Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 919 del 20/01/2010

Cassazione civile sez. II, 20/01/2010, (ud. 27/10/2009, dep. 20/01/2010), n.919

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHETTINO Olindo – Presidente –

Dott. MALZONE Ennio – Consigliere –

Dott. ODDO Massimo – Consigliere –

Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.S. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA G. FERRARI 35, presso lo studio dell’avvocato MARZI MASSIMO

FILIPPO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato BRIOLI

DANIELA;

– ricorrente –

contro

S.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA G FERRARI 12, presso lo studio dell’avvocato SMEDILE

SERGIO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAGNANI

FRANCO;

– controricorrente –

e contro

G.P.; C.F. (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 756/2 004 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 13/05/2004;

udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del

27/10/2009 dal Consigliere Dott. MIGLIUCCI Emilio;

udito l’Avvocato MARZI Massimo, difensore del ricorrente che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato SMODILE Sergio, difensore del resistente che ha

chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GOLIA Aurelio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

S.S. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Parma il genitore S.A. e G.P. per sentir dichiarare la nullita’ dell’atto pubblico di compravendita del (OMISSIS) per notar Marco Micheli, con il quale S.A., titolare della ditta individuale CESAP di S.A., aveva venduto al G. un appartamento al piano terzo mansardato, facente parte dell’edificio condominiale di via (OMISSIS), nel quale si trovava anche l’abitazione dell’attore.

A sostegno della domanda esponeva che : nell’atto era stata omessa la dichiarazione, da parte dell’alienante, che l’appartamento era stato oggetto di concessione in sanatoria a rilasciata dal Comune di Parma in data 11.2.1996 – ai sensi del capo 4^ della L. n. 47 del 1985 e della L. n. 724 del 1994, art. 39 e successive modifiche – per recupero ad uso abitativo del piano sottotetto; tale concessione era illegittima, in quanto l’ultimazione delle opere abusivamente realizzate non era avvenuta, come imponeva la L. n. 724 del 1994, art. 39 entro il 31.12.1994; il prezzo pattuito era inferiore di oltre la meta’ rispetto al valore commerciale dell’appartamento.

Deduceva che l’interesse ad agire per far valere la nullita’ del contratto gli derivava dall’essere comodatario della mansarda, adibita a proprio studio professionale, mansarda della quale era stato violentemente spogliato tanto da avere agito in possessoria.

Si costituivano i convenuti, deducendo: il G., che l’atto di compravendita conteneva a pag. 6 la dichiarazione da parte dell’alienante del rilascio di regolare concessione in sanatoria relativamente all’immobile de quo; la carenza di interesse ad agire dell’attore, atteso che il contratto di comodato era scaduto gia’ il 31 dicembre 1999; S.A., l’insussistenza del contratto di comodato e comunque la sua scadenza alla data del 31.12.1999 e conseguente mancanza dell’interesse ad agire in capo all’attore.

Con sentenza dep. il 5 luglio 2001 il Tribunale di Parma rigettava la domanda, sul rilievo che l’attore non aveva interesse a far valere la dedotta nullita’ sia perche’ l’eventuale contratto di comodato sarebbe scaduto sia perche’ lo stesso comunque non sarebbe stato opponibile. Con sentenza dep. il 13 maggio 2004 la Corte di appello di Bologna rigettava l’impugnazione proposta dall’attore che condannava al pagamento delle spese del giudizio di secondo grado.

Nel confermare la decisione di primo grado, i giudici di appello ritenevano che l’interesse giuridicamente rilevante che legittima ad agire in giudizio e’ non gia’ un qualunque interesse di fatto, quale potrebbe essere nella specie quello di chi, l’attore o qualunque altro condomino, voglia trovare nello stabile un ampliamento delle sue esigenze abitative o d’ufficio. In effetti, i rapporti giuridici al riguardo dedotti dall’attore erano insussistenti, posto che il contratto di comodato, per affermazione dello stesso attore, era gia’ scaduto al momento della vendita de qua, mentre per quanto riguardava la invocata opzione di vendita frazionata intercorsa fra l’attore e il genitore, si trattava di fotocopia di una scrittura dalla quale in nessun modo era dato arguire un contratto di opzione e comunque la persona del suo destinatario. D’altra parte, l’interesse ad agire non potrebbe collegarsi alla situazione di occupazione di fatto dell’immobile o ad una pendente azione di spoglio possessorio, dovendosi escludere – per il primo caso – che possa trovare tutela una situazione illegittima e- quanto alla seconda- non potendo il giudizio creare l’interesse essendo al contrario, dall’esito positivo, giustificato.

Avverso tale decisione propone ricorso per Cassazione S. S. sulla base di due motivi.

Resiste con controricorso S.A. che ha depositato memoria illustrativa.

Non ha svolto attivita’ difensiva G.P..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 100, 81, 115 e 116 c.p.c., degli artt. 1362, 1367, 1369 c.c. della L. n. 47 del 1985, artt. 17, 18 e 40 della L. 724 del 1996, art. 39, della L. n. 662 del 1996, art. 2, del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 39 nonche’ omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5), censura la decisione gravata che, nell’escludere l’interesse dell’attore a fare valere la nullita’ della vendita de qua, aveva fatto riferimento, da un lato, alla circostanza che il medesimo potesse vantare un mero interesse di fatto ad acquisire la porzione immobiliare in questione al fine di soddisfare esigenze abitative o di ufficio e, dall’altro, aveva considerato insussistenti i rapporti giuridici invocati dall’attore:

in realta’, i giudici avevano confuso l’interesse ad agire con il diritto fatto valere in giudizio ed avevano disconosciuto ogni valenza alle posizioni soggettive affermate dall’attore e tali da integrare l’interesse ad agire. Con riferimento alle azioni di accertamento l’interesse ad agire, che non va confuso con la legittimazione ad agire, consiste nella rimozione della situazione di incertezza che senza l’intervento del giudice non potrebbe essere eliminata: il pregiudizio deve essere concreto ed attuale, anche sopravvenuto all’atto impugnato, ma non deve necessariamente implicare la lesione di un diritto.

L’interesse dedotto dall’attore non era nient’affatto identico a quello di altro condomini o altro potenziale acquirente, posto che l’attore ha la disponibilita’ della seconda delle due (sole) porzioni immobiliari poste sullo stesso piano e l’unita’ venduta al G. rappresenta la naturale espansione dell’adiacente unita’ dell’attore, come di fatto era in passato accaduto in forza del contratto di comodato sino all’illegittimo spoglio operato in danno di esso istante che ha la oggettiva incontestata necessita’ di ampliare gli spazi destinati ad uso professionale e di impresa : pertanto, l’attore e’ portatore di un pregiudizio concreto ed attuale cosi’ come statuito dalla sentenza n. 2510 del 1994 della Suprema Corte in merito alla legittimazione del terzo ad esperire l’azione di nullita’ di un compravendita di un ben fallimentare venduto a trattativa privata. In ogni caso, vi erano una legittima aspettativa del S. a vedersi reintegrato nel possesso anche della porzione nel frattempo venduta e la necessita’ di rimuovere l’atto impugnato in quanto lo stesso ostacola sia la reintegra del ricorrente sia l’attuazione del provvedimento di reintegra Infine, il pregiudizio derivava dalla scrittura del (OMISSIS) che, contrariamente a quanto ritenuto dalla sentenza impugnata, integrava un’ opzione di vendita che andava interpretata ai sensi dell’art. 1362 c.c. e segg. e che non era stata specificamente contestata da controparte che erroneamente aveva lamentato la violazione dell’art. 345 c.c. quando e’ ammissibile in appello la produzione di nuovi documenti. Il motivo e’ infondato.

La sentenza ha correttamente escluso, in relazione alla spiegata impugnativa dell’atto di vendita effettuato dal genitore, l’esistenza dell’interesse ad agire sul rilievo che S.S. non era risultato titolare di una posizione giuridicamente rilevante, suscettibile di essere pregiudicata dall’atto di alienazione dell’immobile in relazione al quale l’attore non poteva vantare alcun diritto.

Al riguardo, va considerato che in tema di azione di mero accertamento l’interesse ad agire postula che colui che agisce si qualifichi titolare di diritti o di rapporti giuridici, non essendo invece necessario l’attuale verificarsi della lesione d’un diritto:

al riguardo, e’ sufficiente uno stato di incertezza oggettiva sull’esistenza di un rapporto giuridico o sull’esatta portata dei diritti e degli obblighi da esso scaturenti; in tal caso la rimozione di tale incertezza rappresenta un risultato utile, giuridicamente rilevante e non conseguibile se non con l’intervento del giudice, mentre e’ del tutto fuori luogo invocare l’interesse a rimuovere siffatta incertezza, quando colui che agisce prospetti un mero interesse di fatto, privo cioe’ di alcuna tutela da parte dell’ordinamento.

Orbene, va escluso che l’attore avesse prospettato di essere titolare di diritti o rapporti giuridici sui quali avrebbe potuto incidere l’atto di compravendita impugnato, dovendo al riguardo formularsi le considerazioni che seguono.

1) L’interesse ad ampliare la porzione immobiliare di cui aveva la disponibilita’ e la naturale espansione dell’adiacente unita’ immobiliare venduta dal genitore al G. rappresentava un mero interesse di fatto, atteso che deve ritenersi del tutto inconferente il precedente di legittimita’ invocato dal ricorrente, posto che la sentenza n. 2510/1994, nell’affrontare la specifica problematica dell’interesse ad agire del terzo ad impugnare l’atto di vendita effettuato dalla curatela fallimentare, ha sottolineato le particolari connotazioni – in deroga, cioe’, ai criteri ordinari – dell’interesse ad agire nell’ambito della procedura fallimentare, di cui ha evidenziato la natura pubblicistica, atteso che quest’ultima, rivolta alla massima realizzazione possibile delle attivita’ del fallito, e’ informata a caratteri autoritativi ed alla prevalenza dell’impulso d’ufficio.

2) Secondo gli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito, il contratto di comodato, in forza del quale l’attore aveva in passato avuto la detenzione dell’immobile, era scaduto – a stregua delle dichiarazioni rese dallo stesso ricorrente – ancora prima della vendita impugnata, sicche’ il predetto non poteva vantare alcun diritto a rimanere nella detenzione del bene de quo in forza di tale contratto.

3) Sulla configurabilita’ dell’interesse ad agire nel senso di cui si e’ detto non potrebbe spiegare alcuna influenza il riferimento al giudizio possessorio al quale pure ha fatto cenno il ricorrente, posto che l’interesse a rimuovere l’atto impugnato, siccome necessariamente correlato alla titolarita’ di una posizione diritto sostanziale, suscettibile di essere anche potenzialmente lesa dalla vendita, non potrebbe certo sorgere e scaturire per effetto dei riflessi che l’eventuale declaratoria di nullita’ potrebbe – ancora secondo l’assunto dell’attore – avere sulle sorti e sull’esito di altro procedimento.

4) Per quanto riguarda il contratto di opzione, la censura, pur facendo riferimento ai criteri di cui all’art. 1362 c.c. e segg., non denuncia specificamente il canone ermeneutico che sarebbe stato violato, canone che deve essere indicato in relazione al contenuto del testo contrattuale che sarebbe stato erroneamente interpretato in modo da dimostrare che un interpretazione del testo negoziale condotta in conformita’ delle regole ermeneutiche, avrebbe dovuto condurre a una diverso risultato interpretativo: nella specie, tali oneri non sono stati ottemperati, essendosi il ricorrente limitato a prospettare una interpretazione soggettiva della scrittura difforme da quella accolta dalla sentenza impugnata, secondo cui il negozio de quo non poteva essere considerato un contratto di opzione e non era possibile individuare la persona del destinatario.

Con il secondo motivo il ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. nonche’ omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5), censura la sentenza che, pur non avendo esaminato il merito della controversia, l’aveva condannato alle spese processuali del doppio grado di giudizio, mentre in considerazione della opinabilita’ delle questioni e della obiettiva rilevanza del motivo di nullita’, avrebbe dovuto procedere alla compensazione delle spese. Denuncia altresi’ che era stata compiuta un’unica liquidazione senza distinguere gli importi dovuti a ciascuno dei convenuti.

Infine, ribadiva nel merito le considerazioni che aveva gia’ formulato nei precedenti gradi di giudizio e che la Corte di appello non aveva esaminato.

Il motivo va disatteso.

La sentenza ha correttamente posto a carico del convenuto le spese processuali relative al solo giudizio di gravame, mentre nessuna pronuncia e’ stata emessa riguardo a quelle di primo grado in mancanza di apposito gravame da formularsi per il caso in cui fosse stata confermata la pronuncia di rigetto della domanda (il che di per se’ comportava la conferma della decisione impugnata anche relativamente alle statuizioni consequenziali in materia di spese processuali); infatti, dalla decisione impugnata non risulta che abbia formato oggetto di un autonomo e specifico motivo di appello la statuizione relativa alle spese di primo grado, sicche’ il ricorrente avrebbe dovuto semmai dedurre di avere formulato una specifica censura che, in virtu’ del principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, avrebbe dovuto trascrivere, denunciandone l’omesso esame ai sensi dell’art. 112 c.p.c..

I giudici, nel condannare il ricorrente alle spese del giudizio di gravame hanno fatto corretta applicazione del principio della soccombenza di cui all’art. 91 c.p.c., tenuto conto delle ragioni che hanno portato prima il Tribunale e poi la Corte di appello a respingere la domanda in cui l’attore ha insistito nonostante la evidente infondatezza della tesi difensiva sostenuta: il che ha evidentemente indotto i giudici ad escludere i presupposti per la compensazione delle spese processuali che e’, peraltro, rimessa alla prudente e motivata valutazione del giudice di merito.

Ne’, d’altra parte, il ricorrente ha interesse a censurare la liquidazione cumulativa delle spese processuali avvenuta con unico compenso a favore degli appellati nonostante che, secondo quanto risulta dalla sentenza impugnata, i predetti erano costituiti separatamente con diversi difensori ed avrebbero potuto denunciare la illegittimita’ di tale liquidazione, per loro pregiudizievole:

trattasi di provvedimento addirittura piu’ favorevole al ricorrente, che e’ tenuto a corrispondere unicamente la complessiva somma ivi indicata, mentre il medesimo sarebbe stato ben piu’ gravato ove si fosse proceduto alla distinta liquidazione delle spese in favore di ciascuna delle parti vittoriose.

Le considerazioni in precedenza formulate sull’inammissibilita’ della domanda per carenza di interesse ad agire evidenziano che era precluso alla Corte di esaminare il merito della vicenda processuale.

Il ricorso va rigettato.

Le spese della presente fase vanno poste a carico del ricorrente, risultato soccombente.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento in favore del resistente costituito delle spese relative alla presente fase che liquida in Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per onorari di avvocato oltre spese generali ed accessori di legge.

Cosi’ deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 27 ottobre 2009.

Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2010

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