Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9231 del 20/05/2020
Cassazione civile sez. II, 20/05/2020, (ud. 15/01/2020, dep. 20/05/2020), n.9231
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente –
Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –
Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 20394/2019 proposto da:
R.U.M.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA
FLAMINIA n. 732, presso lo studio dell’avvocato ELVIRA RICCIO,
rappresentato e difeso dall’avvocato GIULIO CALABRETTA;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., domiciliato in
ROMA, VIA DEI PORTOGHESI N. 12, presso l’Avvocatura Generale dello
Stato che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1236/2019 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,
depositata il 12/06/2019;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del
15/01/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.
Fatto
FATTI DI CAUSA
R.U.M.A., cittadino del (OMISSIS), impugnava il provvedimento della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Crotone con il quale era stata rigettata la sua richiesta volta ad ottenere, in via principale, lo status di rifugiato, in subordine la protezione sussidiaria ed in ulteriore subordine il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. A sostegno dell’istanza il ricorrente deduceva di aver lasciato il Bangladesh in conseguenza delle discriminazioni subite a causa delle sue origini (il padre è originario del Pakistan); per tale motivo il richiedente narrava di esser stato ferito dai sostenitori del partito (OMISSIS) e produceva documentazione medica a riscontro dell’episodio.
Si costituiva il Ministero resistendo al ricorso ed invocandone il rigetto.
Con ordinanza del 23.10.2018 il Tribunale di Catanzaro rigettava il ricorso ritenendo insussistenti i requisiti previsti per il riconoscimento di una delle forme di tutela invocate.
L’odierno ricorrente interponeva appello contro la decisione del primo giudice e resisteva al gravame il Ministero. Con la sentenza oggi impugnata, n. 1236/2019, la Corte di Appello di Catanzaro respingeva l’impugnazione.
Propone ricorso per la cassazione della decisione di rigetto R.U.M.A. affidandosi a cinque motivi.
Il Ministero dell’Interno, intimato, nei ha svolto attività difensiva nel presente giudizio di legittimità.
Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 46, par. 3 della Direttiva 2013/32/CE, art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e art. 24 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, perchè la Corte di Appello avrebbe ritenuto non credibile la storia riferita senza disporre l’audizione del richiedente in sede giudiziale, al fine di consentirgli di chiarire le eventuali lacune riscontrate nelle sue dichiarazioni.
La censura è infondata. Non è infatti previsto alcun ascolto del richiedente la protezione internazionale o umanitaria dinanzi la Corte di Appello, posto che le disposizioni di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, si riferisce al giudizio dinanzi il Tribunale.
Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, perchè la Corte calabrese avrebbe ritenuto non credibile il racconto del richiedente la protezione basandosi solo sulle sue dichiarazioni rese in occasione del colloquio dinanzi la Commissione territoriale, senza ottemperare al dovere di cooperazione istruttoria per apprezzare le predette dichiarazioni alla stregua dei criteri di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007.
Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, nonchè la contraddittorietà intrinseca e irriducibile della motivazione, perchè la Corte catanzarese avrebbe erroneamente denegato il riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria sulla base di una ricostruzione non attuale e non esatta del contesto interno al Bangladesh.
Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 4, 5, 7 e 14, artt. 2,3,5, 8 e 9 della C.E.D.U., nonchè del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 27, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè la Corte di Appello avrebbe ricostruito la situazione interna del Bangladesh senza svolgere alcuna adeguata istruttoria.
Con il quinto motivo il ricorrente lamenta la violazione del combinato-disposto del D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 5 e 19, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, nonchè l’illogicità e contraddittorietà della motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, perchè la Corte territoriale avrebbe negato la concessione della tutela umanitaria senza procedere all’esame specifico e attuale della sua condizione soggettiva e senza considerare il contesto esistente nel Paese di provenienza.
Le censure di cui al secondo, terzo, quarto e quinto motivo, che meritano un esame congiunto, sono fondate.
La sentenza impugnata dà conto, sia pur succintamente, della storia riferita dall’odierno ricorrente, il quale aveva dichiarato di appartenere alla minoranza pakistana, di aver vissuto in un campo profughi, di essere soggetto a discriminazioni perchè malvisto in Bangladesh, di esser stato aggredito e ferito dai sostenitori del partito al governo (OMISSIS) (cfr. pag. 5). La Corte di Appello ritiene tuttavia non veritiero il racconto, sia perchè il ricorrente non avrebbe saputo “… fornire indicazioni precise sulle caratteristiche della sua comunità limitandosi sul punto a dire che è un clan”, sia perchè vi sarebbe una incongruenza tra la dichiarazione che il solo lavoro consentito ai soggetti di origine pakistana “è quello della guardia” e l’ulteriore affermazione che il richiedente aveva “… svolto abusivamente l’attività di commerciante e di aver aperto l’attività vicino al campo in cui si trovava, rischiando, quindi possibili controlli e possibili ritorsioni, poi di fatto avvenute per come lo stesso ha dichiarato”. Infine, la Corte territoriale evidenzia il fatto che il richiedente non si fosse rivolto alla polizia e conclude che l’evento del suo ferimento riveste “… esclusivo rilievo penalistico, seppur calato in un contesto di discriminazioni contro la sua comunità non dimostrato” (cfr. pag. 6).
I riferiti passaggi motivazionali, oltre a non essere corretti, si pongono tra loro in rapporto di irriducibile contrasto logico.
Sotto il primo profilo, non è possibile ritenere che il R.U.M.A. non avrebbe sufficientemente identificato il gruppo al quale egli ha dichiarato di appartenere, posto che la stessa Corte di Appello dà atto che egli aveva detto di essere discriminato in quanto di origini pakistane. Tale riferimento è di per sè solo sufficiente ad individuare in modo specifico e diretto la minoranza etnica alla quale il ricorrente ha dichiarato di appartenere. Il richiamo al “clan” che la Corte territoriale ha valorizzato, oltre a non essere di per sè rilevante ai fini dell’individuazione del gruppo cui il ricorrente apparteneva, si spiega peraltro agevolmente tenendo conto che la società pakistana è regolata ancora secondo una organizzazione tribale: è quindi ragionevole immaginare che il R. abbia inteso, parlando di “clan”, riferirsi alla sua minoranza, coincidente probabilmente con il suo gruppo familiare o tribale.
Del pari scorretta è l’affermazione secondo cui vi sarebbe incoerenza tra la dichiarazione del richiedente, secondo cui egli avrebbe svolto abusivamente il lavoro di commerciante, ed il fatto che il medesimo richiedente avesse detto che il solo lavoro consentito ai soggetti di origine pakistana “è quello della guardia”. Non soltanto tra le due affermazioni non esiste alcuna contraddizione o incongruità, ma – anzi – il fatto che una qualsiasi occupazione possa essere proibita ad una persona in ragione della sua appartenenza ad una minoranza etnica è di per sè elemento sufficiente ad integrare un trattamento persecutorio ed ingiustamente discriminatorio.
Assolutamente non condivisibile, poi, è il passaggio della motivazione con cui la Corte di Appello ritiene di poter trarre elementi a conforto della ritenuta inesistenza del trattamento persecutorio denunciato dal ricorrente dal fatto che costui abbia svolto abusivamente un’attività economica che sapeva essergli proibita e di averlo fatto vicino al campo, esponendosi così a controlli e ritorsioni.
Tale affermazione conduce direttamente al secondo aspetto – l’irriducibile contrasto logico della motivazione della sentenza impugnata – perchè non è possibile trarre argomenti per escludere l’esistenza di un trattamento discriminatorio dal semplice fatto che il soggetto colpito da detto trattamento abbia deciso di resistere ad esso, pur esponendosi a rischio. Tale circostanza, infatti, prova esattamente il contrario, ossia che la discriminazione esiste. Seguendo la scorretta linea ricostruttiva della Corte territoriale si perviene all’assurdo di legittimare la discriminazione in ragione della sua stessa esistenza e di colpevolizzare l’atteggiamento di legittima resistenza che, rispetto ad essa, il soggetto discriminato decida consapevolmente e responsabilmente di porre in essere, nel rispetto delle norme di legge e della civile convivenza.
Del pari affetta da irriducibile contrasto logico è la conclusione cui è pervenuta la Corte catanzarese, secondo cui il ferimento subito dal ricorrente avrebbe “… esclusivo rilievo penalistico, seppur calato in un contesto di discriminazioni contro la sua comunità, non dimostrato”: l’ammissione dell’esistenza di un contesto discriminatorio contro una minoranza etnica, infatti, implica almeno la possibilità teorica che l’aggressione subita dal soggetto che ne fa parte sia collegata alla discriminazione. Nè rileva il fatto che il R.U.M.A. non abbia dimostrato l’esistenza del contesto discriminatorio, poichè in base al criterio del cd. onere probatorio attenuato il richiedente aveva il solo onere di allegare l’esistenza della circostanza, che il giudice di merito avrebbe dovuto verificare in adempimento del suo dovere di cooperazione istruttoria, attivando i poteri di indagine ufficiosi riconosciutigli dalla legge.
Sul punto, la Corte di Appello incorre in un ulteriore errore, laddove fa derivare, dalla giusta affermazione secondo cui il richiedente la protezione, internazionale o umanitaria, ha l’onere di allegare i fatti costitutivi del diritto azionato, l’erronea conclusione secondo cui “… il mero riferimento alla situazione politica interna del Paese d’origine del ricorrente, privo di qualsiasi riferimento alla situazione personale o al timor del medesimo, non può ritenersi sufficiente a importare l’accoglimento del ricorso e il riconoscimento di una delle forme di protezione previste dalla legge” (cfr. pag. 8 della sentenza impugnata). A tacere del fatto che nel caso specifico il ricorrente aveva sufficientemente specificato la ragione del proprio timore dichiarando la propria appartenenza ad una minoranza etnica discriminata, va rilevato che la prospettiva logico-giuridica che caratterizza i procedimenti di protezione internazionale ed umanitaria è esattamente rovesciata: lo straniero ha infatti soltanto l’onere di allegazione, dovendo invece il giudice supplire all’eventuale insufficienza della prova mediante l’attivazione dei poteri ufficiosi. Ne deriva che, in presenza di contrasti o incoerenze non idonee ad inficiare radicalmente la logicità del racconto, e quindi la credibilità del richiedente la protezione, il giudice di merito è tenuto ad attivarsi per acquisire agli atti dei giudizio tutte le informazioni utili a chiarire le predette incongruenze, in modo da pervenire ad una decisione fondata sull’apprezzamento più completo possibile del contesto fattuale allegato dallo straniero.
Infine, la sentenza impugnata esclude la sussistenza di un contesto di violenza generalizzata in Bangladesh senza indicare in modo specifico le fonti consultate e senza dar conto, in tal modo, dell’origine delle informazioni utilizzate. A tal fine, è opportuno ribadire che “Il riferimento, operato dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, alle cd. fonti informative privilegiate, va interpretato nel senso che è onere del giudice specificare la fonte in concreto utilizzata e il contenuto dell’informazione da essa tratta e ritenuta rilevante ai fini della decisione, così da consentire alle parti la verifica della pertinenza e della specificità dell’informazione predetta rispetto alla situazione concreta del Paese di provenienza del richiedente la protezione” (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 13449 del 17/05/2019, Rv. 653887; negli stessi termini, Cass. Sez. 1, Ordinanze n. 13450, 13451 e 13452, tutte del 17/05/2019, non massimate; nonchè Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 11312 del 26.4.2019, essa pure non massimata). Nel caso di specie, la decisione impugnata non soddisfa i suindicati requisiti, posto che essa non indica la fonte in concreto utilizzata dal giudice di merito, non specifica l’origine delle notizie sulla condizione del Paese utilizzate dalla Corte territoriale e non consente, quindi, alla parte la duplice verifica della provenienza e della pertinenza dell’informazione.
L’accoglimento delle censure, nei sensi di cui in motivazione, comporta la cassazione della decisione impugnata ed il rinvio della causa alla Corte di Appello di Catanzaro, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
la Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Catanzaro, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 15 gennaio 2020.
Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2020