Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9197 del 21/04/2011

Cassazione civile sez. trib., 21/04/2011, (ud. 10/02/2011, dep. 21/04/2011), n.9197

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – rel. Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

AMMINISTRAZIONE DELL’ECONOMIA E DELLE FINNAZE, in persona del

ministro pro tempore, e AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del

direttore pro tempore, elettivamente domiciliate in Roma, Via dei

Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la

rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

BANCA DI SAN MARINO S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Sicilia n. 66, presso

lo studio degli avv.ti Augusto Fantozzi e Francesco Giuliani;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale del Lazio, sez. 34^, n. 138 depositata il 24 febbraio 2005.

Udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

10.2.2011 dal consigliere relatore Dott. Aurelio Cappabianca;

udito, per l’Amministrazione ricorrente, l’avvocato dello Stato Maria

Luisa Spina;

udito, per la società controricorrente, l’avv. Francesco Giuliani;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ZENO Immacolata, che ha concluso per il rigetto dei primi due motivi

di ricorso ed assorbimento degli altri.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Banca di San Marino s.p.a. (già Cassa Rurale di depositi e prestiti di Faetano, con sede legale in (OMISSIS) e priva di stabile organizzazione in Italia) propose ricorsi avverso avvisi di accertamento Irpeg ed Ilor, per gli anni dal 1984 al 1990, notificatile dall’Ufficio distrettuale delle imposte dirette di Roma per il recupero a tassazione di interessi maturati su conti correnti accesi presso istituti di credito italiani e qualificati reddito di capitale.

Gli avvisi erano stati emessi dopo che avvisi del tutto identici quanto a contestazioni ed annualità, notificati dall’Ufficio delle imposte dirette di Rimini, erano stati dichiarati illegittimi dalla locale Commissione tributaria, a seguito del ricorso della società contribuente, per ritenuta incompetenza territoriale dell’ufficio che li aveva emessi.

Investita della cognizione dei nuovi (ma identici) avvisi, la Commissione provinciale di Roma ritenne, invece, incompetente l’Ufficio di Roma e di conseguenza, riuniti i ricorsi, li accolse, annullando gli avvisi di accertamento devolutile, con decisione confermata, in esito all’appello dell’Ufficio, dalla Commissione tributaria regionale del Lazio.

A seguito di ricorso per cassazione promosso dall’Agenzia delle Entrate, la decisione di appello fu, tuttavia, cassata con rinvio da questa Corte, che (con sent. 8962/03) ritenne la competenza dell’Ufficio di Roma all’emissione dei provvedimenti impugnati (sul presupposto che, in relazione a contribuente non persona fisica priva di sede e di stabile organizzazione in Italia, deve farsi riferimento al criterio residuale del luogo di svolgimento della prevalente attività e non a quello del domicilio fiscale del legale rappresentante dell’ente in Italia).

Investita in sede di rinvio, la commissione regionale del Lazio, accolse l’appello della società contribuente, affermando l’illegittimità degli accertamenti, in base a duplice ratio: 1) il rilievo che la rinnovazione degli avvisi di accertamento da parte dell’Ufficio delle Imposte di Roma, mentre erano ancora sub iudice i precedenti identici avvisi emessi dall’Ufficio di Rimini (ed impugnati davanti alla locale commissione tributaria), non era consentita in base al combinato disposto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 67, che pone il divieto di plurima imposizione in dipendenza dello stesso presupposto, e dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, il quale, ai fini dell’integrazione dell’accertamento, presuppone fatti o elementi nuovi di cui l’Amministrazione Finanziaria sia venuta a conoscenza in un secondo momento, nella specie insussistenti; 2) il rilievo che gli interessi percepiti in Italia dalla Banca Sanmarinense, in quanto impresa e nell’esercizio della propria attività commerciale, erano componenti, non di reddito di capitale, ma di reddito d’impresa e, in assenza di stabile organizzazione in Italia, gli stessi non potevano considerarsi prodotti nel territorio dello Stato e non erano, quindi, imponibili per la mancanza del presupposto territoriale previsto dal D.P.R. n. 597 del 1973, art. 19 e dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 20 (T.U.I.R.).

Avverso la decisione del giudice del rinvio, l’Agenzia ha proposto ricorso per cassazione in quattro motivi.

La Banca di San Marino s.p.a. ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso – deducendo “violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. (ultrapetizione) e art. 394 c.p.c. e dei principi derivanti dalla sentenza n. 8962/2003 della Corte di Cassazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4” – il Ministero e l’Agenzia sembrano lamentare che il giudice del rinvio abbia contraddetto l’assunto della pregressa decisione di questa Corte in merito alla ricorrenza della competenza dell’Ufficio di Roma ad emettere gli accertamenti impugnati.

La censura, oltre che estremamente generica, si rivela priva di qualsiasi fondamento, poichè la decisione del giudice del rinvio, articolata nelle rationes decidendi esposte in narrativa, non interferisce minimamente con l’affermazione contenuta nella pregressa decisione di questa Corte il cui decisimi è circoscritto all’affermazione della competenza dell’Ufficio di Roma ad emettere i contestati accertamenti.

Con il secondo motivo di ricorso – deducendo “violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43, comma 3 … Motivazione insufficiente, illogica e contraddittoria …” l’Agenzia censura la decisione impugnata per non aver considerato che gli avvisi di accertamento oggetto del giudizio non potevano essere considerati emessi in violazione della summenzionata disposizione, posto che la reiterazione costituiva legittima espressione dell’esercizio del potere di autotutela, non essendo in proposito necessario un previo formale annullamento degli avvisi emessi dall’Ufficio di Rimini, in quanto già dichiarati illegittimi dalla Commissione tributaria di primo grado di Rimini.

Diversamente da quanto sostiene la società contribuente, la censura è ammissibile. Essa integra, infatti, mera consentita nuova difesa e non nuova eccezione, poichè la deduzione dell’Agenzia diretta a contrastare l’eccezione, che il contribuente, convenuto in senso sostanziale, ha opposto alla pretesa erariale, non configura, a sua volta, eccezione in senso tecnico, ma costituisce mera difesa, sottratta, in quanto tale, al campo dell’invocato divieto dei nova in appello sancito dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, comma 2 (cfr.

Cass. 7789/06, 5895/02).

La censura è, altresì, fondata.

In proposito, il giudice a quo (con affermazione che trova riscontro anche in una pronunzia di questa Corte: cfr. Cass. 3951/02) ha sostanzialmente affermato che, ancorchè annullato in sede giurisdizionale (con sentenza, tuttavia, non ancora definitiva), un avviso di accertamento non può essere sostituito dall’Amministrazione finanziaria con altro del medesimo contenuto, con cui si ponga rimedio ai vizi o alle carenze riscontrati nel primo, senza che, nel contempo, non si proceda ad esplicito formale annullamento, in via di autotutela, dell’avviso precedentemente emesso. Ciò in ossequio al combinato disposto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 67, che sancisce il divieto di plurima imposizione in dipendenza dello stesso presupposto, e dell’art. 43, comma 3, del medesimo testo normativo, che pone quale indefettibile presupposto dell’integrazione dell’accertamento la ricorrenza di fatti o elementi nuovi di cui l’Amministrazione Finanziaria sia venuta a conoscenza in un secondo momento.

Il collegio non condivide tale impostazione e reputa che debba, invece, darsi seguito ad altro indirizzo, pure riscontrabile nella giurisprudenza di questa Corte ed anche di recente riaffermato.

Tale indirizzo (cfr. Cass. 11460/10, 14377/07, 16792/02) muove dal rilievo che l’avviso di accertamento emesso in sostituzione di un altro precedente annullato in sede giurisdizionale, costituisce espressione di un potere propriamente “sostitutivo”, che non può essere ricondotto al potere “di integrazione” dell’accertamento di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, di tal che non presuppone la sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi (prescritta dalla disposizione richiamata), ma può aver luogo anche sulla base di una diversa e più approfondita valutazione degli elementi già a conoscenza dell’Ufficio.

Ciò posto, l’orientamento condiviso riconduce convincentemente detto potere “di sostituzione” all’esercizio, in combinazione, dell’ordinario potere di accertamento (che l’emanazione dell’atto poi sostituito, di per sè, non consuma, venendo esso meno solo in conseguenza della scadenza del correlativo termine di decadenza ovvero dell’eventuale formazione di giudicato sulla pretesa impositiva) e del generale potere di autotutela. Considerato che, a fronte di un atto viziato, e come tale annullato in sede giurisdizionale, quest’ultimo non presenta margini di discrezionalità, ne inferisce, quindi, che l’emissione, nell’esercizio del suddetto potere di sostituzione, di un nuovo avviso di accertamento in luogo di uno precedente illegittimo e annullato in sede giurisdizionale (seppure con decisione non definitiva) non può che implicare, ad un tempo ed automaticamente, la definitiva caducazione dell’avviso sostituito, attraverso la presa d’atto della relativa illegittimità.

Nè possono, d’altro canto, paventarsi indebite interferenze con il divieto di plurima imposizione in dipendenza dello stesso presupposto sancito dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 67 (a salvaguardia del quale la giurisprudenza generalmente subordina la legittimità della sostituzione all’annullamento dell’atto sostituito), giacchè, quand’anche per avventura ulteriormente coltivato (cosa, peraltro, nella specie non avvenuta, a riprova dell’abbandono da parte dell’Amministrazione degli atti emessi dall’Ufficio di Rimini), il giudizio relativo al primo avviso non potrebbe che, conseguentemente, sfociare in una declaratoria di cessazione della materia del contendere, essendo venuto meno, con la sostituzione, ogni interesse ad una decisione relativa ad un atto (il primo avviso) ormai deprivato di ogni portata impositiva, esclusivamente concentratasi, per la sostituzione, nell’avviso che lo ha rimpiazzato.

Con il terzo motivo di ricorso – deducendo “violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 537, art. 19 comma 1, e art. 20; del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 20, comma 1, artt. 112 e 113 … Motivazione insufficiente, illogica e contraddittoria…” – il Ministero e l’Agenzia censurano la decisione impugnata per aver affermato che gli interessi conseguiti dalla Banca sanmarinese sui depositi bancari accesi presso istituti di credito italiani configurano reddito d’impresa (esente da tributo, in mancanza di stabile organizzazione nello Stato, per difetto del requisito della territorialità di cui al D.P.R. n. 597 del 1973, art. 19 e D.P.R. n. 917 del 1986, art. 20) e non reddito di capitale, imponibile anche in assenza di stabile organizzazione.

In sostanza – pur riconoscendo che le Banche non residenti sarebbero (D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 51, ora art. 55, comma 1, in relazione all’art. 2195 c.c., n. 4) produttori di reddito d’impresa anche in relazione agli interessi attivi percepiti su depositi di conto corrente bancari, se dotate di stabile organizzazione in Italia – l’Agenzia ritiene, in sintesi, che, alla luce della complessiva normativa sull’imposizione diretta, detti interessi, in assenza di stabile organizzazione della Banca in Italia, costituirebbero espressione, al pari di quelli percepiti dai meri risparmiatori, di reddito di capitale e ne seguirebbero la disciplina.

A parte il rilievo che è incontroverso che, all’epoca, le banche di San Marino potevano operare soltanto attraverso banche italiane presso le quali dovevano obbligatoriamente aprire conti di servizio, sicchè gli interessi su detti conti costituivano connaturale espressione dell’attività d’impresa di soggetto estero privo di stabile organizzazione in Italia, deve osservarsi che l’impostazione dell’Agenzia non risulta confortata dalla disciplina temporalmente rilevante.

Invero, con riguardo al quadro normativo di cui al D.P.R. n. 597 del 1973 (applicabile per le annualità dal 1984 al 1987), deve osservarsi: a) che l’art. 19, comma 1 n. 5, dispone che non sono considerati prodotti nel territorio dello Stato (e non sono, quindi, imponibili ai sensi del D.P.R. n. 598 del 1973, art. 22) i redditi di impresa riferibili ad attività esercitate nel territorio dello Stato da enti ivi non residenti, privi di stabile organizzazione nel territorio medesimo; b) che l’art. 44 (richiamato per le s.p.a. dal D.P.R. n. 598 del 1973, art. 5), prevede che “non costituiscono reddito di capitale, in quanto componenti del reddito d’impresa, gli interessi e gli altri proventi di cui all’art. 41 (tra cui, ai sensi della lett. b, specificamente, gli interessi derivanti da depositi e conto correnti), non soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, conseguiti nell’esercizio di imprese commerciali nel territorio dello Stato o mediante stabili organizzazioni nel territorio stesso …”; c) che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 26, comma 3 (nella versione contemporaneamente vigente) precisa che “non sono soggetti alla ritenuta gli interessi corrisposti … da aziende e istituti di credito italiani … ad aziende e istituti di credito con sede all’estero, esclusi quelli pagati a stabili organizzazioni nel territorio dello Stato, o a filiali estere di aziende e istituti di credito italiani”.

Ciò posto, deve considerarsi che l’ultima disposizione – diversificando la disciplina della ritenuta in materia di interessi percepiti da aziende e istituti di credito con sede all’estero in funzione della presenza o meno di stabili organizzazioni nel territorio dello Stato – lascia intendere che il fatto che il D.P.R. n. 597 del 1973, art. 44, abbia fatto riferimento quale componente del reddito d’impresa ai soli interessi conseguiti “nell’esercizio di imprese commerciali nel territorio dello Stato o mediante stabili organizzazioni nel territorio stesso” non esprime l’inclusione degli interessi conseguiti nell’esercizio di attività commerciale da soggetti non residenti privi di stabile organizzazione tra i redditi di capitale, bensì, soltanto, presa d’atto della relativa non imponibilità. Sarebbe, invero, difficilmente spiegabile l’esclusione dalla ritenuta alla fonte degli interessi percepiti da soggetti esteri esercenti attività commerciale, imponibili in Italia quale reddito di capitale, e la sottoposizione a ritenuta dei medesimi interessi, se imponibili quale reddito d’impresa.

Del resto, l’ormai risalente e non contraddetta giurisprudenza delle SS.UU. di questa Corte (cfr. Cass. 7184/83) è nel senso che la qualificazione di reddito quale reddito d’impresa dipende dal requisito soggettivo dell’esercizio di impresa commerciale da parte del percipiente, a prescindere da qualsiasi altro diverso requisito (essendo la ricorrenza della stabile organizzazione semplice condizione di localizzazione del reddito medesimo e di sua imponibilità in Italia) ed, inoltre, che, per poter scindere (e diversificare nel trattamento fiscale) le componenti del reddito d’impresa di un soggetto straniero e privo di autonoma organizzazione nel territorio dello Stato, è necessaria una specifica disposizione di legge (v. la previsione la previsione di cui al D.P.R. n. 598 del 1973, art. 22, comma 2, nonchè quella di cui al D.P.R. n. 597 del 1973, art. 19, comma 1, n. 9, introdotta dal D.P.R. n. 897 del 1980, art. 31, e, con riferimento al successivo regime di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, la previsione di cui all’art. 112, comma 2).

Non sostanziali discontinuità si colgono nel quadro normativo di cui al D.P.R. n. 917 del 1986 (nella formulazione applicabile per le annualità dal 1988 al 1990).

Ed, invero: a) gli artt. 20 e 45 riproducono, rispettivamente, le previsioni degli artt. 19 e 44 D.P.R. 917/597 (ed, anzi, l’art. 45 nel ribadire che gli interessi conseguiti nell’esercizio, di imprese commerciali costituiscono reddito d’impresa, non riporta l’ambiguo richiamo all’esercizio dell’attività commerciale nel territorio dello Stato o mediante stabili organizzazioni, contenuto nell’omologa disposizione del D.P.R. n. 597 del 1973); b) l’art. 112 – nel puntualizzare che non sono imponibili i redditi, pur prodotti nello Stato, esenti dall’imposta o assoggettati a ritenuta d’imposta o ad imposta sostitutiva – non introduce significative innovazioni normative; c) altrettanto dicasi per l’art. 113 c.p.c., che, al comma 2, regola le modalità di determinazione delle singole componenti che confluiscono nel reddito complessivo dei soggetti non residenti privi di stabile organizzazione (in funzione delle disposizioni di rispettiva specifica pertinenza), ma non concorre all’individuazione di dette componenti; d) ciò, mentre la significativa previsione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 26, comma 3, resta immutata.

D’altro canto, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51 (ora art. 55) – dopo aver individuato, al comma 1, l’essenza del reddito d’impresa nella derivazione dall’esercizio dell’attività commerciale di cui all’art. 2195 c.c., ribadisce, al comma 3, che le componenti del reddito d’impresa non sono suscettibili di diversa disciplina, se non in forza di specifica disposizione di legge.

Con il quarto motivo di ricorso – deducendo “violazione e falsa applicazione dell’art. 654 c.p.p. … Motivazione insufficiente, illogica e contraddittoria… ” – Ministero e Agenzia censurano la decisione impugnata per aver attribuito indebito e incoerente rilievo alla sentenza penale Tribunale Roma 3.6.1994, passata in giudicato, ai fini della specifica qualificazione, quale reddito d’impresa, del reddito (interessi su conti correnti bancari) oggetto della controversia.

La doglianza è infondata.

A parte il rilievo che il vizio di motivazione, che attenga a questioni giuridiche (nella specie: la qualificazione del reddito oggetto della controversia), non ha, di per sè, rilievo (cfr. Cass. 16640/05, 11883/03), deve, invero osservarsi che il giudice a quo si è limitato ad evocare ad ulteriore conforto delle proprie conclusioni sul tema della qualificazione del reddito controverso il convincimento in proposito espresso del giudice penale.

L’infondatezza delle doglianze proposte avverso la seconda autonoma ratio della decisione impugnata, di per sè stessa idonea a sorreggere l’affermata illegittimità dell’avviso impugnato, comporta, che, previa correzione della decisione medesima in merito all’assunto di cui alla prima ratio, il ricorso vada respinto.

Per la natura della controversia e tutte le implicazioni della fattispecie, si ravvisano le condizioni per disporre la compensazione delle spese del giudizio.

P.Q.M.

la Corte: respinge il ricorso; compensa le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 21 aprile 2011

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