Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9196 del 21/04/2011

Cassazione civile sez. trib., 21/04/2011, (ud. 09/02/2011, dep. 21/04/2011), n.9196

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere –

Dott. FERRARA Ettore – rel. Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 9501-2006 proposto da:

BULGARI SPA già partecipazioni BULGARI SPA, in persona del Direttore

Centrale e legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA VIALE G. MAZZINI 11, presso lo studio

dell’avvocato SALVINI LIVIA, che lo rappresenta e difende unitamente

all’avvocato CIPOLLA GIUSEPPE MARIA, giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE, AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimati –

avverso la sentenza n. 39/2005 della COMM. TRIB. REG. di ROMA,

depositata il 31/05/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/02/2011 dal Consigliere Dott. ETTORE FERRARA;

udito per il ricorrente l’Avvocato BRANDA, per delega dell’Avvocato

SALVINI, che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAMBARDELLA Vincenzo che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con avviso di accertamento notificato alla Bulgari s.p.a. l’Ufficio delle II.DD. di Roma procedeva alla rettifica del reddito imponibile per l’anno 1989 ai fini Irpeg e Ilor da L. 10.006.704.000 a L. 10.497.209.000, recuperando a tassazione: 1) una maggiore passività iscritta al Fondo T.F.R. non giustificata; 2) costi, relativi a spese di viaggio e rappresentanza sostenute dal Presidente del Consiglio di Amministrazione, dall’Amministratore delegato della società nonchè dai componenti del Consiglio di Amministrazione, portati in detrazione dalla contribuente in violazione del principio di “inerenza”; 3) un accantonamento al Fondo T.F.R. non documentato; 4) l’importo di costi non deducibili per regalie, mance e beneficenza.

La contribuente impugnava l’accertamento deducendone l’illegittimità per omessa specificazione dell’aliquota applicata, e comunque l’infondatezza in merito alle ulteriore somme riprese a tassazione, fatta eccezione per quanto costituente oggetto del rilievo sub 4).

Chiedeva, quindi, l’annullamento dell’avviso di accertamento e la riduzione delle pene pecuniarie applicate.

Il giudice adito accoglieva parzialmente il ricorso ritenendo l’infondatezza del recupero a tassazione della somma di cui al rilievo sub 1), nonchè dei costi relativi alle spese di viaggio, con esclusione soltanto di quelle per massaggi, palestre, piscine e teatro, ritenendole documentate e “congrue” rispetto ai ricavi della società; riduceva inoltre al 50% le sanzioni pecuniarie.

Avverso tale sentenza proponevano gravame l’Ufficio, in via principale, insistendo nella integrale non deducibilità dei costi per spese di viaggio, e la contribuente, in via incidentale, per ribadire l’illegittimità dell’atto impositivo per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 e la C.T.R. del Lazio, con sentenza n. 39/6/05 depositata il 31.5.2005, e non notificata, in parziale accoglimento dell’appello principale, confermava la non deducibilità delle spese di viaggio in questione ritenendo non provata la loro “inerenza” all’attività della società, e rideterminava il reddito netto imponibile della società in L. 11.151.182.000.

Per la cassazione della sentenza di secondo grado proponeva ricorso nei confronti dell’Agenzia delle Entrate e del Ministero dell’Economia e delle Finanze, la Bulgari s.p.a. articolando tre motivi, successivamente sostenuti anche con il deposito di memoria aggiunta.

Nessuna attività difensiva svolgevano nella presenta fase di giudizio gli intimati.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Deve preliminarmente rilevarsi l’inammissibilità del ricorso nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze, in quanto soggetto rimasto estraneo al procedimento di appello. Ed infatti al giudizio di secondo grado risulta aver partecipato l’Ufficio periferico di Roma (OMISSIS) dell’Agenzia delle Entrate (successore a titolo particolare del Ministero) e il contraddicono è stato accettato dal contribuente senza sollevare alcuna eccezione sulla mancata partecipazione del dante causa, che così risulta, come costantemente ha rilevato la giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis. v. Cass. 23.4.2010, n. 9794) estromesso implicitamente dal giudizio. Da tali premesse inevitabilmente discende l’esclusione della legittimazione del Ministero a proporre il ricorso per cassazione o il controricorso o a partecipare comunque al successivo giudizio di legittimità in veste di parte intimata, spettando la legittimazione processuale relativamente alla attuale fase, alla sola Agenzia.

Nulla deve disporsi al riguardo per le spese non essendosi il Ministero costituito nel presente procedimento.

2. Passando quindi all’esame del ricorso proposto nei confronti dell’Agenzia, con i motivi articolati la società deduce i seguenti vizi della sentenza:

a) Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 con riferimento alla dedotta illegittimità dell’accertamento per la mancata indicazione dell’aliquota di imposta applicata;

b) Violazione e falsa applicazione dell’art. 75, comma 5 (oggi art. 109, comma 5) del D.P.R. n. 917 del 1986 per aver il giudice di merito escluso la deducibilità delle spese in questione per non essere stato provato che esse “… siano state effettivamente sostenute nel solo interesse della Bulgari s.p.a. (già Partecipazioni Bulgari s.p.a.”.

c) Insufficiente e contraddittoria motivazione, nonchè violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. per aver la C.T.R. per un verso omesso qualsiasi motivazione in ordine alla ritenuta mancata dimostrazione dell’inerenza dei costi da parte della società, e per altro verso erroneamente applicato alla fattispecie il principio dell’onere della prova, ritenendo tale onere non assolto dalla società, nonostante l’ampia documentazione prodotta, e pur in assenza di una concreta argomentazione dell’Ufficio sulla insufficienza probatoria dei documenti esibiti, senza procedere ad una valutazione obiettiva delle prove prodotte; ed ancora per aver contraddittoriamente prima ammesso che le spese in questione fossero state sopportate anche nell’interesse della Bulgari s.p.a. e poi escluso del tutto la loro “inerenza” all’attività di impresa svolta da detta società; ed infine per aver introdotto, senza alcun approfondimento o specificazione, la riferibilità delle spese a”viaggi e rappresentanza”.

3. Il primo motivo è infondato.

Come già incidentalmente affermato da questa Corte con sentenza n. 773/1993, in relazione ad imposte ad aliquota unica, come appunto nel caso dell’ILOR, ivi citata a titolo di esempio, ma anche dell’Irpeg, il precetto normativo di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 relativo ai contenuti obbligatori dell’avviso di accertamento, deve ritenersi soddisfatto anche con la sola indicazione dell’imponibile e dell’imposta liquidata, considerata la semplicità con la quale, in presenza di quegli elementi, il contribuente può risalire alla aliquota applicata.

Del tutto irrazionale sarebbe infatti un’interpretazione della norma che facesse discendere da una omissione meramente formale, perchè assolutamente priva di rilievo sostanziale, la nullità dell’accertamento, prevista invece laddove l’atto impositivo presenti ben più rilevanti carenze. Nè argomenti in senso contrario possono trarsi dalla giurisprudenza richiamata in ricorso per evidenziare come in presenza di accertamenti relativi a Irpef e Ilor, privi dell’indicazione dell’aliquota di imposta applicata, la conseguenza trattane anche da questa Suprema Corte sia stata sempre l’annullamento integrale dell’accertamento, pur trattandosi di imposte soggette l’una ad aliquota progressiva e l’altra ad aliquota unica proporzionale, autorizzando così a ritenere per implicito ammesso che la rilevata omissione comporti identiche conseguenze sia per l’una che per l’altra imposta. La giurisprudenza citata, infatti, scaturisce unicamente dalla considerazione dell’unicità dell’accertamento e dalla conseguente inevitabile invalidità di esso nel suo complesso, allorchè l’accertamento sia privo di un elemento fondamentale, sia pure per una sola delle imposte alle quali l’atto impositivo faccia riferimento. Come puntualmente rilevato da questa Corte con la già richiamata sentenza: “In proposito i dati normativi significativi sono il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 2, e l’art. 42, comma 3. La prima disposizione recita testualmente che “la rettifica deve essere fatta con un unico atto, agli effetti dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e dell’imposta locale sui redditi”, sia pure, naturalmente, con un riferimento analitico alle singole categorie di reddito riferibili alla persona fisica. La seconda disposizione prevede la sanzione della nullità dell’accertamento per la mancanza della sottoscrizione, delle indicazioni e della motivazione di cui allo stesso art. 42 citato.

Pertanto, da un lato, non vi è dubbio che la sanzione della nullità colpisce l’atto nel suo complesso, senza la possibilità di configurare una nullità parziale. D’altro canto, neppure si può ipotizzare che ad un unico documento corrispondano due distinti accertamenti poichè l’accertamento ha ad oggetto il reddito del contribuente, elemento che resta identico nelle due imposte, ai fini della individuazione del reddito imponibile. Pertanto, in mancanza di una contraria indicazione del legislatore, il reddito del contribuente non può essere considerato come oggetto di due distinti accertamenti contestuali, non essendo ipotizzarle, come esattamente ritenuto dalla sentenza impugnata, che esso sia determinato in misure diverse ai fini dell’IRPEF ed ai fini dell’ILOR.” Da quanto detto consegue che l’annullamento dell’accertamento non può, laddove esso faccia riferimento sia ad imposta progressiva che ad imposta proporzionale, non avere riflessi su entrambe le imposte, senza però che questo in alcun modo stia a significare che, anche laddove l’atto faccia riferimento soltanto ad imposte proporzionali, come appunto è nel caso in esame, l’omissione del dato relativo all’aliquota applicata, benchè assolutamente priva di conseguenze pratiche in ordine alle esigenze difensive del contribuente, comporti comunque la nullità dell’atto impositivo.

4. Quanto al secondo e al terzo motivo di ricorso, rileva questa Corte che essi possono essere congiuntamente esaminati riguardando entrambi, sotto profili diversi, la comune problematica relativa all’onere probatorio in ordine alle spese deducibili ai sensi dell’allora art. 75, comma 5, e ora del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 5.

A tal riguardo giova ricordare come consolidata sia la giurisprudenza di questa Suprema Corte nel senso che l’onere della prova, nella materia della quale si controverte, è a carico del contribuente. In tal senso può richiamarsi quanto da ultimo affermato con sentenza 25.2.2010, n. 4554, secondo la quale: ” In tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’onere della prova dei presupposti dei costi ed oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, tanto nella disciplina del D.P.R. n. 597 del 1973 e del D.P.R. n. 598 del 1973, che del D.P.R. n. 917 del 1986, incombe al contribuente. Inoltre, poichè nei poteri dell’amministrazione finanziaria in sede di accertamento rientra la valutazione della congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, con negazione della deducibilita di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa, l’onere della prova dell’inerenza dei costi, gravante sui contribuente, ha ad oggetto anche la congruità dei medesimi (cfr. Cass. 21.4.2008, n. 10257; 16.5.2007, n. 11205).

Tanto premesso sul piano delle regole e dei principi, nel caso di specie la questione risulta risolta, negativamente per la contribuente, sulla base di queste considerazioni: “Per quanto riguarda le spese di viaggi e rappresentanza, dalla documentazione prodotta non risulta che le stesse siano state effettivamente sostenute nel solo interesse della Bulgari s.p.a. (già Partecipazioni Bulgari s.p.a.) La società, contesta la pretesa erariale ma non fornisce alcuna prova atta a dimostrare che le spese di che trattasi erano inerenti all’attività della Bulgari s.p.a. e, quindi, da considerare deducibili in quanto hanno concorso alla formazione del reddito, così come disposto dalle sentenze n. 8817 del 7.04.95 e n. 2001 del 24.01.95 della Corte di Cassazione”.

Alla stregua di tali considerazioni è evidente che la regola applicata dal giudicante sul versante dell’onere probatorio è quella che correttamente si ricava dall’art. 75 citato, e prima ancora dalla più generale disciplina prevista dall’art. 2697 c.c. così che nessuna violazione di legge può ravvisarsi nella fattispecie all’esame di questa Corte, potendosi al più ipotizzare una falsa applicazione della legge, qualora l’attività di produzione documentale della società fosse tale da far ritenere assolto l’onere di cui trattasi. Ma sul punto chiaro ed inequivocabile è l’accertamento del giudice di merito, così come espresso con la seconda delle due proposizioni in cui si articola la motivazione innanzi richiamata, nel senso che la contribuente non ha fornito “alcuna prova atta a dimostrare che le spese di che trattasi erano inerenti all’attività della Bulgari s.p.a.”.

Nè equivoci di sorta può giustificatamente ingenerare l’apparente contrasto tra i contenuti della due affermazioni fatte in sentenza dalla C.T.R. giacchè la seconda, nella sua radicalità e perentorietà, risulta chiaramente esplicativa e comunque assorbente in quanto volta a definitivamente precisare che quello che è mancato del tutto, per il riconoscimento della pretesa della contribuente, è la prova dell’inerenza dei costi all’attività d’impresa svolta dalla società. Con la qual cosa vuole in sostanza dirsi che, contrariamente a quanto affermato in ricorso, la lettura complessiva della motivazione dell’impugnata sentenza induce a ritenere che il giudice del gravame non ha affatto inteso escludere la deducibilità delle spese in questione perchè esse risultavano si sopportate nell’interesse della Bulgari, ma non necessariamente solo della suddetta società, ma piuttosto perchè ha stimato mancare la prova dell’inerenza all’attività della Bulgari. E ciò sul presupposto tacito, ma facilmente intuibile e pienamente condivisibile, che non bastasse la natura delle spese in contestazione (spese di viaggio, di noleggio, e simili) a consentire di desumerne la inerenza all’attività dell’impresa, ma fosse a tal fine necessario la prova di un quid pluris rappresentato dal collegamento di esse con impegni ed attività concretamente espletate per ricavarne ricavi o altri proventi per la società Bulgari: la prova, cioè, di quelle circostanze solo genericamente dedotte nel ricorso di primo grado (“… Le spese in oggetto si riferiscono ad incontri in tutte le parti del mondo per promuovere i prodotti, presentare le nuove collezioni – momento culminante e delicatissimo per lo svolgimento delle vendite – ricercare materiali e documentazioni per le nuove collezioni, partecipare a mostre e fiere ove vengono esposti i nuovi prodotti, e tutto ciò in aggiunta alle normali riunioni di lavoro con i propri direttori nei diversi luoghi ove sono presenti le attività controllate”).

In proposito, del resto assolutamente costante è la giurisprudenza di questa Corte nel senso che: “In tema di imposte sui redditi con riguardo al reddito di impresa, la semplice produzione di documenti di spesa ( nella specie, “note spese” liquidate da una società ai propri dipendenti) non prova, di per sè, la sussistenza del requisito della inerenza all’attività di impresa. A tal riguardo, infatti, perchè un costo possa essere incluso tra le componenti negative del reddito, non solo è necessario che ne sia certa l’esistenza, ma occorre altresì che ne sia comprovata l’inerenza, vale a dire che si tratti di spesa che si riferisce ad attività da cui derivano ricavi o proventi che concorrono a formare i reddito di impresa. Per provare tale ultimo requisito, non è sufficiente, poi, che la spesa sia stata dall’imprenditore riconosciuta e contabilizzata, atteso che una spesa può essere correttamente inserita nella contabilità aziendale solo se esiste una documentazione di supporto, dalla quale possa ricavarsi, oltre che l’importo, la ragione della stessa” (Cass. 24.3.2006 n. 6650; cfr.

18.12.2006, n. 27095; 20.11.2001, n. 14570; 25.6.1998, n. 6300).

Sul punto nel giudizio di primo grado era mancato ogni accertamento, essendosi la CTP limitata a verificare la “congruità” delle spese, ma la congruità, come scrive in ricorso la stessa difesa della società, è solo “uno dei criteri ermeneutici, elaborati sia in giurisprudenza che in dottrina, al fine di stabilire l’inerenza di un costo”, ma non l’unico criterio, nè può assumere valore assorbente in ordine all’inerenza, dovendo questa sempre essere dimostrata in concreto, avuto riguardo soprattutto alla natura della spesa e alla sua stretta relazione con l’attività d’impresa.

La lacuna emergente dal giudizio di primo grado è stata pertanto correttamente colmata dal giudice del gravame con un accertamento il cui esito vale definitivamente ad escludere anche l’ipotesi di falsa applicazione della legge, innanzi formulata, anche perchè non adeguatamente censurata sotto il profilo motivazionale con il puntuale richiamo a documenti o prove eventualmente trascurate dal giudicante, mentre per altro verso quanto innanzi chiarito sui contenuti della motivazione vale a negare altresì la dedotta contraddittorietà della stessa.

Nè a diversa conclusione sarebbe giustificato pervenire sulla base delle ulteriori considerazioni svolte in ricorso in ordine: a) all’operatività dell’onere della prova in tema di componenti negative di reddito, e agli aspetti della “dinamica probatoria” che avrebbero comportato, nel caso in esame, la necessità per l’Amministrazione Finanziaria di non limitarsi alla contestazione di una generica carenza di inerenza, di “allegare fatti o di argomentare in diritto” il perchè delle riprese; e b) alla innovativa circostanza introdotta in sentenza con riferimento alla qualificazione delle spese in questione come anche “di rappresentanza” e non solo di viaggio, come in precedenza sempre detto, peraltro senza alcuna distinzione tra l’una e l’altra categoria di spese.

Ed invero, relativamente al primo profilo, nel ribadire quanto già innanzi osservato in ordine all’applicazione del principio dell’onere probatorio al caso in esame, a definitiva confutazione della tesi della ricorrente non sarà superfluo ricordare quanto in proposito ancora più specificamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, evidenziando che: “Nel processo tributario, quando si controverta in materia di imposte sui redditi, l’amministrazione finanziaria ha il solo onere di provare l’esistenza di un reddito imponibile e la qualità di debitore del contribuente, mentre è onere di quest’ultimo provare la sussistenza dei presupposti di eventuali esenzioni d’imposta o di componenti negativi del reddito.

Ne consegue che è del tutto irrilevante, ai fini delle conseguenze del mancato assolvimento dell’onere della prova, la circostanza che l’erario abbia in giudizio svolto deduzioni ed argomentazione per dimostrare l’insussistenza di una componente negativa del reddito, in quanto tale iniziativa non vale a sollevare il contribuente dall’onere di provarne l’esistenza” (Cass. Sent. 20.7.2007, n. 16115); così che non sembra eccessivo affermare che, di fronte al mancato assolvimento da parte del contribuente dell’onere probatorio in ordine alla inerenza dei costi che si vorrebbero portate in deduzione, resta addirittura del tutto irrilevante l’atteggiamento concretamente assunto dall’Amministrazione Finanziaria.

Assolutamente inconferente è poi quanto ulteriormente dedotto circa la qualificazione delle spese in sentenza come “di spese e di rappresentanza”, assumendo la relativa distinzione rilievo solo nel caso di ammissione delle spese medesime in deduzione, ipotesi questa non realizzatasi nel caso di specie.

Il ricorso deve dunque essere rigettato. Nulla deve disporsi per le spese non avendo neanche l’Agenzia svolto attività difensiva nell’attuale fase processuale.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze e lo rigetta nei confronti dell’Agenzia.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 21 aprile 2011

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