Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9209 del 02/04/2021

Cassazione civile sez. III, 02/04/2021, (ud. 09/12/2020, dep. 02/04/2021), n.9209

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28743/2019 proposto da:

J.L., domiciliato ex lege in Roma, presso la cancelleria

della Corte di Cassazione rappresentato e difeso dall’avvocato

CINZIA MARSILI;

– ricorrenti –

e contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), COMMISSIONE TERRITORIALE

RICONOSCIMENTO PROTEZIONE INTERNAZIONALE VERONA, PROCURATORE

GENERALE DELLA REPUBBLICA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1123/2019 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 18/03/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

09/12/2020 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PELLECCHIA.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. J.L., cittadino del (OMISSIS), chiese alla competente commissione territoriale il riconoscimento della protezione internazionale, di cui al D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 4:

(a) in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex artt. 7 e segg.;

(b) in via subordinata, il riconoscimento della “protezione sussidiaria” di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14;

(c) in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6 (nel testo applicabile ratione temporis).

2. A fondamento della sua istanza dedusse di esser fuggito dal Gambia e di essere arrivato in Italia, passando dalla Libia, per la paura di esser arrestato, per aver avuto rapporti con una ragazza, figlia del questore, rimasta poi incinta. I poliziotti accusarono il ragazzo, di aver avuto rapporti prematrimoniali con una minorenne e non trovandolo in casa arrestarono il padre.

La Commissione Territoriale rigettò l’istanza.

Avverso tale provvedimento J.L. propose ricorso D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, ex art. 35, dinanzi il Tribunale di Venezia, che con ordinanza del 22 marzo 2017 rigettò il reclamo.

3. Tale decisione è stata confermata dalla Corte di Appello di Venezia con sentenza n. 1071/2019, pubblicata il 18/03/2019.

La Corte d’appello ha ritenuto:

a) il richiedente asilo non credibile;

b) infondata la domanda di protezione internazionale perchè il richiedente asilo non aveva dedotto a sostegno di essa alcun fatto di persecuzione;

c) infondata la domanda di protezione sussidiaria perchè nella regione di provenienza del richiedente asilo non era in atto un conflitto armato;

d) infondata la domanda di protezione umanitaria poichè l’istante non aveva ne allegato, ne provato, alcuna circostanza di fatto, diversa da quelle poste a fondamento delle domande di protezione “maggiore” (e ritenute inveritiere), di per se dimostrativa d’una situazione di vulnerabilità.

4. La sentenza è stata impugnata per cassazione da J.L., con ricorso fondato su quattro motivi.

Il Ministero dell’Interno non presenta difese.

Diritto

CONSIDERATO

che:

5.1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta la “violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione art. 116 c.p.c., comma 1, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 3 e 5 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3; nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione del contraddittorio ex art. 11 Cost. e art. 101 c.p.c., nonchè violazione art. 360, comma 1, n. 5, per omessa decisione sulla domanda ex art. 112 c.p.c. e/o ex artt. 113,115 c.p.c. e/o art. 132 c.p.c., comma 4”. La Corte d’appello avrebbe, da una parte valutato erroneamente la credibilità del richiedente, dall’altra avrebbe riportato in maniera scorretta le dichiarazioni dello stesso di fronte al Tribunale. Difatti il ricorrente sostiene che, sia di fronte alla Commissione sia al Tribunale, il richiedente abbia riferito che il padre fosse stato messo in carcere al posto suo, mentre la Corte sostiene che ciò sarebbe stato detto solo dinanzi la Commissione. Insiste il ricorrente sulla presenza di un concreto rischio per la propria incolumità, a causa della violenza e del mancato rispetto dei diritti fondamentali presente in Gambia.

Si. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la “nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4, per omessa decisione sulla domanda ex art. 112 c.p.c. e in violazione ex art. c.p.c., nn. 3 e 5, con riferimento al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. e) artt. 5 e 7 e art. 1 Convenzione di Ginevra nonchè art. 1 Cost. e art. 8 CEDU con riferimento allo status di rifugiato politico”. La Corte avrebbe escluso il riconoscimento dello status di rifugiato senza una adeguata motivazione. In Gambia i rapporti prematrimoniali sarebbero puniti con punizioni corporali e per questo il richiedente nel caso di rientro in patria potrebbe essere oggetto di persecuzione.

5.2. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la “violazione ex art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1 e art. 14, lett. a) b) c) e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, mancato riconoscimento della protezione sussidiaria”. Si duole della mancata considerazione del paese d’origine, contraddistinto da privazioni di tutela e rischi per la persona, rischio accentuato dalla storia personale del richiedente.

I motivi possono essere esaminati congiuntamente per la loro connessione.

Essi si considerano infondati nel merito, anche se la motivazione deve essere corretta, pur predicandosi con essa, in astratto, un corretto principio di diritto.

Il giudice del merito ha ritenuto, con motivazione che risponde, in parte qua, al requisito del cd. “minimo costituzionale”, insussistenti i presupposti per il riconoscimento di tale forma di protezione maggiore. Il dovere c.d. “di cooperazione istruttoria”, infatti, nelle due forme di protezione cd. “maggiori”, non sorge ipso facto sol perchè il giudice di merito sia stato investito da una domanda di protezione internazionale, ma si colloca in stretta connessione logica rispetto alla circostanza che il richiedente sia stato in grado di fornire una versione dei fatti quanto meno coerente e plausibile.

Certamente la valutazione della credibilità soggettiva del richiedente asilo non può essere legata alla mera presenza di riscontri obiettivi di quanto da lui narrato, poichè incombe al giudice, nell’esercizio del detto potere-dovere di cooperazione istruttoria, l’obbligo di attivare i propri poteri officiosi al fine di acquisire una completa ed attuale conoscenza della complessiva situazione dello Stato di provenienza, onde accertare la fondatezza e l’attualità del timore di danno grave dedotto (Sez. 6, 25/07/2018, n. 19716).

Il giudice deve, pertanto, prendere le mosse da una versione precisa e credibile, se pur sfornita di prova, perchè non reperibile o non esigibile, della personale esposizione a rischio grave alla persona o alla vita: tale premessa è funzionale, in astratto, all’attivazione officiosa del dovere di cooperazione volta all’accertamento della situazione del Paese di origine del richiedente asilo; ma non appare conforme a diritto l’affermazione secondo cui le dichiarazioni del richiedente che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di credibilità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non richiedono poi, in alcun caso, un approfondimento istruttorio officioso (in tal senso, invece, ma non condivisibilmente, tra le altre, Cass. Sez. 6, 27/06/2018, n. 16925; Sez. 6, 10/4/2015 n. 7333; Sez. 6, 1/3/2013 n. 5224).

Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, stabilisce che anche in difetto di prova, la veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere valutata alla stregua dei seguenti indicatori: a) il compimento di ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) la sottoposizione di tutti gli elementi pertinenti in suo possesso e di una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente debbono essere coerenti e plausibili e non essere in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) la domanda di protezione internazionale deve essere presentata il prima possibile, a meno che il richiedente non dimostri un giustificato motivo per averla ritardata; e) la generale attendibilità del richiedente, alla luce dei riscontri effettuati.

Il contenuto dei parametri sub c) ed e), sopra indicati, evidenzia che il giudizio di veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere integrato dall’assunzione delle informazioni relative alla condizione generale del paese, quando il complessivo quadro assertivo e probatorio fornito non sia esauriente, ma la relativa subordinazione, tout court, al giudizio di veridicità della narrazione alla stregua degli altri indici (di genuinità intrinseca: Sez. 6, 24/9/2012, n. 16202 del 2012; Sez. 6, 10/5/2011, n. 10202) non appare legittimamente predicabile.

Il principio secondo il quale le dichiarazioni del richiedente giudicate inattendibili non richiedano, comunque, un approfondimento istruttorio officioso va, difatti, opportunamente precisato e circoscritto, nel senso che ciò vale per il racconto che concerne la vicenda personale del richiedente ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, ovvero dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), qualora la mancanza di tali presupposti emerga ex actis. Quindi, il dovere del giudice di cooperazione istruttoria, una volta assolto da parte del richiedente la protezione il proprio onere di allegazione, sussiste sempre, anche in presenza di una narrazione dei fatti attinenti alla vicenda personale inattendibile e comunque non credibile, in relazione alla fattispecie contemplata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), (in tal senso, di recente Cass. 2954/2020; Cass. 3016/2019).

Nella specie risulta tuttavia accertato che, nella regione di provenienza dell’odierno ricorrente, non sussiste una situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato o una situazione di anarchia in assenza delle autorità locali. Dunque i giudici hanno adeguatamente motivato i mancato riconoscimento delle due forme di “protezione maggiori”, ritenendo tra l’altro sussistente un apparato statale che eviti la presenza di un effettivo rischio per il richiedente nel caso di rimpatrio.

5.3. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la “violazione ex art. 360 c.p.c., nn. 3, 4, 5, in relazione agli artt. 113,115 c.p.c., art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 – nullità della sentenza per violazione di legge e per motivazione apparente/inesistente in relazione al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 comma 6 e D.P.R. n. 394 del 1999, artt. 11 e 29, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 bis”. Si duole della assenza di un giudizio autonomo in merito alla domanda di protezione umanitaria e della mancata considerazione della documentazione relativa al percorso di integrazione iniziato in Italia. Inoltre, secondo il ricorrente sarebbe assente il giudizio di comparazione tra la condizione raggiunta in Italia dal richiedente e quella che troverebbe nel caso di rientro in patria.

Il motivo è fondato in quanto non è stata effettuata da parte del giudice di merito la valutazione comparativa ex art. 8 CEDU, tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro Paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale. Questo principio è stato affermato più volte da questa Corte, in particolare dalle Sezioni Unite nella sentenza 29459 del 2019 che ha chiarito i presupposti per ottenere il riconoscimento della protezione umanitaria, rimarcando la stretta connessione di tale figura con la persona e diritti fondamentali, così come ribadito nella più recente sentenza n. 1104 del 2020 secondo cui “va nuovamente riaffermato il principio secondo il quale, in subiecta materia, oggetto del giudizio è pur sempre la persona, i suoi diritti fondamentali, la sua dignità di essere umano. Il giudizio di bilanciamento evocato dalle sezioni unite di questa Corte, che ne sottolineano il rilievo centrale, ha, testualmente, ad oggetto la valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro Paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare, si ripete, la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”.

Nel caso di specie i giudici di merito non hanno preso in considerazione il percorso intrapreso dal richiedente in Italia, mancando del tutto il bilanciamento tra i due contesti di vita.

6. Pertanto la Corte rigetta i primi tre motivi di ricorso accoglie il quarto motivo, cassa la sentenza impugnata in relazione e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte di Appello di Venezia in diversa composizione.

PQM

la Corte rigetta i primi tre motivi di ricorso accoglie il quarto motivo, cassa la sentenza impugnata in relazione e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte di Appello di Venezia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 9 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 aprile 2021

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