Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9227 del 10/04/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 10/04/2017, (ud. 27/01/2017, dep.10/04/2017),  n. 9227

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26103/2015 proposto da:

M.E., rappresentata e difesa dall’avvocato FRANCESCO PIGNOLO;

– ricorrente –

contro

M.I., D.S.L., S.P.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1307/2014 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 17/09/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

27/01/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA.

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

La ricorrente M.E. impugna, articolando quattro motivi di ricorso, la sentenza 17 settembre 2014, n. 1307/2014, della Corte d’Appello di Catanzaro che, rigettando l’appello principale proposto dalla stessa ricorrente avverso la sentenza 6 febbraio 2006, n. 482/2006, del Tribunale di Crotone, aveva affermato che il lastrico solare posto al di sopra delle abitazioni di M.A., E. ed I. non fosse di proprietà comune a costoro, ma di esclusiva proprietà di M.I.. La Corte di Catanzaro ha evidenziato come il condominio dell’edificio di (OMISSIS) fosse sorto in conseguenza del testamento olografo, datato 3 aprile 1991 e pubblicato il 24 maggio 1993, dell’originario unico proprietario di esso, M.P., il quale aveva assegnato a ciascuno dei tre figli A., E. ed I. una distinta pozione immobiliare, ed in particolare ad M.I. il bene individuato come “l’area sovrastante il primo piano dove io abito”. La Corte d’Appello ha inteso in tale espressione compresa nell’assegnazione esclusiva ad I. altresì il lastrico solare sovrastante l’appartamento sito al secondo piano, attribuito alla stessa figlia; ha quindi escluso che emergesse un’intenzione del testatore di assegnare ai suoi eredi porzioni immobiliari di egual valore, e che a nulla rilevasse la dedotta abusività dell’appartamento, peraltro rimasta sprovvista di prova. Da ciò anche la validità del successivo atto di trasferimento del lastrico del 28 gennaio 2003 da M.I. a D.S.L. e S.P.. Rimangono intimati, senza svolgere attività difensive, M.I., D.S.L. e S.P..

Il primo motivo di ricorso di M.E. deduce “erronea interpretazione degli articoli 1117 c. c. in combinazione con le norme che afferiscono quelle la successione testamentaria, e/o falsa applicazione delle medesime norme”.

Il secondo motivo deduce la “conseguente erronea applicazione delle norme che attengono i canoni ermeneutici di interpretazione giuridica dei contratti e delle disposizioni testamentarie, con particolare riferimento alle norme riguardanti altresì l’interpretazione giuridica dei contratti e delle disposizioni testamentarie”.

Il terzo motivo deduce erronea e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c..

Il quarto motivo deduce omesso esame di fatto decisivo per il giudizio (con riferimento alle “prove portate nel processo e i fatti concreti ai quali le stesse hanno cercato di dare corposità e concretezza”).

Ritenuto che il ricorso proposto da M.E. potesse essere rigettato per manifesta infondatezza, con la conseguente definibilità nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), su proposta del relatore, il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio.

I quattro motivi sono tutti in parte inammissibili e comunque infondati.

Innanzitutto, il motivo del ricorso per cassazione con cui si denuncia la violazione di legge in relazione ad un intero corpo di norme (nella specie, alle norme che afferiscono alla successione testamentaria, o che attengono ai canoni di interpretazione dei contratti e delle disposizioni testamentarie) è inammissibile, precludendo al collegio di individuare la norma che si assume violata o falsamente applicata (Cass. sez. un., Sentenza n. 17555 del 18/07/2013). Il vizio della violazione e falsa applicazione della legge di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, agli effetti dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate, ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina. La ricorrente, piuttosto, tenta di argomentare non un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da determinate norme di legge, quanto l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta sulla scorta delle risultanze di causa, questione inerente alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, soltanto per omesso esame di fatto decisivo e controverso ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

In ogni caso, non è errata l’applicazione dell’art. 1117 c.c., fatta dalla Corte d’Appello di Catanzaro.

In caso di frazionamento della proprietà di un edificio, a seguito del trasferimento, dall’originario unico proprietario ad altri soggetti, di alcune unità immobiliari, si determina una situazione di condominio per la quale vige la presunzione legale di comunione “pro indiviso” di quelle parti del fabbricato che, per ubicazione e struttura, siano – in tale momento costitutivo del condominio – destinate all’uso comune o a soddisfare esigenze generali e fondamentali del condominio stesso: ciò sempre che il contrario non risulti dal titolo, che ben può essere costituito, come nella specie, da un testamento, ove questo, cioè, dimostri una chiara ed univoca volontà di riservare esclusivamente ad uno dei condomini la proprietà di dette parti e di escluderne gli altri (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 16292 del 19/11/2002; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2328 del 27/06/1969).

Il lastrico solare, ai sensi dell’art. 1117 c.c., è oggetto di proprietà comune dei diversi proprietari dei piani o porzioni di piano dell’edificio, ove, appunto, non risulti il contrario, in modo chiaro ed univoco, dal titolo.

La Corte d’Appello ha escluso la presunzione di proprietà comune del lastrico solare ex art. 1117 c.c., ritenendo che l’attribuzione fatta dal testatore M.P. all’erede M.I. dell'”area sovrastante il primo piano dove io abito” fosse comprensiva del lastrico solare sovrastante l’appartamento sito al secondo piano, attribuito alla stessa, ed ha perciò supposto che dal titolo che segnava la nascita del condominio emergesse un elemento testuale che negava l’esistenza di un diritto di comunione sul lastrico. E’ noto, del resto, che lo spazio sovrastante il suolo o una costruzione non costituisce un bene giuridico suscettibile di autonomo diritto di proprietà, ma configura la mera proiezione verso l’alto delle suddette entità immobiliari e, formalmente, la possibilità di svolgimento delle facoltà inerenti al diritto dominicale sulle medesime (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 25965 del 23/12/2015, non massimata). La qualificazione operata dalla Corte di merito ha ravvisato nell’espressione della volontà testamentaria l’intenzione di assegnare a M.I. anche la proprietà autonoma dell’area solare di calpestio. E l’indagine diretta a stabilire, attraverso l’interpretazione dei titoli d’acquisto, se sia o meno applicabile, ad un determinato bene, la presunzione di comproprietà di cui all’art. 1117 c.c., costituisce un apprezzamento di fatto spettante alle prerogative esclusive del giudice di merito, rimanendo incensurabile in sede di legittimità se non per eventuali vizi di motivazione della sentenza (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 40 del 07/01/1978; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3084 del 03/09/1976).

E’ poi inammissibile la denuncia di violazione dell’art. 115 c.p.c., la quale può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016). Così come la violazione dell’art. 116 c.p.c., è denunciabile per cassazione soltanto quale vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, allorchè il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016).

La censura ex art. 360 c.p.c., n. 5, è, infine, del pari inammissibile, alla luce della riformulazione di tale norma introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, rimanendo il ricorrente onerato, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, di indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (così Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).

Il ricorso va perciò rigettato. Non occorre provvedere in ordine alle spese del giudizio di cassazione, non avendo svolto attività difensive gli intimati M.I., D.S.L. e S.P..

Sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto l’art. 13, comma 1 quater, del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione integralmente rigettata.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta – 2 Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 27 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 10 aprile 2017

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