Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9194 del 10/04/2017


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Cassazione civile, sez. II, 10/04/2017, (ud. 02/03/2017, dep.10/04/2017),  n. 9194

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATERA Lina – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20857-2012 proposto da:

BENFIN IMMOBILIARE SRL, (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA,

(Ndr: testo originale non comprensibile), presso lo studio

dell’avvocato MASSIMO CARLIN e FEDERICA SCAFARELLI, che la

rappresentano e difendono giusta procura notarile del 27 febbraio

2017;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO (OMISSIS) SRL, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

MAZZINI 11, presso lo studio dell’avvocato ZENO FORLATI, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAOLO STELLA RICHTER

in virtù di procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1505/2012 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 28/06/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

02/03/2017 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

udito l’Avvocato Massimo Carlin per la ricorrente e gli Avvocati Zeno

Forlati e Paolo Stella Richter per la controricorrente;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MISTRI Corrado, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione notificato il 13 novembre 2008 la (OMISSIS) S.r.l. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Venezia la Benfin S.r.l. deducendo che in data 23 dicembre 2005 aveva concluso con la convenuta un contratto di appalto a misura avente ad oggetto la costruzione di un nuovo fabbricato ad uso residenziale in (OMISSIS), e che, in qualità di appaltatrice, aveva regolarmente eseguito le prestazioni concordate, atteso che i termini indicati per la consegna dell’opera non erano essenziali e non era stata prevista alcuna penale.

Assumeva che quindi le era dovuto il saldo dei lavori per l’importo di Euro 250.794,95. Al contempo evidenziava che in pari data aveva stipulato con la convenuta, ed in qualità di promissaria acquirente, un preliminare di compravendita avente ad oggetto un appartamento sito nel fabbricato da edificare, e collocato al piano terra per il corrispettivo di Euro 216.000,00, oltre Iva da pagarsi a mezzo di ritenute del 10 % sui SAL. Tale contratto preliminare prevedeva però il termine essenziale del 31 maggio 2007, che non era stato rispettato dalla promittente venditrice.

Per l’effetto chiedeva accertarsi la risoluzione del preliminare ex art. 1457 c.c., ovvero in subordine ex art. 1453 c.c., con la restituzione altresì della somma di Euro 22.260,00 che era stata trattenuta in conto prezzo dalla committente sugli stati avanzamento lavori.

Si costituiva la convenuta che lamentava il ritardo nella consegna delle opere da parte dell’appaltatrice, sostenendo che i contratti erano collegati, sicchè non era dato richiedere l’adempimento del primo contratto e la risoluzione del secondo.

Pertanto, se fosse stata dichiarata la risoluzione del preliminare, analoga sorte sarebbe toccata al contratto di appalto.

All’esito dell’istruttoria, l’attrice avanzava istanza di ordinanza ex art. 186 quater c.p.c. con la quale, previa eventuale separazione delle cause, fosse ordinato alla Benfin il pagamento delle somme dovute a titolo di corrispettivo dell’appalto.

La convenuta a sua volta formulava istanza ex art. 186 quater c.p.c. per l’importo dovuto a titolo di prezzo della compravendita.

Con ordinanza del 27 dicembre 2010 il Tribunale rigettava la richiesta di ordinanza avanzata dalla convenuta, ed in accoglimento della richiesta dell’attrice, condannava la prima al pagamento della somma di Euro 273.054 pari alla somma tra quanto dovuto a titolo di prezzo dell’appalto e quanto dovuto a titolo di restituzione, in conseguenza della risoluzione del preliminare di compravendita immobiliare.

Non avendo alcuna delle parti fatto richiesta di pronuncia di sentenza nel termine di cui all’art. 186 quater c.p.c., u.c., la Benfin proponeva appello avverso l’ordinanza, che aveva acquisito efficacia di sentenza, e nella resistenza della (OMISSIS), la Corte d’Appello di Venezia con la sentenza n. 1505 del 28 giugno 2012 ha rigettato il gravame, condannando l’appellante anche al rimborso delle spese di lite.

La Benfin S.r.l. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di otto motivi.

La (OMISSIS) S.r.l. ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c. nell’imminenza dell’udienza.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente deve essere disattesa l’eccezione di improcedibilità del ricorso sollevata dalla difesa della controricorrente, in quanto, in violazione di quanto prescritto dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, la ricorrente avrebbe omesso di riferire dell’avvenuta notifica della sentenza trascurando altresì di depositare copia autentica della stessa con relata di notifica.

Osserva tuttavia il Collegio che, pur nella consapevolezza dei principi espressi dalle Sezioni Unite di questa Corte nelle sentenze nn. 9004 e 9005 del 2009, in punto di conseguenze derivanti dal mancato deposito della copia autentica della sentenza impugnata con la relata di notifica, laddove, ancorchè per effetto dell’allegazione della controparte emerga l’avvenuta notifica del provvedimento gravato, debba aderirsi a quanto sostenuto da Cass. n. 17066/2013, a mente della quale pur in difetto di produzione di copia autentica della sentenza impugnata e della relata di notificazione della medesima (adempimento prescritto dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2), il ricorso per cassazione deve egualmente ritenersi procedibile ove risulti, dallo stesso, che la sua notificazione si è perfezionata, dal lato del ricorrente, entro il sessantesimo giorno dalla pubblicazione della sentenza, poichè il collegamento tra la data di pubblicazione della sentenza (indicata nel ricorso) e quella della notificazione del ricorso (emergente dalla relata di notificazione dello stesso) assicura comunque lo scopo, cui tende la prescrizione normativa, di consentire al giudice dell’impugnazione, sin dal momento del deposito del ricorso, di accertarne la tempestività in relazione al termine di cui all’art. 325 c.p.c., comma 2.

Nella fattispecie emerge che la sentenza della Corte distrettuale è stata pubblicata in data 28/6/2012 e che il ricorso è stato notificato in data 19 settembre 2012, nel rispetto del termine breve, anche avuto riguardo alla data di pubblicazione del provvedimento, con la conseguenza che deve ritenersi priva di rilevanza ai fini della dedotta improcedibilità, la mancata produzione della detta copia autentica.

2. Il primo motivo di ricorso denunzia la contraddittorietà ed illogicità della motivazione nonchè la violazione per erronea applicazione dell’art. 112 c.p.c. con la conseguente nullità dell’ordinanza – sentenza di primo grado per extra petizione.

Assume la ricorrente che la (OMISSIS) aveva avanzato richiesta di ordinanza ex art. 186 quater c.p.c. limitata alla sola condanna della convenuta al pagamento del corrispettivo del contratto di appalto, omettendo di avanzare analoga richiesta per quanto concerne la restituzione delle somme trattenute in conto prezzo del corrispettivo del preliminare di compravendita, restituzione spettante in ragione dell’asserita risoluzione di diritto del preliminare ex art. 1457 c.c..

Si rileva che analoga istanza ex art. 186 quater c.p.c. era stata proposta anche dalla ricorrente, ma per le somme dovute a titolo di corrispettivo della vendita, ma che solo nella memoria di replica autorizzata dal Tribunale per rispondere alla richiesta della Benfin, la (OMISSIS) aveva avanzato richiesta di ordinanza anche in relazione alla richiesta restitutoria di cui sopra.

Malgrado l’irritualità di tale estensione, tuttavia l’ordinanza adottata dal Tribunale, a fronte della formale dichiarazione di voler provvedere sulle reciproche istanze, aveva accolto le richieste dell’attrice in toto, pronunciandosi anche sulla domanda restitutoria.

Denunziata tale illegittimità, si evidenzia che la Corte d’Appello, pur avendo condiviso il ragionamento dell’appellante, tuttavia, ed in maniera contraddittoria, ha poi escluso che sussistesse una ultra petizione o extrapetizione, affermando che a tal fine dovesse aversi riguardo al tenore delle domande proposte in sede di merito, e non anche al diverso tenore delle richieste di ordinanza ex art. 186 quater c.p.c..

In realtà, prosegue il motivo, per le altre domande non investite dalle istanze, era stata fissata apposita udienza di precisazione delle conclusioni, sicchè a rigore la Corte distrettuale una volta ravvisata l’eccedenza del contenuto dell’ordinanza rispetto alle richieste, avrebbe dovuto dichiararne la nullità relativamente all’accoglimento della domanda restitutoria, con il rinvio della causa per la decisione delle altre domande.

Il terzo motivo da trattare congiuntamente per evidenti ragioni di connessione, lamenta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, la violazione ed erronea applicazione degli artt. 112 e 186 quater c.p.c., in quanto la pronunzia sulla domanda risolutoria avanzata dall’attrice non poteva avvenire con l’ordinanza emessa dal Tribunale.

E’ pur vero che a seguito della mancata prosecuzione del giudizio di primo grado, l’appello poteva investire tutte le questioni oggetto delle reciproche domande di primo grado, anche estranee a quelle interessate dalle istanze di cui all’art. 186 quater c.p.c., ma alcuna rilevanza è stata assegnata dalla Corte d’Appello all’errore commesso dal Tribunale.

I motivi sono privi di fondamento.

La sentenza gravata, nel ricostruire le vicende processuali che hanno portato all’adozione dell’ordinanza interessata dall’appello, ha effettivamente condiviso la censura dell’appellante in ordine al fatto che il Tribunale si fosse pronunziato anche sulla domanda restitutoria dell’attrice sebbene oggetto della richiesta in maniera irrituale, tuttavia, dopo avere escluso che ciò implicasse un vizio di ultra o extrapetizione, occorrendo tener conto del contenuto delle domande come formulate nel giudizio di primo grado (e tra queste indubbiamente rientrava anche quella di condanna alla restituzione della parte di prezzo del preliminare di compravendita, una volta accertata la risoluzione di diritto del relativo contratto), ha sostanzialmente ritenuto che il vizio riscontrato imponeva una nuova decisione sul merito della pretesa, come appunto chiaramente esplicitato dalle espressioni che aprono il paragrafo 2. della sentenza impugnata.

La soluzione alla quale è pervenuta la Corte distrettuale, e cioè di procedere ad un nuovo esame del merito della vicenda, appare al Collegio ineccepibile e trova il conforto della precedente giurisprudenza di questa Corte.

In tal senso occorre rilevare che la fattispecie in esame pone il problema, dibattuto sia in dottrina che in giurisprudenza, della ammissibilità della pronuncia di ordinanza ex art. 186 quater nei processi con cumulo di domande, sia ove proposte da una sola parte, sia ove oggetto di reciproche richieste, problema che risulta acuito dal fatto che la norma appare chiaramente scritta per il caso di un processo con sole due parti e caratterizzato da una sola domanda.

In tale prospettiva, questa Corte, dopo un’iniziale posizione negativa (cfr. Cass. n. 13690/2001, secondo cui nei processi con cumulo di domande non suscettibili di separazione è inammissibile la pronuncia dell’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione; peraltro il provvedimento, ove pronunciato, non è idoneo ad acquisire l’efficacia della sentenza impugnabile e, conseguentemente, è inammissibile l’appello proposto), ha poi visto prevalere la tesi positiva a partire da Cass. n. 2084/2002 e Cass. n. 2079/2002, le quali, con motivazioni alle quali il Collegio ritiene di aderire, hanno affermato che l’art. 186 quater c.p.c. trova applicazione anche nel caso di giudizio in cui siano cumulate una domanda principale ed una domanda riconvenzionale (nella specie in materia di responsabilità da sinistro stradale) e l’istanza sia formulata da una sola delle parti; in tal caso sull’accertamento del giudice istruttore sui fatti costitutivi del diritto della parte istante si produrranno gli effetti della sentenza, se l’altra parte rinunzia alla sua pronuncia, e che l’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione pronunciata solo su parte della relativa istanza, ove intervenga la rinuncia dell’intimato, acquista l’efficacia della sentenza su tutto l’oggetto dell’istanza (e non solo su quello del provvedimento), dovendosi intendere che sulla parte dell’istanza su cui il provvedimento non ha pronunciato c’è stato rigetto implicito e non omissione di pronuncia (in senso sostanzialmente conforme, si veda anche Cass. n. 9379/2002, per la quale l’ordinanza anticipatoria ex art. 186 quater c.p.c. trova applicazione anche nel caso di giudizio in cui siano state proposte più domande nei confronti di una o più parti).

Nelle pronunce in questione peraltro si ha cura altresì di specificare che una volta che il provvedimento adottato dal giudice istruttore rientri nell’ambito delineato dall’art. 186 quater c.p.c. (richiesta della parte, pronuncia all’esito dell’attività istruttoria, decisione assunta previa valutazione delle prove e contenuto del provvedimento conforme a quanto richiesto dalla norma) ogni eventuale violazione di altre regole processuali determina l’applicazione del principio di conversione dei vizi di nullità in motivi di impugnazione, ex art. 161 c.p.c., comma 1.

Da ciò discende altresì che (cfr. Cass. n. 2084/2002) ai sensi dell’art. 354 c.p.c. il processo può regredire dall’appello al primo grado nei soli casi tassativamente previsti da detta norma, così che deve ritenersi viziata la sentenza con cui il giudice d’appello, dichiarata la nullità dell’ordinanza pronunciata ai sensi dell’art. 186 quater c.p.c. (per essere stata emessa, in un giudizio in cui erano proposte una domanda principale e una riconvenzionale, su istanza del solo attore dopo la precisazione delle conclusioni), rimette le parti davanti al primo giudice.

La disamina della successiva evoluzione della giurisprudenza appare confortare la correttezza dell’operato del giudice di appello, il quale, anche a fronte del riscontro di una patologia dell’ordinanza, per essersi pronunciata oltre i limiti delle richieste delle parti, ha correttamente escluso che fosse possibile limitarsi ad annullare l’ordinanza, ma che era necessario, proprio alla luce del dettato di cui all’art. 354 c.p.c., decidere nel merito anche in relazione al contenuto della domanda di restituzione di parte del prezzo della vendita.

In tal senso il risultato cui sembra mirare la ricorrente, e cioè l’affermazione della sola nullità dell’ordinanza, con la necessità di proseguire la disamina della domanda de qua dinanzi ad altro giudice (sembra che tale indicazione faccia inevitabilmente riferimento al giudice di primo grado) determinerebbe, in contrasto con quanto sopra dedotto, una rimessione della causa al giudice di primo grado al di fuori delle tassative ipotesi poste dagli artt. 353 e 354 c.p.c..

Non ignora il Collegio che secondo alcuni altri precedenti di legittimità (cfr. Cassazione civile sez. 2, 31 gennaio 2011 n. 2166) l’ordinanza anticipatoria prevista dall’art. 186 quater c.p.c., possa essere emessa, in caso di proposizione di domanda principale e domanda riconvenzionale, solo sulla domanda principale che si presenti, sulla base degli atti, priva di esigenze istruttorie, attesa la ratio di semplificazione ed accelerazione del processo sottesa alla norma, salva la necessità di disporre contestualmente un provvedimento di separazione dei procedimenti finalizzato alla prosecuzione della trattazione e dell’istruzione in ordine alla domanda riconvenzionale (per la diversa soluzione da adottare nel caso invece in cui la domanda principale e quella riconvenzionale siano in rapporto di incompatibilità, si veda Cass. n. 5423/2010, richiamata dalla difesa della ricorrente, secondo cui l’accoglimento della domanda principale comporta implicitamente il rigetto della riconvenzionale, con la conseguenza che la rinunzia alla pronuncia della sentenza ad istanza della parte diversa da quella che aveva proposto la richiesta ai sensi dell’art. 186 quater fa sì che la suddetta ordinanza assuma gli effetti della sentenza impugnabile non solo in relazione alla domanda accolta, ma anche in ordine a quella riconvenzionale implicitamente disattesa), ma riguardano ipotesi in cui il contenuto dell’ordinanza si era limitato proprio alla sola istanza avanzata.

In tal senso si veda anche Cass. n. 13148/2003, secondo cui nei processi con cumulo di domande, la statuizione sulle spese, contenuta nell’ordinanza ex art. 186 quater c.p.c. che abbia pronunciato su alcune delle domande cumulate, comporta separazione implicita delle cause, di tal che, una volta intervenuta la rinuncia alla pronuncia della sentenza, l’ordinanza si converte in sentenza definitiva.

La peculiarità della vicenda in esame è invece rappresentata dal fatto che l’ordinanza emessa dal Tribunale, sebbene in maniera erronea secondo quanto accertato dalla Corte d’Appello, e senza che tale affermazione sia stata contestata dalla controricorrente, si è pronunciato su tutte le domande proposte nel corso del giudizio di primo grado, ritenendo quindi che l’oggetto dell’istanza, in relazione alla quale l’ordinanza acquista efficacia di sentenza, in mancanza di richiesta di pronuncia di sentenza rivolta al giudice di primo grado, come previsto dal testo dell’art. 186 quater applicabile ratione temporis, e successivo alla novella di cui alla L. n. 263 del 2005 (non essendo quindi più necessaria una dichiarazione di rinuncia della parte intimata), era costituita da entrambe le domande cumulate nel medesimo giudizio da parte attrice, nonchè dalla domanda riconvenzionale della convenuta.

Anche a non voler ritenere direttamente applicabile alla fattispecie quanto affermatosi nella più recente giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 23313/2007) secondo cui l’ordinanza ex art. 186-quater c.p.c. che pronuncia su alcuni capi della domanda, se è fatta rinuncia alla sentenza, produce gli effetti di una sentenza definitiva sull’intero oggetto del giudizio, con la conseguenza che le parti possono impugnarla in ragione del loro interesse ad una diversa pronuncia ed il giudice di secondo grado, se richiesto, deve provvedere anche sui capi della domanda in relazione ai quali è mancata una decisione di merito mediante il provvedimento anticipatorio (conf. Cass. 20693/2016), concernendo tali precedenti la diversa ipotesi di omessa pronuncia da parte del giudice di primo grado su tutti i capi per i quali era stata avanzata richiesta, il vizio addebitato al giudice di primo grado non poteva ricevere conseguenze diverse da quelle tratte dalla sentenza oggi gravata.

L’eccedenza della decisione rispetto al rituale contenuto delle istanze determina la conversione del motivo di nullità in motivo di impugnazione, sicchè una volta riscontratane la presenza, la Corte d’Appello non poteva che pervenire alla decisione nel merito.

E’ pur vero che il Tribunale, in presenza di un’istanza limitata solo ad alcune della domande di parte attrice, avrebbe dovuto solo pronunciarsi su queste, disponendo la separazione delle domande decise con ordinanza da quelle il cui esame sarebbe dovuto proseguire in primo grado, ma non avendo proceduto in tal modo, ed avendo anzi definito l’intera materia del contendere con la sola ordinanza, non essendovi altre domande residue suscettibili di determinare la prosecuzione del processo dinanzi al Tribunale, correttamente la Benfin ha denunziato l’errore con l’appello, ma altrettanto correttamente la Corte distrettuale ha ritenuto di dover decidere nel merito, una volta evidenziata la patologia di cui parte dell’ordinanza era affetta, riesaminando quindi ex novo la richiesta di accertamento della risoluzione di diritto cui accedeva come effetto consequenziale la richiesta di pagamento alla restituzione della parte di prezzo trattenuta sui Sal dalla committente.

Deve quindi affermarsi il seguente principio di diritto: ” Nel caso in cui, nell’ambito di un processo che veda la proposizione cumulativa di domande, sia stata avanzata rituale istanza ex art. 186 quater c.p.c. solo su alcune delle stesse, ove il giudice erroneamente decida anche le domande per le quali l’istanza non era stata validamente o tempestivamente proposta, il giudice di appello dinanzi al quale sia stato denunziato l’errore, una volta dichiarata l’invalidità dell’ordinanza in parte qua, è tenuto a decidere nel merito la controversia, anche per le domande non interessate da valida richiesta di emissione di ordinanza post-istruttoria, senza che sia possibile disporre per le medesime la rimessione della causa al giudice di primo grado”.

Per l’effetto deve escludersi la denunziata contraddittorietà della motivazione, così come del pari non sussiste la denunziata violazione di legge, sia per quanto attiene alla corretta applicazione dell’art. 186 quater, sia per quanto concerne il vizio di ultrapetizione, atteso che la decisione gravata ha comunque pronunziato nell’ambito delle domande quali proposte dalle parti nel corso del giudizio di primo grado.

3. Il secondo motivo di ricorso denunzia la violazione per errata interpretazione del combinato disposto degli artt. 342 e 329 c.p.c. e art. 2909 c.c..

Evidenzia la ricorrente che la fondatezza della domanda attorea si basa sul’affermazione circa l’inesistenza di un collegamento negoziale tra il contratto di appalto ed il preliminare di compravendita, sicchè stante l’esistenza di tale legame, non poteva trovare accoglimento la domanda di saldo del prezzo dell’appalto se prima non fosse stata decisa la domanda di risoluzione del preliminare.

Deduce la Benfin che l’ordinanza del Tribunale aveva esaminato tale questione escludendo la presenza di un collegamento negoziale, facendo propri per relationem gli argomenti addotti dalla difesa di parte attrice.

Tuttavia, a fronte dell’appello avanzato dalla ricorrente anche su tale punto, la Corte distrettuale ha ritenuto che il motivo di gravame fosse inammissibile per difetto di specificità, soluzione questa che viene contestata con il motivo in esame.

A tal fine deve premettersi che la Corte d’Appello nel rilevare l’inammissibilità dell’appello in parte qua non ha minimamente inteso affermare, come invece deduce parte ricorrente, che il giudicato si sarebbe formato sulle argomentazioni del giudice di primo grado, ma ha chiaramente evidenziato che il giudicato concerneva la questione relativa alla insussistenza del collegamento negoziale, la quale aveva rilevanza centrale in vista dell’accoglimento della domanda riconvenzionale della convenuta, che, proprio fondandosi sulla tesi del collegamento, escludeva che la maturazione del termine previsto nel preliminare potesse determinare di per sè la risoluzione del contratto, stanti le pretese inadempienze dell’appaltatrice nel collegato contratto di appalto.

E’ quindi evidente che la domanda riconvenzionale, nella sua prospettazione è legata da un nesso di pregiudizialità logica con l’accertamento del collegamento negoziale, così che l’accertamento reso sul punto da parte del giudice di primo grado è destinato ad acquisire efficacia di giudicato ove non adeguatamente contestato con la proposizione dell’appello.

Posta tale precisazione, in primo luogo, occorre rilevare che attesa la formulazione del motivo che denunzia evidentemente un error in procedendo ex art. 360 c.p.c., n. 4, alla fattispecie trovano applicazione i principi affermati da Cass. S.U. 22 maggio 2012 n. 8077, secondo cui, quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, sostanziandosi nel compimento di un’attività deviante rispetto ad un modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore, (ed in particolare nel caso esaminato dalle Sezioni Unite, un vizio afferente alla nullità dell’atto introduttivo del giudizio per indeterminatezza dell’oggetto della domanda o delle ragioni poste a suo fondamento), il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purchè la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito (ed oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4).

Ciò implica che la Corte assume sul punto la qualità anche di giudice del fatto processuale, e che pertanto ben può procedere alla verifica circa la fondatezza del motivo di ricorso, mediante accesso diretto agli atti processuali e nella fattispecie, all’atto di appello, onde riscontrarne l’effettiva rispondenza al paradigma normativo di cui all’art. 342 c.p.c..

Al fine quindi di verificare la corretta applicazione della norma in esame, che nella formulazione in questa sede rilevante recita che “l’appello si propone con citazione contenente l’esposizione sommaria dei fatti ed i motivi specifici dell’impugnazione, nonchè le indicazioni prescritte nell’art. 163 c.p.c.”, si ritiene tuttora attuale quanto affermato dalle SS.UU. nella sentenza n. 16 del 2000, nella cui parte motiva è dato leggere che “nel giudizio di appello – che non è un iudicium novum, ma è una revisio prioris instantiae – la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante attraverso l’enunciazione di specifici motivi. Tale specificità dei motivi esige che, alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata, vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza separabili dalle argomentazioni che le sorreggono; ragion per cui, alla parte volitiva dell’appello, deve sempre accompagnarsi una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice. Pertanto, non si rivela sufficiente il fatto che l’atto d’appello consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate, ma è altresì necessario, pur quando la sentenza di primo grado sia stata censurata nella sua interezza, che le ragioni sulle quali si fonda il gravame siano esposte con sufficiente grado di specificità, da correlare, peraltro, con la motivazione della sentenza impugnata (Cass. 15 aprile 1998 n. 3805; Cass. 1 settembre 1997 n. 8297; Cass. 23 luglio 1997 n. 6893; Cass. 21 febbraio 1997 n. 1599; Cass. 30 maggio 1995 n. 6066), con la conseguenza che se da un lato, il grado di specificità dei motivi non può essere stabilito in via generale e assoluta, dall’altro lato esige pur sempre che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante volte ad incrinare il fondamento logico giuridico delle prime (Cass. 12 agosto 1997 n. 7524)”.

Tali considerazioni, alle quali si accompagna la specificazione che l’assenza di specificità dei motivi dell’atto di appello ne determina l’inammissibilità, sono sostanzialmente rimaste feline nella successiva giurisprudenza di questa Corte la quale, anche in seguito, ha ribadito l’indispensabilità che l’atto di appello contenga sempre tutte le argomentazioni volte a confutare le ragioni poste dal primo giudice a fondamento della propria decisione senza la possibilità di rinviare l’esposizione delle stesse ad un momento successivo del giudizio o addirittura alla comparsa conclusionale, essendo l’atto di appello quello che fissa i limiti della controversia in sede di gravame ed esaurisce il diritto potestativo di impugnazione (Cass. 30 luglio 2001 n. 10401; Cass. S.U, 23 dicembre 2005 n. 28498, secondo cui l’atto d’appello non può limitarsi ad individuare le “statuizioni” concretamente impugnate, e così i capi di sentenza non ancora destinati a passare in giudicato ex art. 329 cpv. c.p.c., ma deve contenere anche le argomentazioni dirette a confutare la validità delle ragioni poste dal primo giudice a fondamento della soluzione delle singole questioni su cui si regge la decisione e, quindi, non può non indicare le singole “questioni” sulle quali il giudice ad quem è chiamato a decidere, sostituendo o meno per ciascuna di esse soluzioni diverse da quelle adottate in prime cure).

Quanto alla possibilità di avvalersi di una tecnica redazionale dell’atto di appello che si concreti nel richiamo alle difese svolte in primo grado, non mancano precedenti (cfr. Cass. 16 dicembre 2005 n. 27727) per i quali l’onere della specificazione dei motivi di appello previsto dall’art. 342 c.p.c. può ritenersi soddisfatto solo quando l’atto di appello esprime articolate ragioni di doglianza su punti specifici della sentenza di primo grado, non essendo, perciò, sufficiente, il generico rinvio alle difese svolte in primo grado (conf. Cass. 23 gennaio 2009 n. 1707), con la puntualizzazione, del tutto condivisibile (così Cass. Sez. U, 25 novembre 2008 n. 28057) secondo cui l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, invocate a sostegno dell’appello, può sostanziarsi anche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado, purchè ciò determini una critica adeguata e specifica della decisione impugnata e consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle statuizioni adottate dal primo giudice.

In tale linea si pongono anche i precedenti richiamati dalla ricorrente nelle proprie difese che lungi dall’avallare in maniera aprioristica la ammissibilità di un appello che riproponga le difese già disattese in prime cure, ribadisce che il requisito della specificità dei motivi di appello impone che alla parte volitiva debba sempre accompagnarsi una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, di modo che non è sufficiente che l’individuazione delle censure sia consentita anche indirettamente dal complesso delle argomentazioni svolte a sostegno dei motivi di appello, dovendosi considerare integrato in sufficiente grado l’onere di specificità dei motivi di impugnazione, pur valutato in correlazione con il tenore della motivazione della sentenza impugnata, quando alle argomentazioni in essa esposte siano contrapposte quelle dell’appellante in guisa tale da inficiarne il fondamento logico giuridico, come nel caso in cui lo svolgimento dei motivi sia compiuto in termini incompatibili con la complessiva argomentazione della sentenza, restando in tal caso superfluo l’esame dei singoli passaggi argomentativi (conf. Cass. 14 marzo 2006 n. 5445).

Appare al Collegio che alla luce dei principi ricavabili dai sopra richiamati precedenti della Corte, l’individuazione del carattere di specificità del motivo di appello debba essere ispirata ad un principio di simmetria, nel senso che quanto più approfondite e dettagliate risultano le argomentazioni del giudice di primo grado, anche in rapporto agli argomenti spesi dalle parti nelle loro difese, altrettanto puntuali debbano profilarsi le argomentazioni logico giuridiche utilizzate dall’appellante per confutare l’impianto motivazionale del giudice di prime cure (in tal senso si veda da ultimo Cass. 27 gennaio 2014 n. 1651, la cui massima recita: La specificità dei motivi di appello deve essere commisurata alla specificità della motivazione e non è ravvisabile laddove l’appellante, nel censurare le statuizioni contenute nella sentenza di primo grado, ometta di indicare, per ciascuna delle ragioni esposte nella sentenza impugnata sul punto oggetto della controversia, le contrarie ragioni di fatto e di diritto che ritenga idonee a giustificare la doglianza).

La mera riproduzione del contenuto dei precedenti scritti difensivi potrebbe quindi apparire in grado di soddisfare il requisito di forma-sostanza posto dalla norma in esame, laddove ad esempio il giudice di primo grado si sia limitato a confutare in maniera apodittica o con argomentazioni di carattere meramente negatorio quelle già addotte in primo grado dall’appellante, ma non altrettanto laddove l’iter logico motivazionale della sentenza impugnata abbia addotto elementi di valutazione e di giudizio, sia in fatto che in diritto, in grado di confutare le tesi sostenute nei precedenti scritti difensivi, sì da imporre a carico di colui che impugna, l’onere di proporre a sua volta elementi in chiave critica in grado di permettere al giudice di appello di rivedere, ove siano ritenuti fondati, la decisione sottoposta al suo esame.

E’ evidente quindi che si tratta di una valutazione del fatto processuale che impone una verifica in concreto, condotta alla luce del raffronto tra la motivazione del provvedimento appellato e la formulazione dell’atto di appello.

Alla luce di tali considerazioni, va però esclusa la fondatezza delle censure della Benfin.

La decisione dei giudici di appello, nel ritenere che l’ordinanza avesse fatto proprie per relationem le tesi dell’attrice circa l’assenza del collegamento negoziale, anche in merito all’individuazione degli elementi di fatto che impedivano la ricorrenza del legame tra i due contratti (e manca la censura da parte della ricorrente circa tale affermazione in punto di motivazione per relationem) ha puntualmente riprodotto il tenore delle difese della (OMISSIS), evidenziando quali erano gli argomenti che deponevano per l’autonomia (carattere di contratto definitivo dell’appalto e preliminare della compravendita; diverse modalità di determinazione del prezzo; diversità cronologica dei termini di adempimento; differente natura giuridica dei termini de quibus – essendo stabilito il carattere essenziale solo per il termine previsto nel preliminare; diversa disciplina per le conseguenze scaturenti dall’inadempimento). Successivamente ha posto a raffronto il contenuto dell’atto di appello (pagg. 14 e 15) nel quale si fa richiamo al solo elemento della conclusione in pari data dei due contratti e del fatto che il prezzo della vendita sarebbe stato pagato mediante trattenute sui SAL dell’appalto.

Ritiene il Collegio che, a fronte dei vari argomenti utilizzati dal giudice di prime cure per escludere la sussistenza del collegamento, debba condividersi, in ragione del tenore del’atto di appello, il giudizio di aspecificità formulato sul punto dal giudice di secondo grado, mancando nelle deduzioni difensive dell’appellante una formulazione di critiche puntualmente finalizzate a contestare la valenza in chiave ricostruttiva della volontà delle parti degli elementi invece valorizzati dal Tribunale, sicchè anche tale motivo deve essere disatteso.

4. Il quarto motivo denunzia la violazione per errata interpretazione dell’art. 153 c.p.c., comma 2 in combinato disposto con l’art. 345 c.p.c., in relazione all’art. 360c.p.c., n. 3.

Si deduce che in appello si era contestata la decisione del Tribunale di pronunziare ex art. 186 quater sulla domanda di pagamento del prezzo dell’appalto avanzata dalla (OMISSIS), nonostante i documenti prodotti dalla ricorrente con la memoria del 25 ottobre 2010 imponessero una riapertura dell’istruttoria.

Si aggiunge che trattavasi di documenti formati in epoca successiva alla maturazione delle preclusioni istruttorie che documentavano l’insorgere di vizi nell’esecuzione delle opere appaltate manifestatisi a loro volta in epoca successiva alla scadenza dei termini di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6.

Per l’effetto la produzione doveva reputarsi tempestiva, dovendosi quindi escludere la dedotta violazione del regime delle preclusioni processuali.

In ogni caso i documenti, ove ritenuti tardivamente prodotti in primo grado, ben avrebbero potuto essere utilizzati in appello ai sensi della previsione di cui all’art. 345 c.p.c., e ciò anche senza la necessità di formulare un’istanza di rimessione in termini.

Il quinto motivo, da esaminare congiuntamente per evidente connessione, lamenta la violazione per errata applicazione degli artt. 1667 e 1668 c.c. in materia di decadenza e prescrizione della garanzia per vizi.

Il giudice di primo grado aveva infatti affermato che la ricorrente era incorsa sia nella decadenza che nella prescrizione della garanzia, disattendendo quindi la richiesta di CTU per l’accertamento dei vizi lamentati.

La decisione era però erronea in quanto i termini de quibus possono decorrere solo a partire dal momento in cui il committente abbia la piena comprensione della loro esistenza e possa quindi riscontrarne l’imputazione all’appaltatore.

Nel caso di specie ciò era avvenuto solo con le perizie prodotte con la memoria del 25/10/2010, sicchè la denunzia della loro esistenza era da ritenersi tempestiva ove rapportata a tale data.

I motivi investono la sentenza impugnata nella parte in cui è stata disattesa la richiesta di tener conto dei vizi dell’opus oggetto dell’appalto, essendosi confermata la fondatezza dell’eccezione di prescrizione e decadenza sollevata dall’appaltatrice.

A tal fine, e nel corso del giudizio di primo grado, allorquando erano già scaduti i termini concessi ex art. 183 c.p.c., comma 6, la ricorrente con la memoria del 25/10/2010 aveva prodotto i documenti numerati da 21 a 25, idonei a suo dire a documentare l’esistenza di vizi nuovi ed autonomi rispetto a quelli originariamente lamentati.

La Corte distrettuale nel confermare la decisione del Tribunale ha, da un lato, osservato che i vizi cd. originari erano stati del tutto eliminati da parte della (OMISSIS), mentre quanto ai vizi cd. sopravvenuti ha ritenuto inammissibile la produzione documentale effettuata dalla parte, in quanto operata in deroga al regime delle preclusioni istruttorie, con la conseguenza che non vi era prova della loro esistenza.

I motivi sono infondati.

Ed, invero, in disparte evidenti carenze del requisito di specificità del motivo ex art. 366 c.p.c., n. 6, non avendo parte ricorrente riprodotto in ricorso il contenuto essenziale delle perizie di parte di cui invoca l’efficacia probatoria, omettendo altresì di specificare quali vizi sarebbero stati riscontrati e come si differenzierebbero da quelli inizialmente dedotti nella memoria di cui all’art. 183 c.p.c., la ricorrente non si confronta con le reali motivazioni del giudice di appello.

Questi non ha negato in astratto la possibilità che la parte possa introdurre nel processo prove oggetto di una formazione successiva alla maturazione delle preclusioni istruttorie, ma ha ritenuto che era necessario ottenere una rimessione in termini. Inoltre, e con specifico riferimento alla deduzione di vizi sopravvenuti alla stessa maturazione delle preclusioni, si imponeva una puntuale individuazione dei vizi sopravvenuti e la altrettanto puntuale indicazione del momento in cui vennero ad evidenziarsi, onde poter apprezzare la non imputabilità alla parte della mancata deduzione nei termini di rito.

Trattasi di valutazioni del tutto meritevoli di condivisione e che appaiono consonanti con l’appezzabile esigenza di evitare che il regime delle preclusioni processuali, posto a tutela anche di esigenze di carattere pubblicistico, possa essere oggetto di facili elusioni.

Nella fattispecie, la sentenza gravata, oltre ad avere evidenziato l’assenza di una richiesta di rimessione in termini per la produzione documentale di parte ricorrente, che imponeva anche una sottoposizione al contraddittorio con la controparte, ha ricordato come l’affermazione della sopravvenienza di vizi, ancor prima della memoria del 26 ottobre 2010, sia stata effettuata dalla parte in maniera assolutamente generica, senza quindi permettere di apprezzare sia la differenza rispetto a quelli già denunziati, sia l’effettività della scoperta in un momento successivo al maturare delle preclusioni.

Inoltre appare frutto di un ragionamento apodittico sostenere, per escludere la necessità di una rimessione in termini, che solo con la redazione delle perizie di parte sarebbe emersa la consapevolezza dei vizi, apparendo comunque necessario fornire la prova dell’esatto momento in cui i cd. vizi sopravvenuti si siano effettivamente manifestati.

Quanto infine alla pretesa violazione dell’art. 345 c.p.c., e ribadito che la produzione dei documenti de quibus è avvenuta tardivamente, a preclusioni ormai maturate, valga il richiamo alla giurisprudenza di questa Corte che ha anche di recente ribadito che il potere del giudice di ammettere nuove prove in appello non può essere esercitato per sanare preclusioni e decadenze già verificatesi nel giudizio di primo grado (conf. Cass. n. 22014/2007).

6. Il sesto motivo di ricorso denunzia l’omessa e/o insufficiente motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 nonchè la violazione per errata applicazione dell’art. 1457 c.c..

Si deduce che la Corte d’Appello ha confermato la risoluzione di diritto del preliminare di compravendita ex art. 1457 c.c., omettendo però di considerare che la mancata consegna del bene nel termine pattuito era dovuta a cause non imputabili alla ricorrente, bensì al ritardo della stessa (OMISSIS) nella consegna dell’opus appaltato.

Il motivo aspira in -ammissibilmente ad una rivalutazione dei fatti di causa così come operata dal giudice di merito con ampia ed esauriente motivazione.

La sentenza gravata alle pagg. 9 e ss. ha richiamato la natura essenziale del termine, e dopo avere ribadito, per l’inammissibilità del motivo formulato sul punto, la impossibilità di poter ravvisare un collegamento tra l’appalto ed il preliminare, ha escluso la non imputabilità dell’inadempimento alla Benfin rilevando che la ricorrente non aveva assolto a tale prova, essendo peraltro emerso che la consegna dell’immobile all’appaltatrice era avvenuta con circa quattro mesi di ritardo, che la committente non aveva elaborato i progetti necessari, determinando in tal modo un rallentamento, che sempre la committente non aveva realizzato le opere di sua spettanza, con conseguente ulteriore ritardo, e che a fronte delle rimostranze della (OMISSIS) circa la mancata tempestiva consegna dell’appartamento, la Benfin non oppose alcuna giustificazione relativa ai ritardi nell’esecuzione dell’appalto.

Ha poi provveduto anche alla disamina critica delle deposizioni testimoniali invocate da parte ricorrente, svalutandone la rilevanza ai fini dell’accoglimento delle tesi difensive dell’appaltante, così che a fronte di tale ampia ed articolata valutazione del materiale istruttorio non è dato a questa Corte sindacare l’apprezzamento compiuto dal giudice di merito, connotato da logicità e coerenza.

7. Il settimo motivo denunzia l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto essenziale della controversia in relazione all’accoglimento della domanda di risoluzione del preliminare avanzata dall’attrice ai sensi dell’art. 1453 c.c..

Il motivo oltre a riproporre il tema, ormai non più suscettibile di essere posto in discussione della connessione tra i due contratti intercorsi tra le parti, non si confronta affatto con l’effettivo tenore della sentenza impugnata, la quale, lungi dal “togliere di mezzo ” la domanda principale di accertamento della risoluzione di diritto, come pur afferma la ricorrente, ha in realtà ribadito la intervenuta risoluzione ope iuris.

La conferma della correttezza di tale statuizione rende del tutto superfluo verificare se sussistessero i presupposti anche per la risoluzione ope iudicis, risultando pertanto la censura inammissibile per difetto di interesse.

8. L’ottavo motivo, infine lamenta l’erroneità della motivazione su questione essenziale, in conseguenza delle censure relative alle precedenti questioni, nonchè la violazione per errata applicazione dell’art. 186 quater c.p.c..

La ricorrente deduce che con l’ultimo motivo di appello aveva criticato l’ordinanza del Tribunale per il mancato accoglimento della domanda di condanna dell’attrice al pagamento della differenza tra il prezzo dell’immobile promesso in vendita ed il saldo dell’appalto.

La Corte ha disatteso la doglianza facendo leva, in primis, sulla carenza del nesso di collegamento tra i due contratti, il che impediva di poter operare la compensazione tra le due pretese, ma in secondo luogo ha escluso che fossero accoglibili, posto che alla luce di quanto emergeva dalla disamina dei precedenti motivi, mancava la prova dell’inadempimento della (OMISSIS), essendo per l’effetto stata accolta la domanda di risoluzione avanzata da quest’ultima ex art. 1457 c.c..

A fronte di tali argomentazioni, assume la Benfin che in primo grado aveva richiesto l’ordinanza anticipatoria solo per una parte del credito, sicchè ben poteva in appello insistere per l’intero, essendo quindi necessario che la Corte distrettuale si pronunziasse sulla domanda proposta.

Il motivo è evidentemente destituito di fondamento.

La pretesa fatta valere in via riconvenzionale dalla ricorrente si fonda sulla pretesa vincolatività tra le parti del preliminare, e mira ad ottenere la condanna della società attrice al versamento di quanto dovuto a titolo di prezzo, previa pronunzia della sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c..

E’ manifesto che trattasi di domanda in rapporto di incompatibilità con la domanda principale dell’attrice finalizzata invece ad accertare l’avvenuta risoluzione del contratto ex art. 1457 c.c., in quanto una volta accertato il venir meno del vincolo contrattuale, viene meno anche ogni possibilità per la promittente venditrice di poter reclamare il prezzo, previa pronunzia di sentenza che tenga luogo del contratto, potendosi anzi correttamente reputare che la domanda de qua sia stata quanto meno implicitamente rigettata.

Una volta quindi ribadita la correttezza della decisione di merito che ha appunto accertato l’avvenuta risoluzione del contratto ex art. 1457 c.c., è evidente che alcuna valida pretesa possa ancora esser fatta valere a titolo di riconvenzionale dalla ricorrente.

8. All’integrale rigetto del ricorso, consegue la condanna della ricorrente al rimborso delle spese del presente grado in favore della controparte, come liquidate in dispositivo.

PQM

La Corte, rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso in favore della controricorrente delle spese del grado che liquida in complessivi Euro 7.200,00, di cui Euro, 200,00 per esborsi, oltre 15 % sui compensi ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 2 Sezione Civile, il 2 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 10 aprile 2017

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA