Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9244 del 20/05/2020

Cassazione civile sez. III, 20/05/2020, (ud. 22/10/2019, dep. 20/05/2020), n.9244

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6135/2018 proposto da:

P.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SABOTINO, 46,

presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO ROMANO, rappresentato e

difeso dall’avvocato LUCA CERIELLO;

– ricorrente –

contro

U.A., personalmente e quale rappresentante della FONDERMETAL

SPA, domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE

DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato SIMONA MERISI;

– controricorrente –

e contro

FONDERMENTAL SPA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1639/2017 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 30/11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

22/10/2019 dal Consigliere Dott. GABRIELE POSITANO.

Fatto

RILEVATO

che:

con atto di citazione del 6 luglio 2007 l’avvocato P.D. evocava in giudizio Fondermetal s.p.a. e U.A. esponendo di avere svolto in favore dei convenuti attività professionale nell’ambito di un giudizio civile conseguente al sinistro stradale mortale che aveva coinvolto il dipendente della società, O.B., costituendosi con comparsa e chiamata in causa del terzo e partecipando a due udienze, all’esito delle quali il processo era intervenuta l’estinzione per trasmigrazione del processo in sede penale. Lamentava che la richiesta di pagamento delle competenze non avere avuto riscontro e chiedeva l’importo di Euro 15.600 nei confronti di Fondermetal s.p.a. e l’importo di Euro 18.600 circa nei confronti di U.A., per complessivi Euro 34.282, quale corrispettivo dell’attività professionale;

si costituivano Fondermetal s.p.a. e U.A. eccependo che era onere dell’attore fornire la prova dell’attività professionale svolta, trattandosi di la richiesta di duplice compenso, determinato nel massimo della tariffa; contestavano alcune voci in modo specifico ed offrivano banco iudicis l’importo di Euro 9558,24, a titolo di saldo, somma trattenuta alla prima udienza dal professionista;

con sentenza dell’11 dicembre 2014 il Tribunale di Bergamo rigettava le domande di parte attrice condannando P.D. al pagamento delle spese di lite e compensando le competenze relative alle fasi dell’attività istruttoria e di quella decisionale;

proponeva appello il professionista chiedendo il pagamento del maggior importo di Euro 43.746, dedotto l’acconto ricevuto in udienza. Si costituivano gli appellanti chiedendo il rigetto della impugnazione;

la Corte d’Appello di Brescia con sentenza del 30 novembre 2017, rigettava l’impugnazione condannando l’appellante al pagamento delle spese di lite. La Corte territoriale riteneva infondati tutti i motivi di appello, mentre con riferimento a quello relativo alla violazione dell’art. 91 c.p.c., riconosceva la non applicabilità di tale disposizione al giudizio in esame, in quanto instaurato nell’anno 2007, prima della riforma del 2009, avvisando comunque i presupposti per una reciproca soccombenza parziale, che legittimava una compensazione nella misura di un mezzo. In considerazione della tariffa applicabile, l’importo risultante sarebbe stato superiore a quello oggetto della condanna dell’appellante e per tale motivo, con diversa motivazione, confermava la decisione anche riguardo al capo delle spese di lite;

avverso tale decisione propone ricorso per cassazione P.D. affidandosi a cinque motivi. Resistono con controricorso U.A. e Fondermetal s.p.a..

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, la violazione di artt. 2735 e 1309 c.c., evidenziando che alla richiesta della parcella inviata con lettera del 14 marzo 2007, la società Fondermetal s.p.a. avrebbe risposto con lettera del 17 aprile 2007 con la quale si riconosceva il debito, quanto meno per l’importo di Euro 23.290. Contrariamente a tale dato documentale i giudici di merito avrebbero erroneamente ritenuto sussistente la contestazione della parcella;

preliminarmente va rilevato che il ricorso presenta profili di inammissibilità per violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 3, poichè nella parte dedicata al “fatto e svolgimento del processo” l’esposizione è assolutamente generica e discorsiva. Il ricorrente si limita a riferire di avere inviato una parcella per attività professionali connesse all’incidente con esito fatale avvenuto in azienda e che l’attività era consistita nell’assistenza ai rilievi disposti dalla Procura della Repubblica di Bergamo, sino alla costituzione nel giudizio civile intentato dagli eredi del defunto e successivamente estinto per esercizio dell’azione civile nel processo penale;

“terminato l’incarico in sede civile l’avvocato P. inviava la propria parcella per complessivi Euro 23.290 e Fondermetal s.p.a. rispondeva con lettera del 17 aprile 2007, senza contestare il contenuto della parcella, anzi pronta a liquidare la parcella dopo l’emissione della fattura. Ma non pagava. Seguiva il contenzioso davanti al Tribunale di Bergamo… Costituendosi in giudizio la sola Fondermetal s.p.a. pagava la somma di Euro 9558. Nulla pagava U.. Il giudizio proseguiva per la parte restante del debito. A distanza di otto anni dall’inizio della controversia il Tribunale di Bergamo pronunciava sentenza. Il medesimo Tribunale si era pronunciato già in altre cause liquidando parcelle al minimo del tariffario, secondo una regola già stigmatizzata nella sentenza della Corte d’Appello di Brescia n. 847 del 2015, mentre per un’altra sentenza è ancora pendente l’impugnazione in appello. Anche in questa sentenza il primo giudice aveva ritenuto satisfattivo il minimo del tariffario. La sentenza n. 409 del 2015 è stata impugnata davanti alla Corte d’Appello… anche in ragione del principio di cui alla sentenza 847 del 2015 della stessa Corte tra le stesse parti. L’udienza di precisazione è stata anticipata di oltre un anno ed è stata decisa con sentenza n. 1639 del 2017 ora impugnata per cassazione…”;

l’esposizione è carente e generica con riferimento alle specifiche richieste formulate e alla posizione adottata dai convenuti. Nulla si dice sul contenuto della sentenza del Tribunale di Bergamo n. 409 del 2015, l’unica che interessa il presente giudizio. Mentre parte ricorrente si dilunga sulla decisioni adottate da altri organi (Corte d’Appello e Tribunale) evidentemente nell’ambito di cause tra le stesse parti. Nulla si precisa riguardo ai motivi di appello se non “anche e proprio a ragione del principio di cui alla sentenza n. 847” che non è quella che riguarda il presente procedimento e di cui nulla si conosce in questa sede;

a prescindere da ciò il primo motivo è inammissibile perchè dedotto in violazione l’art. 366 c.p.c., n. 6, poichè parte ricorrente avrebbe dovuto trascrivere, allegare o individuare la sede dell’atto di appello e dimostrare di avere sottoposto a quel giudice gli elementi documentali richiamati. Inoltre, omette di precisare in quale fase del giudizio sarebbe stata tempestivamente depositata la richiesta del 14 marzo 2017 e il successivo carteggio e ciò in considerazione del fatto che parte controricorrente ha ritualmente allegato le contestazioni specifiche e la circostanza che le richieste originarie, come risulta anche dal contenuto della sentenza di appello, sono successivamente lievitate, evidenziando che la domanda oggetto di causa si riferisce ad importi diversi da quelli oggetto della originaria missiva;

con il secondo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360, nn. 3 e 5, la violazione dell’art. 115 c.p.c.. In particolare, la Corte avrebbe errato nell’affermare che “a fronte della contestazione di controparte l’attore era onerato della prova specifica di avere svolto attività relative alle singole voci richieste”, senza separare le voci contestate da quelle non contestate;

il motivo è inammissibile perchè non si confronta con la decisione impugnata nella quale la Corte ha espressamente affrontato il tema della specificità della contestazione evidenziando che “ad un’attenta analisi della comparsa di risposta di primo grado si evince i convenuti non si erano assolutamente limitati ad una contestazione generica dell’eccessivo ammontare delle somme ma, a pagina 3, avevano eccepito che la controparte non avesse provato le prestazioni per cui aveva chiesto il pagamento ed inoltre avevano specificamente contestato alcune voci (consultazioni con il cliente, esame documenti controparte), nonchè la duplicazione degli onorari”. Sulla base di questi elementi ha ritenuto che si trattasse di una contestazione specifica complessiva. Tale argomentazione non è presa in esame dal ricorrente;

con il terzo motivo si deduce, ai sensi delle norme indicate nel precedente motivo, la violazione di artt. 112 e 115 c.p.c., riguardo agli onorari per l’assistenza in materia penale. In particolare, gli onorari richiesti per l’attività in ambito penale non sarebbero stati contestati. “Non vi è traccia nella comparsa di costituzione di primo grado che è inutile ricopiare anche per il principio di autosufficienza del ricorso”;

il motivo è inammissibile perchè dedotto in violazione l’art. 366 c.p.c., n. 6, poichè è proprio il principio di autosufficienza che impone al ricorrente di trascrivere, innanzitutto il contenuto dell’atto di citazione relativo alla deduzione dell’attività professionale svolta davanti al giudice penale e, in secondo luogo, il contenuto della comparsa di costituzione nella parte relativa alla richiesta di onorari per l’attività svolta in sede penale, al fine di dimostrare la non contestazione delle specifiche voci;

con il quarto motivo si deduce la violazione gli artt. 112, 115 e 342 c.p.c., con riferimento ai decreti ministeriali in materia di liquidazione delle competenze professionali. Il ricorrente deduce che il Tribunale non avrebbe applicato il minimo del tariffario. Al contrario, la Corte territoriale “applica invece comunque i minimi del tariffario sebbene manchi la devoluzione in appello della questione”. In sostanza, la Corte territoriale non avendo elementi per liquidare gli onorari nella misura media avrebbe affermato che non vi sarebbero ragione per discostarsi dalla valutazione degli onorari nel minimo;

il motivo è inammissibile per difetto di specificità. Non vengono individuate le norme violate e non è chiarito il passaggio motivazionale censurato;

in ogni caso, l’argomentazione della Corte d’Appello è assolutamente lineare. A fronte di una sentenza di Tribunale che ha applicato una certa tariffa, l’appellante che intenda contrastare quella decisione ha l’onere di allegare gli elementi che consentono di operare una liquidazione superiore. In assenza di tali elementi (la Corte territoriale evidenzia che non è in atti il fascicolo di primo grado contenente la documentazione relativa all’attività professionale svolta) non è possibile modificare la statuizione del Tribunale;

infine, l’affermazione secondo cui gli onorari sarebbero stati liquidati al di sotto del minimo tabellare è assolutamente generica e indimostrata (parte ricorrente non ha individuato il valore della causa e gli ulteriori elementi necessari per operare una valutazione);

con il quinto motivo si lamenta la violazione gli artt. 91 e 92 c.p.c.. La Corte territoriale avrebbe rigettato il quarto motivo di appello, pur ravvisando l’errore nella sentenza del Tribunale di Bergamo che aveva applicato il nuovo testo dell’art. 91 c.p.c., ad un giudizio al quale la norma non avrebbe potuto essere riferita. La Corte d’Appello avrebbe errato perchè mancanza di appello incidentale si sarebbe sostituita nella regolamentazione delle spese applicando l’art. 92 c.p.c., sebbene non richiesta;

il motivo è infondato perchè la Corte territoriale dovendo comunque provvedere alla liquidazione delle spese di primo grado sulla base della norma applicabile (art. 92) ha operato una ragionevole (e non impugnata, sotto tale profilo) valutazione sul presupposto di una parziale soccombenza reciproca, prendendo atto che l’importo da corrispondere sarebbe stato più penalizzante rispetto a quello oggetto della decisione di primo grado. La pronunzia di compensazione delle spese non è sindacabile davanti alla Corte di legittimità sulla base del consolidato orientamento secondo cui “la facoltà di disporne la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione” (Sez. U., Sentenza n. 14989 del 15/07/2005, Rv. 582306-01);

ne consegue che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile; le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza. Infine, va dato atto – mancando ogni discrezionalità al riguardo (tra le prime: Cass. 14/03/2014, n. 5955; tra molte altre: Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) – della sussistenza dei presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione e per il caso di reiezione integrale, in rito o nel merito.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese in favore dei controricorrenti, liquidandole in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza della Corte Suprema di Cassazione, il 22 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2020

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