Udine, con inserimento nel settore del contenzioso, il più idoneo alla sua formazione professionale (laurea in giurisprudenza ed abilitazione alla professione di avvocato conseguite 2001) il T. non svolse i compiti affidatigli (informazione alle scuole in merito al disbrigo delle pratiche di riscatto e di ricongiunzione dei periodi assicurativi, studio di pratiche per il contenzioso pensionistico ai fini della costituzione in giudizio in sede contabile) ed anzi non vi fu alcun atto redatto dal T., il quale aveva pure rifiutato di ricevere le notifiche degli ordini di servizio;

c) non era emersa in giudizio alcuna discriminazione subita dall’appellante sul posto di lavoro; i dirigenti convenuti in giudizio dal T. avevano accolto le sue richieste di posticipare l’inizio del rapporto di lavoro e di articolare diversamente l’orario di lavoro; al contrario, era emerso che sia ad Udine che a Trieste il T. si era rifiutato di svolgere i compiti affidatigli ritenendo che fossero o di scarso rilievo o di troppo elevato rilievo, pretendendo in tale caso di ricevere un’adeguata formazione;

d) non vi era prova dei danni patiti dal ricorrente, il quale aveva conservato un precedente impiego nell’Amministrazione lo Stato;

e) le richieste istruttorie non potevano trovare accoglimento, in quanto la prova testimoniale espletata in primo grado era stata “completa ed esaustiva” ed aveva consentito di acquisire “quanto utile e necessario ai fini del decidere”, mentre le consulenze chieste “per accertare la personalità del ricorrente e di due dei convenuti” avevano un “chiaro ed evidente fine esplorativo” e come tali erano “inammissibili e non pertinenti all’oggetto di causa”.

3. Per la cassazione di tale sentenza ricorre il T. con otto motivi. Il MIUR e i dirigenti convenuti in giudizio resistono con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Si procede all’esame dei motivi perchè questo Collegio ha contestualmente rigettato il ricorso iscritto al R.G. n. 29509/15 proposto dal T. avverso la sentenza n. 226/15 della Corte di appello di Torino, che aveva dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione dello stesso T. avente ad oggetto la sentenza n. 406/13 impugnata in questa sede.

1.1. Con il primo motivo si denuncia nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4. Si sostiene che nel caso in cui l’estensore della sentenza sia il Presidente, come nel caso di specie, il provvedimento deve essere sottoscritto anche da un altro componente del collegio, in quanto la regola della doppia sottoscrizione è comune a tutte le ipotesi.

1.2. Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione delle norme relative alla costituzione del rapporto di lavoro ed alla sussistenza del patto di prova, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Si deduce che l’apposizione del patto di prova non può avvenire per fatti concludenti, ma in forma scritta e ciò si era verificato soltanto il 20.9.2004, data in cui per la prima volta l’Amministrazione aveva fatto riferimento al periodo di prova; lo stesso contratto individuale di lavoro, contenente all’art. 6 il riferimento al patto di prova, venne presentato per la firma soltanto il 13.10.2004, quattro mesi e mezzo dopo l’inizio del rapporto.

1.3. Il terzo motivo denuncia error in iudicando in ordine alla natura del patto di prova, alla qualificazione dell’atto di recesso dal periodo di prova, all’onere della prova; in particolare, si contesta l’affermazione secondo cui l’atto di recesso avrebbe natura discrezionale.

1.4. Il quarto motivo denuncia l’inefficacia del recesso per mancata comunicazione dei motivi, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

1.5. Con il quinto motivo ci si duole del mancato accoglimento dell’istanze istruttorie riproposte secondo grado, tra cui l’ammissione di c.t.u. medico-legale, richiesta per fugare incertezze circa la personalità del ricorrente, e l’integrazione della prova testimoniale, con il fine di dimostrare la diligenza dimostrata dal T. nell’assolvere i compiti che gli erano stati assegnati.

1.6. Il sesto motivo denuncia vizio di motivazione ed error in procedendo per mancata valutazione dei documenti prodotti dall’appellante e non valorizzati dal giudice di appello.

1.7. Il settimo motivo verte su vizio di nullità del procedimento ex art. 360 c.p.c., n. 4, per mancato esercizio del potere ufficioso del giudice del lavoro diretto ad accertare gli abusi commessi di dirigenti convenuti, costituenti ipotesi di illecito civile o penale, nonchè vizio di motivazione sulle stesse circostanze.

1.8. L’ottavo motivo denuncia error in iudicando per avere la Corte di appello attribuito il nomen iuris di recesso ad una fattispecie legale correttamente qualificabile come licenziamento disciplinare, atteso che il patto di prova era stato inserito in corso di esecuzione del rapporto di lavoro.

2. Il primo motivo di ricorso è infondato.

2.1. Secondo costante giurisprudenza di questa Corte, l’art. 132 c.p.c., u.c., stabilendo che la sentenza emessa dal giudice collegiale è sottoscritta soltanto dal presidente e dal giudice estensore, dispone implicitamente che la sentenza stessa deve essere sottoscritta dal solo presidente quando questi cumuli la qualità di estensore (Cass. n. 20597 del 2004, n. 9446 del 1993, v. pure S.U. 12392 del 1992. n. 2406/94).

3. I motivi da due a quattro – da esaminare congiuntamente, data la loro stretta connessione non sono da accogliere, per le ragioni di seguito esposte.

3.1. La giurisprudenza di questa Corte, con indirizzi consolidati (v. tra le più recenti, Cass. nn. 655 e 8934 del 2015, nn. 16224 e 25823 del 2013), cui il Collegio intende dare continuità, ha posto l’accento su:

a) la specialità della disciplina relativa al momento genetico del rapporto di lavoro alla dipendenze delle pubbliche amministrazioni, regolato dal principio fondamentale dell’accesso mediante pubblico concorso, enunciato dall’art. 97 Cost., comma 3 e del tutto estraneo alla disciplina del lavoro privato (vedi, per tutte; Corte Cost. sentenze n. 89 del 2003, n. 309 del 1997; Cass. 13 agosto 2008, n. 21586);

b) la conseguente diversità esistente, in tema di patto di prova, tra lavoro pubblico privatizzato e lavoro privato, derivante dal fatto che, nel rapporto di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni, l’istituto della prova è regolato da diverse, specifiche, disposizioni, secondo la salvezza formulata dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 2, comma 2, cui è da collegare l’art. 70, comma 13, dello stesso D.Lgs. (Cass. 13 agosto 2008, n. 21586 cit.);

d) ulteriore conseguenza è che nel pubblico impiego contrattualizzato non trova applicazione l’art. 2096 c.c., che regola l’assunzione in prova nell’ambito dei rapporti di lavoro privati, restando l’istituto autonomamente disciplinato dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 70, comma 13; l’assunzione è assoggettata al periodo di prova “ex lege” e non in forza di un patto frutto di autonomia contrattuale, la quale può incidere solo sulla durata del periodo di prova secondo quanto stabilito dalla contrattazione collettiva (Cass. 17970 del 2010);

e) nell’ambito dei rapporti di lavoro “privatizzati” alle dipendenze di pubblica amministrazione, il recesso del datore di lavoro nel corso del periodo di prova ha natura discrezionale e dispensa dall’onere di provarne la giustificazione diversamente da quel che accade nel recesso assoggettato alla L. n. 604 del 1966 (Cass. 2 agosto 2010, n. 17970; Cass. 13 agosto 2008, n. 21586 nonchè Cass. 27 giugno 2013, n. 16224);

f) al rapporto di lavoro privatizzato non si estende l’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi previsto dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, trattandosi di atto gestionale del rapporto di lavoro adottato con le capacità e i poteri del privato datore di lavoro (Cass. n. 16224 del 2013); ove poi l’obbligo di motivazione sia contrattualmente previsto, è ammessa la verificabilità giudiziale della coerenza delle ragioni del recesso rispetto, da un lato, alla finalità della prova e, dall’altro, all’effettivo andamento della prova stessa, ma senza che resti escluso il potere di valutazione discrezionale dell’amministrazione datrice di lavoro, non potendo omologarsi la giustificazione del recesso per mancato superamento della prova a quella della giustificazione del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, dovendosi, di conseguenza, escludere che l’obbligo di motivazione possa spostare l’onere della prova sul datore di lavoro (Cass. n. 23061 del 2007; nn. 143 e 21586 del 2008);

g) comunque è sul lavoratore che incombe l’onere di dimostrare la contraddizione tra recesso e funzione dell’esperimento o anche la sussistenza del motivo illecito del licenziamento e tale onere può essere assolto anche attraverso presunzioni, che, però, per poter assurgere al rango di prova, debbono essere “gravi, precise e concordanti” (Cass. 15 novembre 2000, n. 14753; vedi Cass. 13 settembre 2006, n. 19558).

3.2. Giova altresì richiamare – anche per fugare qualsiasi dubbio di illegittimità costituzionale della richiamata disciplina – quanto osservato da Cass. n. 17970 del 2010, secondo cui l’art. 2096 c.c., ed i principi elaborati dalla giurisprudenza sulla base di detta norma, non sono applicabili allo “speciale” rapporto di pubblico impiego alle dipendenze di pubbliche amministrazioni (v. Corte costituzionale sentenze nn. 313/96, 309/97, 89/2003, 199/2003), risultando l’istituto della prova regolato da diverse, specifiche norme secondo la salvezza formulata dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 2. Quest’ultima legge, all’art. 70 comma 13, dispone, infatti, che “in materia di reclutamento, le pubbliche amministrazioni applicano la disciplina prevista dal D.P.R. 9 maggio 1994, n. 487 e successive modificazioni ed integrazioni, per le parti non incompatibili con quanto previsto dagli artt. 35 e 36, salvo che la materia venga regolata, in coerenza con i principi ivi previsti, nell’ambito dei rispettivi ordinamenti”. E l’art. 17 della richiamata fonte normativa (Assunzioni in servizio), al comma 1, reca le seguenti disposizioni: candidati dichiarati vincitori sono invitati, a mezzo assicurata convenzionale, ad assumere servizio in via provvisoria, sotto riserva di accertamento del possesso dei requisiti prescritti per la nomina e sono assunti in prova nel profilo professionale di qualifica o categoria per il quale risultano vincitori. La durata del periodo di prova è differenziata in ragione della complessità delle prestazioni professionali richieste e sarà definita in sede di contrattazione collettiva. I provvedimenti di nomina in prova sono immediatamente esecutivi. La regola è poi ripetuta dall’art. 28, comma 1, con riguardo alle assunzioni degli avviati al lavoro dagli uffici di collocamento: Le amministrazioni e gli enti interessati procedono a nominare in prova e ad immettere in servizio i lavoratori utilmente selezionati, anche singolarmente o per scaglioni, nel rispetto dell’ordine di avviamento e di graduatoria integrata. Il richiamato quadro normativo rende evidente che tutte le assunzioni alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche sono assoggettate all’esito positivo di un periodo di prova, e ciò avviene ex lege e non per effetto di patto inserito nel contratto di lavoro dall’autonomia contrattuale. L’autonomia contrattuale è abilitata esclusivamente alla determinazione della durata del periodo di prova, ma tale abilitazione è data dalle norme esclusivamente alla contrattazione collettiva, restando escluso che il contratto individuale possa discostarsene (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 3).

3.3.- La sentenza attualmente impugnata ha fatto corretta applicazione di detti principi. Sono dunque infondate tutte le censure svolte dall’appellante e che hanno ad oggetto l’assenza o tardività dell’apposizione del patto di prova al contratto di lavoro, la discrezionalità delle valutazioni dell’Amministrazione, l’assenza di motivazione del provvedimento di recesso, l’onere della prova circa l’imputabilità del recesso a ragioni riconducibili al mancato superamento della prova.

4. I motivi dal quinto al settimo, in parte denunciati come vizi processuali e in parte come vizi di motivazione, sono sostanzialmente incentrati sulla omessa considerazione di alcuni elementi di prova e sul mancato accoglimento delle istanze istruttorie formulate dall’appellante. I motivi sono infondati.

4.1. Nel processo del lavoro, l’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio in grado d’appello presuppone la ricorrenza di alcune circostanze: l’insussistenza di colpevole inerzia della parte interessata, con conseguente preclusione per inottemperanza ad oneri procedurali; l’opportunità di integrare un quadro probatorio tempestivamente delineato dalle parti; – l’indispensabilità dell’iniziativa ufficiosa, volta non a superare gli effetti inerenti ad una tardiva richiesta istruttoria o a supplire ad una carenza probatoria totale sui fatti costitutivi della domanda, ma solo a colmare eventuali lacune delle risultanze di causa (Cass. n. 5878 del 2011; n. 154 del 2006).

4.2. Nel caso di specie, il rigetto delle istanze di istruttorie è basato sul raggiunto convincimento giudiziale della completezza degli elementi di conoscenza già acquisiti con la prova testimoniale espletata. A fronte di ciò, parte ricorrente si è limitata a dedurre che – a suo avviso – il quadro probatorio era ancora incerto e che, pertanto, i giudici di merito avevano errato nel disattendere l’istanza di integrazione probatoria, riproposta in appello. Trattasi di una censura radicalmente infondata, in quanto la valutazione relativa alla indispensabilità di cui all’art. 437 c.p.c., involge un giudizio di opportunità rimesso ad un apprezzamento meramente discrezionale del giudice di merito. La facoltà discrezionale di ammettere nuove prove anche in appello è subordinata soltanto ad una valutazione di fatto in ordine alla indispensabilità del mezzo di prova, che sussiste qualora il giudice del gravame, in mancanza di quel mezzo di prova, sulla base dei dedotti motivi di impugnazione, ritenga che attraverso l’istruttoria espletata in primo grado non sia stata completamente accertata la sussistenza del fatto costitutivo del diritto (Cass. n. 12828 del 2003).

4.3. Le censure per vizi di motivazione non vertono su errori di logica giuridica, ma denunciano un’errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti, con l’inammissibile intento di sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito. Inoltre, la sentenza gravata è stata pubblicata dopo l’11 settembre 2012; trova dunque applicazione il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 2, n. 5, come sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, il quale prevede che la sentenza può essere impugnata per cassazione “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. L’intervento di modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte (sent. n. 8053/2014) comporta un’ulteriore sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, sulla motivazione di fatto.

4.4. D’altra parte, anche prima dell’intervento riformatore, era costante nella giurisprudenza di legittimità, l’affermazione che il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (v. tra le più recenti, Cass. n. 27197 del 2011 e n. 24679 del 2013).

5. L’ottavo motivo è del pari inammissibile.

5.1. Va ricordato che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. n. 7394 del 2010, n. 8315 del 2013, n. 26110 del 2015, n. 195 del 2016). E’ dunque inammissibile una doglianza che fondi il presunto errore di sussunzione – e dunque un errore interpretativo di diritto – su una ricostruzione fattuale diversa da quella posta a fondamento della decisione, alla stregua di una alternativa interpretazione delle risultanze di causa.

5.2. La Corte di appello, sulla base delle risultanze istruttorie (testimoniali e documentali), ha ritenuto che il mancato superamento della prova era giustificato dal comportamento non collaborativo tenuto dal T. nel periodo di assegnazione alle sedi di Trieste e di Udine. L’operazione di sussunzione di tale fattispecie in quella astratta è conforme a diritto, mentre la prospettata configurabilità del recesso in termini di licenziamento disciplinare muove dal presupposto – insussistente per quanto sopra osservato – della mancanza o illegittimità della clausola relativa alla prova.

6. In conclusione, il ricorso va respinto con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo.

6.1. Sussistono i presupposti processuali (nella specie, rigetto del ricorso) per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.000,00 per compensi professionali, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 24 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 11 aprile 2017

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