Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9254 del 03/04/2019

Cassazione civile sez. trib., 03/04/2019, (ud. 20/03/2019, dep. 03/04/2019), n.9254

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – rel. Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 7631/12 R.G., proposto da:

SVECOM-P.E. s.r.l., in persona del legale rapp.te p.t., rappresentata

e difesa, giusta mandato in calce al ricorso, dall’Avv. Stefano

Zunarelli e dall’Avv. Lorenzo del Federico, elettivamente

domiciliata in Roma, alla via della Scrofa n. 64, presso l’Avv.

Vincenzo Cellamare, Studio Legale Zunarelli ed Associati;

– ricorrente –

contro

AGENZIA delle ENTRATE, in persona del direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma via dei Portoghesi 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

AGENZIA delle ENTRATE – Centro Operativo di Pescara (di seguito, per

brevità COP), in persona del direttore pro tempore, (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 805/10/11 della Commissione Tributaria

Regionale dell’Abruzzo, depositata in data 04.08.2011, non

notificata;

Udita la relazione svolta dal Consigliere d’Angiolella Rosita nella

camera di consiglio del 20 marzo 2019.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La società SVECOM-P.E. s.r.l., ricorreva alla Commissione Territoriale Provinciale di Pescara (di seguito, per brevità, CTP) per l’annullamento del provvedimento di diniego di nulla osta alla fruizione del credito di ricerca e sviluppo di cui alla L. 27 dicembre 2006, n. 296, a seguito di domanda introdotta secondo le procedure di cui al D.L. 29 novembre 2008, n. 185.

La CTP respingeva il ricorso. Avverso la sentenza della CTP, proponeva appello la società che veniva pur esso respinto dalla CTR dell’Abruzzo.

La società SVECOM-P.E. s.r.l. ricorre, quindi, per la cassazione della suddetta sentenza, sulla base di sei motivi. L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

Questa Corte, in altro procedimento avente identico oggetto, con ordinanza interlocutoria n. 3576 del 2015, recependo alcune considerazioni della società in esso ricorrente, dichiarava non manifestamente infondata, e rilevante, la questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 185 del 2008, art. 29, comma 1, convertito in L. n. 2 del 2009, nella parte in cui non fa salvi i diritti di terzi per le spese sostenute, ai sensi della L. n. 296 del 2006, prima dell’entrata in vigore del suddetto D.L. n. 185 del 2008, nonchè dello stesso provvedimento, art. 2, lett. a) e art. 3, e dell’art. 29, lett. a), in relazione all’art. 3 Cost.

Trasmetteva, pertanto, gli atti alla Corte Costituzionale e sospendeva quel giudizio.

La Corte Costituzionale si pronunciava sulla questione con sentenza n. 149 del 2017, con cui la dichiarava in parte inammissibile ed in parte infondata.

La società ricorrente ha presentato memorie ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorso va respinto.

Su tutte le questioni oggetto dei sei motivi di ricorso, questa Corte, in procedimenti analoghi, già ha espresso il proprio orientamento, al quale si intende qui dare seguito.

Prima di procedere all’esame di motivi, appare opportuno tentare una breve ricostruzione normativa del credito d’imposta.

La L. n. 296 del 2006 (cd. finanziaria 2007) attribuiva un credito di imposta del 10% (poi innalzato al 40% ex L. 24 dicembre 2007, n. 244, per i contratti con le Università) per il periodo 2007-2009 per il sostenimento di costi di ricerca e sviluppo (la norma è stata poi abrogata nel 2012).

I costi non potevano superare, per ciascuna impresa e ciascun periodo d’ imposta, l’importo di 15 milioni di Euro (poi 50 milioni ex L. n. 244 del 2007).

Successivamente, il D.L. n. 185 del 2008, art. 29, comma 1, ha modificato la normativa precedente stabilendo che tutti i crediti di imposta vigenti (inclusi quelli della L. n. 296 del 2006) fossero soggetti ad un tetto massimo fruibile dalle imprese (375 milioni per 2008, 533 milioni per 2009) ai sensi della normativa generale già in vigore per i crediti di imposta, rappresentata dal D.L. 8 luglio 2002, n. 138, convertito in L. 8 agosto 2002, n. 178.

Per i crediti d’imposta di cui alla L. n. 296 del 2006 occorreva, quindi, una selezione dei contribuenti da ammettere al beneficio (e che non ne avessero già usufruito nel periodo anteriore al novembre 2008 – eventualmente in compensazione), anche per i crediti maturati prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 185 del 2008 perchè relativi a costi sostenuti – ai sensi della già citata L. n. 296 del 2006 – prima di tale data, per il caso in cui i contribuenti non ne avessero già usufruito.

Il D.L. n. 185 del 2008, art. 29, commi 2, 3 e 5 previde, per la selezione, l’invio da parte dei contribuenti di un formulario telematico, distinguendo due differenti regimi a seconda che trattavasi di attività di ricerca già avviate prima del 29 novembre 2008 (data di entrata in vigore del D.L. n. 185 del 2008), ovvero successivamente a tale data con efficacia, in tal caso, di prenotazione dell’accesso alla fruizione del credito di imposta, con una finestra temporale entro la quale introdurre le domande, poi stabilita con successivo atto amministrativo nel periodo decorrente dalle ore 10 del 6.5.2009 (giorno denominato poi comunemente “click day”) alle ore 24 del 5.6.2009.

Proprio sulla base di tale previsione, la società ricorrente presentò, quindi, la domanda, ricevendo, in data 15/06/2009, in via telematica, la comunicazione del diniego alla fruibilità del credito d’ imposta per esaurimento delle risorse finanziarie.

Successivamente, al fine di sopperire all’esaurimento delle disponibilità finanziarie, la L. 23 dicembre 2009, n. 191, art. 2,comma 236 (come modificato dal D.L. 25 marzo 2010, n. 40, art. 4, comma 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 22 maggio 2010, n. 73) dispose – per gli anni 2010 e 2011 – uno stanziamento di ulteriori risorse destinate al finanziamento del credito d’imposta in argomento (complessivamente pari a 350 milioni di Euro). Con D.M. sviluppo economico emanato il 4 marzo 2011 di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sono state individuate le modalità di utilizzo dell’ulteriore stanziamento disposto dalla L. 23 dicembre 2009, n. 191, art. 2, comma 236. Con le nuove risorse, il credito di imposta divenne utilizzabile nella misura massima del 47,53%.

Come anticipato in narrativa, questa Corte aveva sollevato questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 185 del 2008, art. 29, comma 1, per violazione dell’art. 3 Cost., in relazione al trattamento normativo per i crediti già maturati nel 2007 e 2008, anteriormente all’entrata in vigore del suddetto D.L. n. 185 del 2008, per violazione del principio dell’affidamento dei privati nei confronti della Pubblica Amministrazione.

In via subordinata, aveva anche sollevato questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 185 del 2008, art. 29, commi 2, lett. a) e 3, per violazione dell’art. 3 Cost., per avere fondato la procedura di selezione su mero criterio cronologico.

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 149 del 2017, ha dichiarato in parte infondate ed in parte inammissibili le questioni.

2. Fatta questa breve premessa e passando all’esame dei motivi di ricorso per cassazione, con il primo motivo SVECOM-P.E. s.r.l., deduce l’illegittimità costituzionale del D.L. 29 novembre 2008, n. 185, art. 29, commi 1, 2 e 3, convertito in L. 28 gennaio 2009, n. 2, per violazione degli artt. 3,41,97 e 117 Cost, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Al riguardo, si rileva che in relazione all’asserito contrasto della suddetta normativa con gli artt. 41,97 e 117 Cost. si è già espressa questa Corte con l’ordinanza interlocutoria della sezione VI, 23/02/2015 n. 3576 (Rv. 634445 – 01), dichiarando la questione infondata, con motivazioni che questo collegio condivide ed alle quali si richiama espressamente.

In relazione al contrasto con l’art. 3 Cost., si ribadisce che la questione è stata trasmessa, con la stessa ordinanza di questa Corte, alla Corte Costituzionale, che con sentenza n. 149 del 2017 ha dichiarato infondata la questione in merito al D.L. n. 185 del 2008, art. 29, comma 1 ed inammissibile in merito al D.L. n. 185 del 2008, art. 29, comma 2.

In riferimento alla prima questione, relativa al contrasto del D.L. n. 185 del 2008, art. 29, comma 1, con l’art. 3 Cost. – che, in sostanza, si traduce nell’asserita violazione del principio dell’affidamento perchè lo Stato italiano dapprima (nel 2006) ha riconosciuto un credito d’imposta per la spese per ricerca, senza prevedere un tetto massimo per l’utilizzo di tale credito, e successivamente (nel 2008) ha introdotto tale tetto, operante anche per i crediti relativi alle spese sostenute prima che la nuova normativa entrasse in vigore (e quindi le spese sostenute tra il 2006 ed il 2008) -, la Corte Costituzionale ha dichiarato infondata la questione affermando che un intervento retroattivo del legislatore che incida su diritti soggettivi perfetti non è di per sè in contrasto con la Costituzione se non è irrazionale, se è giustificato a salvaguardia di altri valori costituzionali e se è proporzionato; nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che la mancanza di tetto massimo per la fruibilità dei crediti di imposta giustificasse un intervento anche retroattivo per salvaguardare le finanze statali (artt. 2,3 e 81 Cost); inoltre, gli ulteriori interventi normativi, di cui alla L. n. 191 del 2009 per tutelare le posizioni dei titolari di crediti “perdenti”, hanno salvaguardato il rispetto dei principi di ragionevolezza e proporzionalità dell’intera disciplina.

In merito alla seconda questione, relativa al contrasto del D.L. n. 185 del 2008, art. 29, commi 2, lett. a) e 3, con l’art. 3 Cost., – che, in sostanza, si traduce nel dubbio sulla legittimità di un sistema di fruibilità dei crediti basato su un meccanismo, quale quello della priorità temporale della domanda telematica fino ad esaurimento risorse, che conduce a risultati del tutto scollegati non solo dal merito delle ragioni di credito ma anche dalla solerzia nel loro esercizio, perchè fondato su elementi, in fin dei conti, casuali, quale la velocità dei meccanismo di trasmissione informatica all’interno di una marea vastissima di concorrenti – occorre sempre riferirsi a quanto affermato dalla Corte Costituzionale, che ha dichiarato inammissibile la questione perchè un eventuale accoglimento della stessa determinerebbe un nuovo assetto normativo “caratterizzato da iniquità e irragionevolezza”, in quanto nel frattempo il legislatore è intervenuto con la L. n. 191 del 2009 per salvaguardare, almeno in parte, la posizione dei “perdenti”, cosicchè la dichiarazione della illegittimità della normativa del 2008 farebbe perdere ai “vincitori” il beneficio ottenuto, senza che gli stessi possano essere recuperati ai sensi della L. n. 191 del 2009, dato che i finanziamenti da essa previsti sono riservati ai soli “perdenti” della prima procedura.

3. Con il secondo motivo la società ricorrente deduce la contraddittorietà ed illogicità della motivazione circa un fatto controverso e risolutivo per la definizione del giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

La contraddizione consisterebbe nel fatto che mentre, da un lato, la CTR ha riconosciuto la sussistenza di un diritto soggettivo a fruire del credito, dall’altro, invece, ne ha negato la natura di diritto soggettivo pieno ed illimitato, affermando che il D.L. n. 185 del 2008 ha inciso solo sulle modalità di fruizione, mentre doveva rilevare la illegittimità del diniego proprio in quanto il diritto, in realtà, è stato soppresso e non ne è stata semplicemente disciplinata la modalità di fruizione.

Posto che al relativo motivo di gravame si applica l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) vecchia formulazione, nella versione ante 2012, sebbene successiva al 2006, ricorrendosi per la cassazione della sentenza depositata in data 04/08/2011, tale motivo, oltre ad essere al limite dell’inammissibilità, risulta totalmente infondato.

Trattasi di doglianza al limite dell’inammissibilità in quanto il “fatto” della cui omissione o errata considerazione si duole il ricorrente è una valutazione giuridica e non, invece, un fatto storico. Senza voler ripercorrere i precedenti conformi di questa Corte (ex plurimis, cfr. Cass., sez. V, 05/02/2011 n. 2805) e senza voler scomodare l’interpretazione che di tale norma ne dà la dottrina processualistica, il “fatto” di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, è un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, ossia un “fatto principale”, ex art. 2697 c.c. (cioè un “fatto” costitutivo, modificativo impeditivo o estintivo) o anche un “fatto secondario” (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purchè controverso e decisivo. Nella specie, invece, il motivo di ricorso pone una questione puramente giuridica, che ha riguardo alla compatibilità tra la pienezza del diritto soggettivo ed i limiti imposti da una legge al suo esercizio, senza che si faccia riferimento alcuno ad un fatto “storico” e “fattuale” controverso e risolutivo per la definizione del giudizio.

In ogni caso, il motivo è infondato.

La decisione della CTR e le motivazioni che la hanno sorretta, non appaiono nè illogiche, nè contraddittorie, non potendosi ravvisare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5), nel riconoscere un diritto soggettivo in base alla prima normativa e nel riconoscere, poi, che la normativa successiva abbia inciso sulle modalità di utilizzazione, differita ai successivi esercizi ed in base alle disponibilità finanziarie. Piuttosto, in quanto se ne assume l’erroneità da un punto di vista giuridico, avrebbe, eventualmente, dovuto essere denunciato sotto il profilo dell’art. 360 c.p.c., n. 3).

4. Con il terzo motivo la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 3 (c.d. Statuto dei diritti del contribuente), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamenta, in sostanza, che la CTR ha errato a non censurare l’applicazione retroattiva del D.L. n. 185 del 2008 che ha introdotto un tetto massimo per la fruibilità del credito d’imposta anche per i crediti maturati anteriormente.

Il motivo è infondato.

Sul punto, è sufficiente riportarsi a quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella più volte citata sentenza n. 149 del 2017, laddove è affermato (paragrafi 9 – 12) che un intervento normativo anche retroattivo, incidente su diritti perfetti, non è necessariamente incostituzionale, purchè risponda a criteri di razionalità, di salvaguardia di altri valori costituzionali e di proporzionalità; nella specie, la Corte ha rilevato che l’intervento era necessario per tutelare altri sopravvenuti interessi pubblici di rilievo costituzionale, quale la tutela dell’equilibrio del bilancio dello Stato, sicchè, nel necessario bilanciamento degli interessi in gioco, quest’ultimo elemento non rende illegittima la normativa sopravvenuta nel 2008.

5. Con il quarto motivo la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 10,comma 2 e dei principi comunitari in tema di legittimo affidamento, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Il motivo è infondato.

La Corte Costituzionale, nel paragrafo 9 del “considerato” della sentenza 149 del 2017, ha affermato che “il valore del legittimo affidamento non esclude che il legislatore possa assumere disposizioni che modifichino in senso sfavorevole agli interessati la disciplina di rapporti giuridici anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti, ma esige che ciò avvenga alla condizione che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica (sentenze n. 56 del 2015, n. 302 del 2010, n. 236 e n. 206 del 2009). Solo in presenza di posizioni giuridiche non adeguatamente consolidate ovvero in seguito alla sopravvenienza di interessi pubblici che esigano interventi normativi diretti a incidere peggiorativamente su di esse, ma sempre nei limiti della proporzionalità dell’incisione rispetto agli obiettivi di interesse pubblico perseguiti, è consentito alla legge di intervenire in senso sfavorevole su assetti regolatori precedentemente definiti (ex plurimis, sentenza n. 56 del 2015).” (cfr. sentenza n. 216 del 2015; si vedano anche, tra le tante, le sentenze n. 160 e n. 103 del 2013, n. 416 del 1999).

L’intervento retroattivo del legislatore, dunque, può incidere sull’affidamento dei cittadini a condizione che: 1) trovi giustificazione in “principi, diritti e beni di rilievo costituzionale” (ex plurimis, sentenza n. 308 del 2013), e dunque abbia una “causa normativa adeguata” (sentenze n. 203 del 2016, n. 34 del 2015 e n. 92 del 2013), quale un interesse pubblico sopravvenuto (sentenze n. 16 del 2017, n. 216 e n. 56 del 2015) o una “inderogabile esigenza” (sentenza n. 349 del 1985); 2) sia comunque rispettoso del principio di ragionevolezza (fra le tante, sentenza n. 16 del 2017) inteso, anche, come proporzionalità (sentenze n. 203 e n. 108 del 2016; n. 216 e n. 56 del 2015).

Ha quindi ritenuto che, nella specie, si siano verificati i requisiti che hanno giustificato l’intervento normativo, per la salvaguardia di principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, e cioè la necessità di mantenere il bilancio dello Stato nel rispetto dei parametri approvati anche in sede Europea, con la possibilità, al contempo, di creare disponibilità finanziarie per rilanciare l’economia e tutelare i lavoratori e le famiglie, a fronte di una situazione di una eccezionale crisi internazionale generalizzata (infatti, il D.L. n. 185 del 2008 era denominato nel linguaggio atecnico “decreto anticrisi”).

Nella specie, come già ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, per quanto la CTR abbia fornito un’interpretazione del principio di legittimo affidamento più restrittiva di quella ammessa dalla stessa Corte Costituzionale e dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea – interpretazione secondo la quale il principio non opera in relazione agli atti del legislatore, ma solo riguardo all’Amministrazione, mentre, al contrario, il giudice delle leggi nazionale e la Corte di Giustizia ritengono che il principio coinvolga anche l’esercizio della funzione legislativa – tuttavia l’imprecisione diventa irrilevante nell’economia complessiva del giudizio, in quanto non solo la Corte Costituzionale, come sopra evidenziato, ma anche la stessa Corte di Giustizia, in qualche occasione, ha ammesso che l’applicazione del principio possa flettersi di fronte ad interventi legislativi in presenza situazioni particolari e a determinate condizioni.

Quest’ultima, in particolare, – per quanto possa rilevare nella misura in cui la materia sia regolata da norme Euro-unitarie – si è già occupata della definizione del concetto di legittimo affidamento, ed ha affermato che, per quanto lo stesso sia un principio fondamentale dell’ordinamento dell’Unione, non si traduce nell’aspettativa di intangibilità di una normativa, in particolare in settori in cui è necessario, e di conseguenza ragionevolmente prevedibile, che le norme in vigore vengano continuamente adeguate alle variazioni della congiuntura economica (cfr. Corte Giust., sentenza del 23.11.1999 nella causa C-149/96).

Di conseguenza, gli operatori economici non possono fare legittimamente affidamento sulla conservazione di una situazione esistente che può essere modificata nell’ambito del potere discrezionale delle istituzioni comunitarie (vedasi sentenza 15 luglio 1982, causa 245/81, Edeka, Race. 1982, pag. 2745, punto 27 della motivazione; sentenza 28 ottobre 1982, causa 52/81, Faust, Race. 1987, 3745, punto 27 della motivazione; sentenzal7 giugno 1987, cause riunite 424 e 425/85, Frico, Race. 1979, pag. 2755, punto 33 della motivazione) (Corte Giust., caso C-350/88).

D’altro canto è in questa linea interpretativa, che, seppur nel diverso ambito delle concessioni di derivazione di acque pubbliche a scopo idroelettrico, si sono pronunciate le sezioni Unite di questa Corte con la recente sentenza n. 16157 del 19/06/2018, Rv. 649293-01, affermando la conformità costituzionale della relativa disciplina tributaria rimessa alla volontà del legislatore, nel rispetto dei canoni di non arbitrarietà o irrazionalità della scelta legislativa.

Va altresì ricordato che la normativa del D.L. n. 158 del 2008 (che, per inciso, non ha creato un istituto “ex novo”, ma ha esteso una disciplina generale sui crediti d’imposta già in vigore in quel momento – cioè la previsione di un tetto massimo – al credito di imposta specifico) è stata dettata, come ricordato dalla stessa Corte Costituzionale, e come emerge del resto dallo stesso preambolo del testo legislativo, dalla eccezionale situazione di crisi economica venutasi a creare a livello internazionale in quel momento e dalla necessità per lo Stato italiano di rispettare gli impegni sui parametri economici connaturati alla appartenenza alla Unione Europea. Inoltre, lo Stato ha regolato, con il successivo intervento di cui alla L. n. 191 del 2009, le situazioni che si erano venute a verificare a detrimento dei c.d. “perdenti” nella procedura di cui al D.L. n. 185 del 2008.

6. Con il quinto motivo di ricorso la società deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, nonchè della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Afferma, in sostanza, che il provvedimento di diniego è illegittimo perchè non motivato.

La L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, prevede che “Gli atti dell’amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto prescritto dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, concernente la motivazione dei provvedimenti amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’Amministrazione. Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama.”

La L. n. 241 del 1990, art. 3, stabilisce, al comma 1, che “1. Ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere motivato, salvo che nelle ipotesi previste dal comma 2. La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”; al comma 2 che “2. La motivazione non è richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale.”.

Il motivo è infondato.

La CTR sul punto ha ritenuto che seppur succintamente il provvedimento ha illustrato in maniera evidente le ragioni per cui il credito d’imposta non veniva concesso, e cioè “esaurimento delle risorse”, così come era chiaro che il diniego si riferiva a tutte le somme stanziate fino al 2011.

In tema di motivazione di atti (nella specie, ruolo e cartella), la giurisprudenza di questa Corte afferma che è sufficiente l’indicazione degli elementi che permettano di controllare la legittimità della procedura cui esso si riferisce (cfr. Cass., Sez. V, 25/05/2011 n. 11466).

In base a tale consolidato orientamento, è evidente che l’interpretazione che la CTR ha dato del concetto di “motivazione” dell’atto è corretta, avendo la stessa ritenuto che l’atto permettesse di comprendere appieno le ragioni del diniego.

7. Con il sesto motivo la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 2, nonchè della L. n. 241 del 1990, art. 21-octies, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per aver la CTR male interpretato la norma sul responsabile del procedimento ritenendo sufficiente l’indicazione del direttore del Centro Operativo di Pescara.

Il motivo è infondato.

Sul punto si richiama la giurisprudenza di questa Corte, alla quale s’intende dare seguito, secondo cui “Il diniego dell’agevolazione di cui alla L. n. 296 del 2006, in tema di credito di imposta per spese di ricerca e sviluppo, è un atto vincolato, in quanto emesso all’esito di un procedimento interamente telematico, nel quale la domanda viene elaborata mediante assegnazione automatica dei fondi fino ad esaurimento delle risorse in base ad un criterio meramente cronologico: ne deriva che trova applicazione la L. n. 241 del 1990, art. 21-octies, che esclude la nullità del provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, quando, per la natura vincolata dello stesso, quest’ultimo non avrebbe potuto avere un contenuto diverso da quello in concreto assunto.” (cfr. Cass. Sez. V, n. 5733 del 09/03/2018, Rv. 647279 02).

La CTR ha, dunque, correttamente argomentato che il provvedimento di rilascio del nulla osta aveva natura di atto vincolato (e non discrezionale) dipendendo esso esclusivamente dalla disponibilità delle risorse finanziarie e dall’ordine cronologico di arrivo delle domande, con conseguente esclusione della possibilità del suo annullamento L. n. 241 del 1990, ex art. 21 octies.

Ha altresì correttamente rilevato che la procedura di riconoscimento del credito d’imposta è stata gestita da un elaboratore elettronico ragione per cui non esisteva un procedimento nel cui ambito il contribuente avrebbe potuto interloquire con un funzionario della PA, sicchè era superflua l’indicazione del responsabile del procedimento (cfr. pag. 7 sentenza).

La CTR riporta altresì l’immutato indirizzo di questa Corte secondo cui l’indicazione del responsabile del procedimento negli atti dell’amministrazione finanziaria non è richiesta dalla L. n. 212 del 2000, art. 7, a pena di nullità posto che tale sanzione è stata introdotta dal D.L. n. 248 del 2007, convertito nella L. n. 31 del 2008, in relazione alle sole cartelle di pagamento riferite ai ruoli consegnati agli agenti della riscossione a decorrere dal 1^ giugno 2008.

Al riguardo si evidenzia che quest’ultima norma non è applicabile alla fattispecie perchè l’atto impugnato è un diniego di agevolazione e come tale ha natura diversa dalla cartella di pagamento (cfr. Cass., sezione V, n. 33266 del 2018).

Va infine osservato che la CTR ha dato atto del fatto che, inoltre, l’indicazione di un nominativo al quale riferire il provvedimento, e quindi il procedimento, era presente sull’atto, nella persona del direttore del Centro Operativo di Pescara.

Va evidenziato, al riguardo, che questa Corte ha avuto modo di affermare, sempre in riferimento alle cartelle ma con un principio che appare applicabile in generale, che, al fine di non incorrere in nullità, è sufficiente l’indicazione sull’atto di una persona responsabile del procedimento, a prescindere quindi dalla funzione (apicale o meno) della stessa effettivamente esercitata; siffatta indicazione appare, infatti, sufficiente ad assicurare gli interessi sottostanti alla detta indicazione, che sono la trasparenza dell’attività amministrativa, la piena informazione del cittadino (anche ai fini di eventuali azioni nei confronti del responsabile) e la garanzia del diritto di difesa (cfr. Cass., Sez. VI-5, ord. n. 3533 del 2016).

8. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

9. Considerata la complessità della questione, sussistono giusti motivi per la compensazione tra le parti delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Compensa tra le parti le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della V sezione Civile della Corte di Cassazione, il 20 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 aprile 2019

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