Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 917 del 17/01/2017

Cassazione civile, sez. III, 17/01/2017, (ud. 27/09/2016, dep.17/01/2017),  n. 917

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – rel. Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10629/2014 proposto da:

S.R., SOFT SRL, in persona dell’amministratore unico, legale

rappresentante sig.ra P.A., considerati domiciliati ex

lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE,

rappresentati e difesi dall’avvocato MASSIMO BOSCOLO giusta procura

a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

CCIAA DI LECCE, in persona del Presidente p.t., P.A.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA SCROFA 64, presso lo

studio dell’avvocato GIUSEPPE PECORILLA, rappresentata e difesa

dall’avvocato ANGELO VANTAGGIATO giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 956/2013 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 18/12/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

27/09/2016 dal Consigliere Dott. ANTONIETTA SCRIMA;

udito l’Avvocato ANGELO VANTAGGIATO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

S.R., in proprio e nella qualità di legale rappresentante della SOFT S.r.l., nel 2002, conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Lecce, la Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura (di seguito indicata come C.C.I.A.A) di Lecce.

Rappresentava il S. che: 1) aveva, a seguito della segnalazione di un cliente, eseguito un controllo delle informazioni riguardanti la predetta società immesse dalla convenuta in rete tramite il CERVED di Padova, accertando che, tra le altre notizie, risultava annotata – su istanza di D.A., ex moglie dell’attore e socia della società attrice – anche la notizia relativa alla sua condanna per peculato emessa a suo carico dalla Corte di appello di Lecce, rispetto alla quale la SOFT S.r.l. era totalmente estranea; 2) nel febbraio 2000 aveva chiesto al Giudice del Registro l’ordine di cancellazione, concesso ma mai eseguito dal competente Conservatore; 3) in conseguenza di tale, a suo avviso, illegittima iscrizione, perchè richiesta da soggetto non legittimato e perchè riguardante un atto estraneo a quelli di rilevanza societaria, la società attrice aveva subito dal 1996 un calo del fatturato e la perdita di importanti affari, con ingenti danni economici ed egli stesso aveva patito danni morali per violazione della privacy.

Tanto premesso, l’attore chiedeva la condanna della C.C.I.A.A. al risarcimento dei danni.

La convenuta si costituiva contestando la domanda e quanto ex adverso dedotto.

Il Tribunale adito, con sentenza dell’11 febbraio 2010, accoglieva la domanda e condannava la C.C.I.A.A. al risarcimento dei danni pari ad Euro 256.002,62 per la società e ad Euro 30.000,00 per l’attore in proprio.

Avverso tale decisione la soccombente proponeva appello, cui resisteva il S., in proprio e nella qualità, che proponeva pure appello incidentale.

La Corte di appello di Lecce, con sentenza depositata il 18 dicembre 2013, rigettava l’appello incidentale, accoglieva l’appello principale e, in riforma della sentenza impugnata, rigettava integralmente la domanda proposta dal S., in proprio e nella qualità di legale rappresentante della SOFT S.r.l., e dichiarava compensate tra le parti le spese di entrambi i gradi del giudizio di merito.

Avverso la sentenza della Corte territoriale il S. e la SOFT S.r.l. hanno proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro articolati motivi.

La C.C.I.A.A. di Lecce ha resistito con controricorso illustrato da memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, con riferimento alla “illegittimità della pubblicazione per mancanza di legittimazione del soggetto che richiedeva l’iscrizione e per l’estraneità del contenuto dell’atto di attività sociale”, si lamenta “Violazione di legge: art. 324 c.p.c. e art. 2909 c.c. – Giudicato interno “nonchè “Violazione di legge: artt. 2188 c.c. e segg. e art. 100 disp. att. c.c.”.

I ricorrenti assumono che la CCIAA di Lecce non avrebbe proposto alcuno specifico motivo di appello avverso la parte della sentenza di primo grado in cui si affermava che l’iscrizione era avvenuta in assenza delle condizioni richieste dalle norme sul registro delle imprese, così accertando l’illiceità della pubblicazione, sicchè sul punto si sarebbe formato giudicato interno e, pertanto, la Corte di merito non avrebbe potuto riesaminare la questione stabilendo che l’attività di pubblicazione doveva ritenersi illecita.

Inoltre, ad avviso dei ricorrenti, la decisione sul punto della Corte territoriale costituirebbe anche violazione degli artt. 2188 c.c. e segg. e dell’art. 100 disp. att. c.c., evidenziandosi che, per soggetto interessato, dovrebbe intendersi il soggetto che possa spendere il nome della società.

1.1. Il motivo va rigettato.

A pag. 8 della sentenza impugnata risulta riportato il motivo di appello proposto dalla CCIAA e la Corte territoriale ha deciso tenuto conto dell’oggetto del gravame proposto e nell’ambito delle questioni da esso dipendenti, sicchè risultano infondate le censure sollevate al riguardo. Pure da disattendere sono le doglianze dei ricorrenti circa la pretesa violazione dell’art. 2188 c.c. e art. 100 disp. att. c.c., non condividendosi l’interpretazione restrittiva delle predette norme sostenuta dal S. e dalla SOFT S.r.l., considerato che l’atto trascritto risultava conferente rispetto alla “vita” della società e che la richiesta dell’iscrizione proveniva da soggetto certamente interessato, essendo socio della S.r.l., come condivisibilmente ritenuto dalla Corte di merito.

2. Il secondo motivo è così rubricato: “Motivazione mancante e/o erronea circa un fatto controverso decisivo per il giudizio: il mancato rispetto dell’ordine del giudice del registro di cancellazione. Violazione di legge per la mancata liquidazione del danno morale a S.R.: art. 185 c.p.; art. 2059 c.c. e art. 2050 c.c.”.

I ricorrenti lamentano che la Corte di merito, pur affermando che risultava dimostrato per tabulas che alla data del 20 novembre 2002 la sentenza di condanna risultava ancora iscritta nel registro delle imprese, sicchè era evidente che a tale data il Conservatore non avesse ancora dato esecuzione all’ordine del giudice, si sarebbe “sofferma(ta) esclusivamente sul danno patrimoniale e sul nesso eziologico tra questo e l’iscrizione”, nonostante il S. avesse proposto domanda volta ad ottenere anche il risarcimento del danno morale e pur costituendo il comportamento omissivo della C.C.I.A.A. reato ai sensi dell’art. 650 c.p..

2.1. Il motivo va disatteso, in quanto la Corte di merito, con riferimento all’appello incidentale avente ad oggetto anche il risarcimento dei danni “materiali e morali” subiti dal S. in proprio per il mancato tempestivo adempimento dell’ordine di cancellazione impartito dal Giudice del registro, ha espressamente affermato a p. 21 della sentenza di secondo grado che, “in disparte l’evidente difetto di interesse a proporre il gravame in rassegna avuto riguardo alla statuizione impugnata (conforme alle superiori richieste), in ogni caso l’impugnazione incidentale rimane assorbita per effetto dell’accoglimento di quella principale, comportante la totale riforma della sentenza impugnata”, non senza rilevarsi al riguardo che il danno morale non è comunque in re ipsa ma va sempre debitamente allegato e provato da chi lo invoca, anche attraverso presunzioni semplici (Cass., ord., 12/04/2011, n. 8421).

3. Con il terzo motivo si lamenta “Violazione della normativa sul trattamento dei dati personali: L. 31 dicembre 1996, n. 675, artt. 18, 24 e art. 29, n. 9. Motivazione insufficiente e/o erronea circa un fatto controverso decisivo per il giudizio; liquidazione del danno morale per la mancata cancellazione dell’iscrizione a seguito dell’entrata in vigore della normativa sulla cosi(d)detta privacy”.

I ricorrenti censurano la decisione della Corte territoriale nella parte in cui nella stessa si afferma che “la mancata cancellazione del dato personale riguardante il S. comporterebbe a carico della CCIAA l’obbligo di risarcire il danno ex art. 2050 c.c. (cfr. L. n. 675 del 1996, art. 18)” e che tuttavia “il danno non patrimoniale da violazione da legge sulla privacy non è “in re ipsa”, ma è onere di chi invoca il risarcimento allegarlo e provarlo, sia pure tramite presunzioni ” e che “… nel caso che ne occupa, non risulta assolto dal S. tale onere di allegazione e prova, sicchè deve concludersi per l’insussistenza del danno risarcibile”.

Assumono i ricorrenti che, per quanto attiene al danno morale, la Corte di merito non avrebbe dato conto delle numerose allegazioni del S. sul punto, a conforto della richiesta di risarcimento.

3.1. Il motivo va rigettato.

Premesso che, come pure evidenziato dalla Corte di merito, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, cui va data continuità, il danno non patrimoniale, anche nel caso di lesione di diritti inviolabili, non può mai ritenersi in re ipsa, ma va debitamente allegato e provato da chi lo invoca, anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici (ex plurimis Cass. 13/05/2011, n. 10527; Cass., ord., 26/09/2013, 22100), in base a quanto rappresentato nella stessa illustrazione del motivo all’esame risulta evidente che le allegazioni in parola sono tardive, richiamando (v. ricorso p. 14) gli stessi ricorrenti quanto dedotto al riguardo nella comparsa di costituzione in secondo grado e nella comparsa conclusionale.

4. Con il quarto motivo si deduce “Motivazione erronea, illogica e/o insufficiente su un fatto controverso e decisivo: il nesso di causalità e la prova del danno patrimoniale”.

4.1. Il motivo è inammissibile.

Si evidenzia che, essendo la sentenza impugnata in questa sede stata pubblicata in data 18 dicembre 2013, nella specie trova applicazione l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione novellata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modifiche nella L. 7 agosto 2012, n. 134.

Alla luce del nuovo testo della richiamata norma del codice di rito, non è più configurabile il vizio di insufficiente e/o contraddittoria e/o illogica motivazione della sentenza, atteso che la norma suddetta attribuisce rilievo solo all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti, non potendo neppure ritenersi che il vizio di contraddittoria motivazione sopravviva come ipotesi di nullità della sentenza ai sensi del n. 4) del medesimo art. 360 c.p.c. (Cass., ord., 6/07/2015, n. 13928; v. pure Cass., ord., 16/07/2014, n. 16300) e va, inoltre, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass., ord., 8/10/2014, n. 21257). E ciò in conformità al principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 8053 del 7/04/2014, secondo cui la già richiamata riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia – nella specie all’esame non sussistente – si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.

Le Sezioni Unite, con la richiamata pronuncia, hanno pure precisato che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, così come da ultimo riformulato, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

Nella specie, con le censure formulate nell’illustrazione del motivo all’esame, i ricorrenti, lungi dal proporre delle doglianze che rispettano il paradigma legale di cui al novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c., ripropongono, come peraltro chiaramente indicato già nella rubrica del motivo all’esame, inammissibilmente lo stesso schema censorio del n. 5 nella sua precedente formulazione, inapplicabile ratione temporis e tendono, con il mezzo all’esame, in sostanza ad una rivalutazione del merito non consentita in questa sede.

5. Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.

6. Tenuto conto della particolarità della vicenda esaminata e del diverso esito della lite nei due gradi di merito, vanno compensate per intero tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione.

7. Va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e compensa per intero tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 27 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2017

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