Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 929 del 17/01/2017

Cassazione civile, sez. III, 17/01/2017, (ud. 25/10/2016, dep.17/01/2017),  n. 929

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20935/2014 proposto da:

C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GREGORIO

XI, presso lo studio dell’avvocato MICHELE LIGUORI, che lo

rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

UNIPOLSAI ASSICURAZIONI SPA, in persona del suo legale rappresentante

Dott. G.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

RAFFAELE BOTTA 49, presso lo studio dell’avvocato UMBERTO GIUGLIANO,

che rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al

controricorso;

P.F. nella qualità di erede di P.L.,

PA.FR. nella qualità di erede di P.L.,

P.R. nella qualità di erede di P.L.,

R.D.P.R. SAS in persona del legale rappresentante pro

tempore, P.A.M. nella qualità di erede di

P.L., E.R. nella qualità di erede di P.L.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ALBERICO DA BARBIANO 20,

presso lo studio dell’avvocato ANDREA MARIO APREA, che li

rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al

controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 2882/2013 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 11/07/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/10/2016 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO Gianfranco, per attesa S.U. (1251/2016), in subordine

rigetto.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Napoli, con sentenza 11.7.2013 n. 2882 ha rigettato l’appello proposto da C.G. e confermato la decisione di prime cure che aveva dichiarato improponibile, per abusivo frazionamento della pretesa, la domanda risarcitoria azionata dal C. avanti il Tribunale di Napoli per ottenere il risarcimento dei danni alla persona subiti in seguito a sinistro stradale verificatosi in data (OMISSIS) ed in ordine al quale aveva già proposto domanda risarcitoria avanti il Giudice di Pace di Napoli per danni materiali subiti al motoveicolo di sua proprietà.

Il Giudice di appello ha fondato la propria decisione richiamando la giurisprudenza di legittimità formatasi a seguito della pronuncia a SS.UU. 15.11.2007 n. 23726 e non ritenendo ravvisabile nella fattispecie un incolpevole affidamento della parte andato deluso in conseguenza dell’overruling della Corte, non venendo in questione una diversa interpretazione della regola processuale ma la stessa definizione del “giusto processo” come limite all’abuso dell’esercizio della tutela del diritto sostanziale.

La sentenza di appello – non notificata – è stata impugnata per cassazione dal C. con tre motivi concernenti vizi dell’attività di giudizio ed omesso esame di un fatto storico decisivo.

Resistono con controricorso R.d.P.R. s.a.s., nonchè gli eredi di P.L., e la UNIPOLSAI Ass.ni s.p.a..

Il ricorrente ha depositato memoria illustrativa.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo C.G. ha impugnato la sentenza di appello per violazione della clausola generale dell’obbligo di buona fede e del dovere di solidarietà (artt. 1175 e 1375 c.c.; art. 88 c.p.c.; art. 2 Cost.), del principio di effettività del diritto di difesa (art. 24 Cost.; art. 6 paragr. 1 CEDU; art. 47 comma 2 Carta di Nizza) e del principio del giusto processo (art. 111 Cost.), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sostenendo che il “revirement” operato dalla Corte di legittimità sul frazionamento, in distinti processi, della domanda giudiziale relativa al medesimo ovvero a diversi crediti esigibili, derivanti dal medesimo rapporto, in origine ritenuta consentita da Corte Cass. SS.UU. 10.4.2000 n. 108 e successivamente ritenuta invece incompatibile con il nuovo assetto costituzionale da Corte Cass. SS.UU. 15.11.2007 n. 23726, non poteva incidere, in considerazione del principio “tempus regit actum”, sulla regola processuale – definita dal primo arresto delle SS.UU. – applicabile al momento in cui era stato introdotto il primo giudizio, per il risarcimento dei danni a cose, avanti il Giudice di Pace (atto di citazione notificato in data 10.6.1999) ed al momento in cui era stato introdotto anche il secondo giudizio, per il risarcimento dei danni alla persona, avanti il Tribunale di Napoli (atto di citazione notificato in data 30.5.2002).

Sostiene il ricorrente che nella specie dovevano trovare applicazione i principi enunciati dalla SC in materia di overruling in materia processuale (cfr. Corte Cass, Sez. U, Sentenza n. 15144 del 11/07/2011), secondo cui gli effetti preclusivi determinati dalla nuova interpretazione della norma processuale non potevano andare a detrimento della parte che aveva fatto incolpevole affidamento sul precedente indirizzo interpretativo al momento in cui aveva iniziato i giudizi.

Le coordinate fornite dall’ultimo arresto delle SS.UU. del 2007 che ha riesaminato la fattispecie sopra descritta, sottoponendo a rivisitazione le questioni che aveva fondato il precedente arresto del 2000, vengono a ruotare intorno ai seguenti cardini:

– l’art. 111 Cost. (modificato dalla allora recentissima legge cost. 23.11.1999 n. 2, e quindi non ancora indagato in tutte le sue potenzialità precettive) non è stato affatto valorizzato dalle SS.UU. n. 108/2000 le cui argomentazioni sono tutte interne alla disciplina normativa processuale e rivolte a verificare la tenuta del sistema processuale;

– il nuovo arresto delle SS.UU. (Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 23726 del 15/11/2007) oltre a giustificare il revirement in base alla evoluzione della centralità assunta dalla clausola generale di “buona fede” (che trova applicazione anche nel processo, e quindi anche nella fase patologica del rapporto obbligatorio) viene a fondare la nuova interpretazione sull’art. 111 Cost., nella duplice previsione del principio di “ragionevole durata del processo” (cui si oppone l’effetto inflattivo della proliferazione di cause attinenti il medesimo rapporto) e del principio del “giusto processo”, riferendo tale giustizia non più (o non solo) alla meritevolezza dell’interesse del creditore di ottenere l’intero e non il parziale (argomento che era stato criticato come falso sillogismo dalle SS.UU. del 2000), ma al divieto di abuso degli strumenti processuali, tale intendendosi l’uso della “vocatio in jus” idoneo ad arrecare un “maggiore pregiudizio” al debitore (in termini di apprestamento di difesa e di moltiplicazione delle spese di lite), che non trova giustificazione nell’interesse del creditore di ottenere per via giudiziaria la piena ed integrale soddisfazione del proprio diritto: in sostanza non può essere attribuita meritevolezza alla difesa di un diritto od interesse compiuta attraverso un “abuso del processo” (ossia ad un “uso improprio” dell’azione giudiziaria, in quanto mezzo eccedente o sproporzionato rispetto alla attività processuale -in ciò dovendosi intendere ricompresa non solo la iniziativa giudiziaria del creditore ma anche l’impiego dell’apparato organizzativo predisposto per l’esercizio della funzione giurisdizionale ed i tempi occorrenti per lo svolgimento del processo – effettivamente necessaria per raggiungere lo scopo) in quanto si verrebbe in tal modo ad ammettere un “processo ingiusto”, e dunque non conforme al valore espresso nell’art. 111 Cost..

– da tali premesse segue la enunciazione del principio di diritto per cui “è contraria alla regola generale di correttezza e buona fede, in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., e si risolve in abuso del processo (ostativo all’esame della domanda), il frazionamento giudiziale (contestuale o sequenziale) di un credito unitario”, al quale si sono uniformate le successive sentenze della Sezioni semplici;

– non assume rilevanza nella presente controversia, in cui il credito risarcitorio è oggetto di un unico rapporto obbligatorio che trova titolo nei fatti costitutivi della medesima fattispecie di illecito ex art. 2043 c.c., la questione rimessa alle SS.UU. con la ordinanza di questa Corte sez. lav. 25.1.2016 n. 1251, che non richiede un riesame del principio enunciato dalle SS.UU. n. 23726/2007, intendendo invece evidenziare la specificità del “rapporto di lavoro”, in quanto nozione descrittiva di un fenomeno giuridico complesso, comprensivo di una molteplicità di distinti rapporti obbligatori “stricto sensu”, in quanto aventi ad oggetto crediti di fonte legale o contrattuale, retributivi, indennitari-assistenziali, previdenziali e risarcitori, e dunque non potendo rinvenirsi nella specifica fattispecie quelle stesse esigenze e condizioni che presiedono invece al principio di infrazionabilità della domanda avente ad oggetto pretese – compiutamente definite – derivanti da un medesimo rapporto obbligatorio avente titolo in un’unica “causa petendi” (cfr. ordinanza, in motivazione, paragr. 112.).

Tanto premesso, la questione concernente il frazionamento della domanda di condanna al risarcimento dei danni a cose e dei danni alla persona, cagionati dalla condotta illecita ex art. 2054 c.c., è stata esaminata nei precedenti della terza sezione di questa Corte che hanno affermato, allineandosi alle SS.UU. del 2007, la insussistenza di un interesse tutelabile del danneggiato, in presenza di un danno derivante da un unico fatto illecito, riferito alle cose ed alla persona, già verificatosi nella sua completezza, di frazionare la tutela giurisdizionale mediante la proposizione di distinte domande, parcellizzando l’azione extracontrattuale davanti al giudice di pace ed al tribunale in ragione delle rispettive competenze per valore, e ciò neppure mediante riserva di far valere ulteriori e diverse voci di danno in altro procedimento, in quanto tale disarticolazione dell’unitario rapporto sostanziale nascente dallo stesso fatto illecito, oltre ad essere lesiva del generale dovere di correttezza e buona fede, per l’aggravamento della posizione del danneggiante-debitore, si risolve anche in un abuso dello strumento processuale (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 28286 del 22/12/2011; id. Sez. 6 – 3, Sentenza n. 21318 del 21/10/2015).

La enunciazione di un principio di diritto, che sembra destinato a stabilizzarsi, non consente, tuttavia, di risolvere la controversia in esame (che rinviene la propria specificità nel fatto che le distinte azioni giudiziarie risarcitorie sono state intraprese dal danneggiato in tempo anteriore al revirement delle SS.UU. del 2007), nella quale la questione di diritto sottoposta alla Corte concerne la applicabilità o meno dell’istituto del “prospective overruling” (ossia della salvezza degli effetti degli atti processuali compiuti dalla parte in conformità alla previgente interpretazione giurisprudenziale, e nell’incolpevole affidamento sulla stabilità di tale interpretazione), questione che transita attraverso la verifica:

a) della natura “processuale” o “sostanziale” della regola giuridica oggetto del revirement;

b) della natura “evolutiva” o “correttiva” del revirement interpretativo (secondo il lessico utilizzato da Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 15144 del 11/07/2011).

Secondo la accezione dell’istituto di origine anglosassone, così come elaborata dalla giurisprudenza di legittimità, affinchè un orientamento del giudice della nomofilachia non sia retroattivo come, invece, dovrebbe essere in forza della natura formalmente dichiarativa degli enunciati giurisprudenziali, ovvero affinchè si possa parlare di “prospective overruling”, devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti:

– che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo;

– che tale mutamento sia stato “imprevedibile” in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso;

– che il suddetto “overruling” comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte.

Nella specie occorre quindi accertare se la “nuova” qualificazione della domanda giudiziale o meglio dell’esercizio dell’azione in giudizio, come condotta integrante un abuso del diritto ad agire (ovvero di abuso dei mezzi di tutela accordati dall’ordinamento), abbia ad oggetto l'”interesse sostanziale” sotteso alla tutela giurisdizionale o invece un effetto preclusivo interno allo stesso processo (analogo alla decadenza, preclusione, o altre sanzioni di tipo processuale): in sostanza occorre accertare se l’abuso del processo determini una “improponibilità” della domanda (per insussistenza di un interesse sostanziale meritevole di tutela) ovvero determini una “inammissibilità” della domanda (che la esistenza di detto interesse sostanziale invece presuppone, e che si risolve in una sanzione di inaccessibilità alla tutela in conseguenza della condotta o della omissione imputabile alla parte interessata).

La questione può essere ancora meglio riproposta incentrandola interamente sulle esigenze di natura pubblicistica (ossia su interessi pubblici ordinamentali indisponibili dai privati), di rilevanza costituzionale, espresse dall’art. 111 Cost., riformato, venutesi ad affermare nel loro carattere prescrittivo e non soltanto orientativo, che hanno determinato la qualifica “abusiva” di una condotta precedentemente non ritenuta tale (secondo la interpretazione nomofilattica della Corte).

Un tentativo ricostruttivo di tale vicenda è stato tentato dal precedente – già citato – di questa Corte 3^ sez. n. 28286 del 2011, che si è posta la questione della modifica intertemporale della interpretazione nomofilattica in ordine al principio del frazionamento della domanda avente ad oggetto il credito risarcitorio, nelle sue diverse componenti patrimoniali e non patrimoniali, derivante dal medesimo illecito, ritenendo tuttavia estranea alla fattispecie l’applicazione dell’istituto del “prospective overruling”, alla stregua dei seguenti argomenti:

– l’arresto delle SS.UU. n. 23726 del 2007 non riguardava le ipotesi esaminate dalla giurisprudenza formatasi in tema di overruling, concernenti la interpretazione di norme cui si ricollegavano effetti processuali sfavorevoli alla parte, come decadenze o preclusioni relative al compimento di atti del processo;

– difettava in ogni caso la esigenza della tutela di un “affidamento incolpevole” della parte sulla applicazione di una regola processuale, atteso che il principio costituzionale del “giusto processo”, inteso come affermazione della tendenziale esigenza che la parte che faccia valere un interesse meritevole di tutela ha diritto di ottenere una pronuncia sul merito (cfr. Corte Cass. ord. n. 14627/2010), non può neppure astrattamente profilarsi in relazione ad una “abusiva” richiesta di tutela giudiziaria, atteso che il principio del giusto processo, espresso dall’art. 111 Cost., comma 1, non consente più di utilizzare, per l’accesso alla tutela giudiziaria, metodi divenuti incompatibili con valori avvertiti come preminenti ai fini di un efficace ed equo funzionamento del servizio della giustizia, e impedisce, perciò, di accordare protezione ad una pretesa priva di meritorietà e caratterizzata per l’uso strumentale del processo (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 28286 del 22/12/2011, in motivazione: “Ora, qui non si tratta di impedire ex post l’esercizio di una tutela di cui l’ordinamento continua a ritenere la parte meritevole, quanto di non più consentire di utilizzare, per l’accesso alla tutela giudiziaria, metodi divenuti incompatibili con valori avvertiti come preminenti ai fini di un efficace ed equo funzionamento del servizio della giustizia”).

Secondo il precedente di legittimità sopra richiamato, deve – quindi – ritenersi che l’abuso del processo ovvero l’azione giudiziale non conforme alla esigenza costituzionale del “giusto processo”, come sopra definita, viene a riflettersi negativamente sullo stesso interesse di diritto sostanziale (bene della vita) che si intende “abusivamente” tutelare, non essendo ravvisabile alcun diritto al risarcimento del danno (completamente definito nell’an e nel quantum) “ulteriormente” tutelabile se la azione risarcitoria sia stata già promossa e limitata ad una minore quantità del credito (ad esempio relativo ad alcune voci soltanto del danno), ovvero soltanto ad alcuno dei crediti (già scaduti ed esigibili) afferenti al medesimo rapporto obbligatorio.

In sostanza la “nuova” azione giudiziaria sarebbe da considerare “improponibile” per difetto dello stesso interesse sostanziale tutelabile, in quanto quest’ultimo sarebbe già venuto alla cognizione dell’AGO – o meglio avrebbe dovuto essere dedotto ed accertato nella sua interezza – nel precedente giudizio instaurato dal creditore. Indipendentemente dalle note teorie dottrinarie sostanzialiste o processualiste che configurano l'”azione in giudizio” come un onere strumentale alla attuazione del diritto/interesse sostanziale ovvero come un vero e proprio diritto soggettivo processuale (esercitabile con la proposizione della domanda) distinto dall’interesse sostanziale di cui si chiede tutela, i valori costituzionali del “giusto processo” e della “ragionevole durata del giudizio”, che si risolvono nella garanzia di un efficiente esercizio della funzione giudiziaria – dovendo, pertanto, misurarsi anche con le risorse economico-finanziarie disponibili per l’apprestamento del servizio, in considerazione dei limiti imposti dal principio dell’equilibrio di bilancio dello Stato e delle Pubbliche Amministrazioni, che riceve anch’esso copertura costituzionale ex art. 81 Cost., comma 1, e art. 97 Cost., comma 1 -, comportano la assoluta incompatibilità di una proliferazione di giudizi tra le stesse parti vertenti su diritti scaturenti dal medesimo rapporto giuridico, incompatibilità che si traduce, in seguito all’esercizio dell’azione, nella “consumazione” del diritto di agire in giudizio, quale strumento apprestato dall’ordinamento per ottenere la piena ed integrale soddisfazione della intera o di tutte le pretese derivanti dal medesimo rapporto giuridico.

Ne segue che il diritto sostanziale (nella specie il diritto di credito al risarcimento del danno) non può sopravvivere in modo “parziale” ed “autonomo” rispetto a quello accertato nel primo giudizio promosso dal creditore, e dunque, il giudizio successivamente proposto salvo che non si ravvisi coincidenza o continenza di pretesa, tale da legittimare la riunione dei processi- dovrà definirsi con dichiarazione di “improponibilità della domanda” per carenza assoluta di un’autonoma situazione giuridica sostanziale tutelabile, tale non potendo ravvisarsi la tutela di un diritto nell'”abuso del processo” che realizza un illecito (condotta non jure).

L'”overruling” determinato dalla sentenza delle SS.UU. n. 23726 del 2007 viene dunque ad investire il piano del diritto oggettivo (venendo a negare la esistenza dello stesso diritto od interesse sostanziale, per la residua parte che non era stata precedentemente azionata) e non della interpretazione delle norme processuali che comminano preclusioni o decadenze, in tal senso collocandosi al di fuori delle condizioni individuate dalle SS.UU. n. 15144 del 2011 per impedire la applicazione “ora per allora” della norma processuale secondo la nuova interpretazione fornita dalla Corte.

Non osta in contrario il rilievo secondo cui la tesi della consumazione del diritto di azione a tutela del diritto o dei diritti derivanti dal medesimo rapporto, viene di fatto a tradursi nella individuazione di un “contenuto minimo inderogabile della domanda” (ex art. 99 c.p.c., ed art. 24 Cost., comma 1), richiedendosi che la tutela giudiziaria deve sempre e comunque coincidere con la “intera pretesa” azionabile in un dato momento. Tuttavia tale prospettazione deve ritenersi soltanto apparente in quanto il discrimine indicato dalle SS.UU. del 2007, tra la domanda conforme alla esigenza del “giusto processo”, e la domanda che si traduce invece in un “abuso del processo”, riconduce la qualificazione della stessa iniziativa giudiziaria sul piano della liceità/illiceità della condotta del creditore, e dunque ad una qualificazione giuridica della fattispecie “a monte” dello stesso processo.

Il preminente valore costituzionale del “giusto processo” introdotto dall’art. 111 Cost., alla stregua del quale deve essere condotta la verifica dell'”abuso del diritto al processo”, ne giustifica l’applicazione ai processi in corso, risultando tale verifica compatibile con la interpretazione fornita dalla Corte EDU del diritto di difesa e ad un equo processo, ex art. 6 CEDU, secondo cui la retroattività delle leggi che vada ad incidere su controversie pendenti, è consentita solo se giustificata da “ragioni imperative di interesse generale” (come ribadito anche dalla Corte cost. sentenza 5.4.2012 n. 78).

Tale il quadro giurisprudenziale di riferimento, che sottrae il principio di infrazionabilità della domanda alla applicazione del “prospective overruling”, tuttavia ritiene il Collegio che la fattispecie in esame non possa ritenersi neppure assoggettata al principio di diritto enunciato dalle SS.UU. n. 237126/2007, richiamato dal Corte Cass. 3^ sez. 28286/2011.

La peculiarità della fattispecie va infatti rinvenuta nel coordinamento tra le diverse discipline processuali che regolano l’esercizio dell’azione giudiziaria – avente ad oggetto la domanda di risarcimento del danno – in sede penale ed in sede civile.

Non risulta oggetto di contestazione che, in seguito alla instaurazione del procedimento penale nei confronti del conducente del veicolo imputato del reato di omicidio colposo per aver determinato, a causa del sinistro stradale, il decesso di C. Giovanna trasportata sul motoveicolo condotto da C.G., quest’ultimo aveva esercitato l’azione civile per risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti dal reato, costituendosi, con atto in data 27.3.1998, parte civile nel procedimento penale ex art. 78 c.p.p., ed estendendo la domanda anche nei confronti della società proprietaria dell’autoveicolo e della società assicurativa della RCA, quale responsabili civili (fatti allegati nel ricorso per cassazione e non contestati dalla resistente UNIPOLSAI Ass.ni s.p.a.). Nelle more delle indagini preliminari il C. aveva, quindi, proposto azione in sede civile avanti il Giudice di Pace di Napoli, con atto di citazione notificato in data 9.6.1999 ai predetti soggetti, richiedendo il risarcimento dei soli danni materiali al ciclomotore.

La definizione del procedimento penale, con sentenza in data 26.5.2000 del Pretore di Napoli di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p. (divenuta irrevocabile a seguito della sentenza di questa Corte del 9.4.2001 dichiarativa della inammissibilità del ricorso proposto dalla parte civile), ha comportato il venire meno dell’obbligo del Giudice penale di pronunciare sulle domande civili, ai sensi dell’art. 444 c.p.p., comma 2, con la conseguenza che la introduzione avanti il Tribunale di Napoli del giudizio avente ad oggetto il risarcimento dei danni alla persona, già richiesti con l’atto di costituzione di parte civile, lungi dall’apparire una scelta liberamente adottata dal C. diretta a parcellizzare il credito vantato nei confronti dell’autore dell’illecito, di Parmentola s.a.s. e della società assicuratrice della RCA, si rendeva all’evidenza un percorso obbligato, in assenza di altre alternative processuali, per ottenere in via giudiziale la liquidazione dei danni che esulavano dalla competenza “ratione valoris” del Giudice di Pace. Ed, infatti, se il principio di infrazionabilità della domanda risarcitoria – in ordine al quale peraltro vi era contrasto nella giurisprudenza di legittimità fino all’anno 2000 – avrebbe potuto, in ipotesi, veicolare la eccezione o il rilievo di ufficio della improponibilità della domanda, nel giudizio relativo ai danni materiali introdotto avanti al Giudice di Pace, avuto riguardo alla contemporanea pendenza di analogo giudizio risarcitorio – avente titolo nello stesso fatto illecito – relativo ai danni alla persona, precedentemente instaurato mediante la costituzione di parte civile nel procedimento penale, tale eccezione o rilievo ex officio non potevano essere formulati nel nuovo giudizio proposto con atto di citazione notificato in data 30.5.2002 avanti il Tribunale di Napoli, stante il carattere necessitato della “riproposizione” dell’azione risarcitoria in sede civile, imposto dalla indicata disposizione dell’art. 444 c.p.p., comma 2.

Le considerazioni che precedono determinano l’accoglimento del ricorso, quanto al primo motivo, assorbiti gli altri, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio della causa alla Corte d’appello di Napoli in diversa composizione affinchè proceda all’esame dei motivi di gravame proposti dall’appellante C.G..

PQM

La Corte:

– accoglie il ricorso, quanto al primo motivo, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Napoli, in diversa composizione, che procederà all’esame dei motivi di gravame proposti dall’appellante, liquidando all’esito anche le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 25 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2017

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