Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9228 del 06/04/2021

Cassazione civile sez. lav., 06/04/2021, (ud. 23/09/2020, dep. 06/04/2021), n.9228

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16279/2017 proposto da:

R.A.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

PIERLUIGI DA PALESTRINA 63, presso lo studio dell’avvocato MARIO

CONTALDI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati

GIANLUCA CONTALDI, GIOVANNI MAGLIONE;

– ricorrente –

contro

COOPERATIVA SOCIALE QUADRIFOGLIO S.C. ONLUS, in persona del legale

rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,

rappresentata e difesa dall’avvocato MASSIMILIANO GENCO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 186/2017 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 31/03/2017 r.g.n. 438/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

23/09/2020 dal Consigliere Dott. PAOLO NEGRI DELLA TORRE.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

Premesso:

che R.A.C. impugnava in sede arbitrale il provvedimento di esclusione da socia della Cooperativa Sociale Quadrifoglio S.C. – ONLUS alla stessa comunicato con lettera del 6 agosto 2011, ricevuta l’11 agosto successivo;

– che con lodo arbitrale rituale 7 marzo 2012, divenuto poi definitivo, tale provvedimento di esclusione veniva dichiarato illegittimo e la Cooperativa Quadrifoglio condannata alla ricostituzione del rapporto associativo; con la medesima pronuncia veniva altresì disposta la condanna della Cooperativa Quadrifoglio al pagamento, in favore della ricorrente, a titolo di risarcimento del danno patrimoniale, di somma pari ad Euro 1.005,30 per ogni mese a decorrere dall’11 agosto 2011 e sino alla ricostituzione del rapporto associativo, oltre interessi;

– che successivamente la R. presentava ricorso volto a ottenere la ricostituzione del rapporto lavorativo e il risarcimento del danno sofferto per l’illegittimo recesso unilaterale dal rapporto di lavoro operato dalla Cooperativa, ma il Tribunale di Savona, in funzione di giudice del lavoro, lo dichiarava inammissibile, stante il mancato rispetto del termine di 270 giorni per il deposito del ricorso in cancelleria;

– che tale pronuncia veniva riformata, con sentenza (n. 406/2013) in data 12 luglio 2013, dalla Corte di appello di Genova, la quale, decidendo nel merito, condannava la società a riammettere in servizio l’attrice e a risarcirle il danno in misura pari alle retribuzioni dal 26 agosto 2011;

– che detta sentenza, proposto ricorso dalla Cooperativa, veniva cassata con sentenza n. 9916/2016, nella considerazione che il lodo arbitrale, ai fini della liquidazione del danno, aveva fatto riferimento al trattamento connesso al rapporto di lavoro e che, pertanto, a seguito della statuizione contenuta nella sentenza di appello, era da ritenersi fondato il rilievo di una possibile duplicazione delle determinazioni economiche;

– che la Corte di appello di Genova, decidendo in sede di rinvio, con sent. n. 186/2017, pubblicata il 31/3/2017, dichiarava che nulla era dovuto alla R., che condannava a rifondere alla Cooperativa Quadrifoglio le spese di lite relative a tutti i gradi di giudizio;

– che a sostegno della propria decisione la Corte rilevava che la condanna pronunciata in esito al giudizio di appello era stata di risarcimento del danno secondo il diritto comune; che, pertanto, il risarcimento dovuto all’attrice era rappresentato da una somma pari alle retribuzioni dalla data di costituzione in mora (26 agosto 2011) alla data della pronuncia giudiziale (12 luglio 2013) e che non era fondata la sua pretesa di ottenere una indennità calcolata secondo i criteri previsti dalla L. n. 300 del 1970, art. 18; che non era poi contestato che la Cooperativa avesse corrisposto alla R. le retribuzioni sino alla ricostituzione del rapporto sociale, pacificamente avvenuto il 5 agosto 2013, per un importo pari a Euro 24.126,80 e cioè per un importo maggiore rispetto a quello (Euro 23.650,00) dovutole in base alla sentenza di appello, con la conseguenza che doveva ritenersi assorbita anche la pretesa di tenere conto dei ratei di 13ma, di cui peraltro non era stato neppure indicato l’ammontare;

– che avverso detta sentenza n. 186/2017 della Corte di appello di Genova ha proposto ricorso per cassazione la R., affidandosi a due motivi, cui la Cooperativa ha resistito con controricorso;

– che entrambe le parti hanno depositato memoria;

rilevato:

che con il primo motivo viene dedotto l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5) con riguardo:

1) all’erronea individuazione, da parte del giudice del rinvio, del periodo in relazione al quale la sentenza di appello aveva stabilito il risarcimento del danno (dal 26 agosto 2011 sino alla data di effettiva riammissione in servizio e non sino alla data della pronuncia);

2) all’omessa pronuncia sulle domande subordinate proposte dall’attrice e, in particolare, su quella relativa al danno differenziale (quale importo costituito dalla differenza tra il risarcimento L. n. 300 del 1970, ex art. 18 e quanto percepito in forza del lodo arbitrale); 3) all’erronea quantificazione, sotto diversi profili, dell’importo dovuto alla ricorrente; 4) alla omessa considerazione dei ratei di 13ma per il computo di tale importo; 5) alla omessa individuazione della retribuzione di riferimento quale parametro ai fini risarcitori; 6) alla omessa individuazione del minimo tabellare previsto dal CCNL di riferimento quale più corretto parametro ai medesimi fini; 7) all’omessa pronuncia circa la sussistenza o meno del rischio di duplicazione del risarcimento nel caso di specie; 8) all’imprecisa valutazione operata dalla Corte con riferimento alla ritenuta mancata individuazione dei ratei di 13ma e alla incidenza di tale valutazione, unitamente alle altre dimenticanze e imprecisioni, rispetto al contenuto del dispositivo della sentenza con cui si è concluso il giudizio di rinvio; 9) alla motivazione resa, meramente apparente e/o perplessa e obiettivamente incomprensibile;

– che, con il secondo motivo, deducendo la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., la ricorrente si duole della condanna al pagamento delle spese di lite relativamente a tutti i gradi di giudizio: condanna pronunciata dal giudice del rinvio in violazione della regola della soccombenza e, in particolare, senza tenere conto del fatto che, a fronte del contenuto del lodo arbitrale, si rendeva necessaria per l’attrice la proposizione di altra causa per la ricostituzione del rapporto lavorativo e che, in ogni caso, la soccombenza era da intendersi limitata ad un profilo meramente risarcitorio;

osservato:

che il primo motivo, anche volendo trascurare l’inesatto riferimento della censura al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (anzichè all’art. 360, n. 4), è infondato, là dove denuncia la natura meramente apparente della motivazione resa dal giudice del rinvio con la sentenza impugnata;

– che, infatti, la motivazione può ritenersi “apparente”, e la sentenza conseguentemente nulla in quanto affetta da error in procedendo, solo quando essa “benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture” (Sez. U. n. 22232/2016; conforme, fra le molte, Cass. n. 13977/2019); mentre, nella specie, l’iter argomentativo, che ha condotto la Corte territoriale a ritenere che nulla fosse più dovuto alla ricorrente, è chiaramente intelligibile nei suoi snodi fondamentali (cfr. pp. 4-5), così da non lasciare spazio a soggettive operazioni di ricostruzione logica o di completamento;

– che, nelle restanti censure, il primo motivo è inammissibile, non attenendosi al modello del nuovo vizio “motivazionale”, quale risultante a seguito delle modifiche introdotte con il decreto L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134, e delle precisazioni, quanto a perimetro applicativo e oneri di deduzione, rese da questa Corte a Sezioni Unite con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014;

– che in particolare, con le richiamate sentenze e con le molte successive che ad esse si sono conformate, è stato precisato che l’art. 360 c.p.c., n. 5, come riformulato a seguito delle modifiche operate dal legislatore nel 2012, “introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia)”; con la conseguenza che “nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie”;

– che è stato altresì precisato come il “fatto storico”, che sia stato omesso e che peraltro risulti decisivo ai fini di un diverso esito della causa, debba esclusivamente intendersi nel senso di un preciso accadimento o di una precisa circostanza in termini di evento storico-naturalistico, essenzialmente diverso e non assimilabile in alcun modo a “questioni” o “argomentazioni” (Cass. n. 22397/2019, fra le numerose conformi), le quali, pertanto, risultano estranee all’ambito di applicabilità dell’art. 360 c.p.c., n. 5;

– che il motivo non assolve gli oneri indicati, omettendo di specificare quale sia il fatto storico il cui esame sia stato omesso, il dato (testuale o extratestuale) da cui ne risulti l’esistenza, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione fra le parti e la relativa “decisività”: in sostanza, anzichè svolgersi e operare sul terreno di una diversa ricostruzione degli elementi fattuali, secondo lo schema proprio del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, nella sua più recente formulazione, esso si risolve in una critica dei passaggi argomentativi della sentenza impugnata, a cui contrappone difformi deduzioni e valutazioni e un diverso progetto decisionale;

– che il secondo motivo è infondato;

– che il giudice del rinvio ha fondato la condanna al pagamento delle spese di tutti i gradi di giudizio sul rilievo che “quando la ricorrente ha promosso il giudizio di primo grado, il lodo arbitrale aveva già condannato la cooperativa, oltre che a corrisponderle le retribuzioni, anche a ripristinare il rapporto associativo” (cfr. p. 5);

– che, ciò premesso, la sentenza impugnata risulta esente dalle censure che le vengono rivolte con il motivo ora in esame, essendosi attenuta al consolidato orientamento, per il quale “L’individuazione del soccombente si compie in base al principio di causalità, con la conseguenza che parte obbligata a rimborsare alle altre le spese anticipate nel processo è quella che, col comportamento tenuto fuori del processo stesso, ovvero col darvi inizio o resistervi in forme e con argomenti non rispondenti al diritto, abbia dato causa al processo o al suo protrarsi” (Cass. n. 25141/2006);

– che invero, accertata in sede arbitrale la illegittimità del provvedimento di esclusione da socia, la ricorrente avrebbe avuto titolo a richiedere anche il ripristino del rapporto di lavoro, quale automatica conseguenza della ricostituzione del rapporto associativo, sicchè è da ritenere non giustificata la proposizione di altro e successivo ricorso avanti al giudice del lavoro;

ritenuto:

conclusivamente che il ricorso deve essere respinto;

– che le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 23 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 6 aprile 2021

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