Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9165 del 19/05/2020

Cassazione civile sez. I, 19/05/2020, (ud. 15/01/2020, dep. 19/05/2020), n.9165

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1974/2019 proposto da:

A.K.L., elettivamente domiciliato in Roma Via

Università 11, presso lo studio dell’avvocato Benzi Emiliano che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato Ballerini Alessandra;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso la sentenza n. 878/2018 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 28/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

15/01/2020 dal Cons. Dott. FIDANZIA ANDREA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’Appello di Genova, con sentenza depositata in data 28.05.2018, ha rigettato l’appello avverso l’ordinanza con cui il Tribunale di Genova ha rigettato la domanda di A.K.L., cittadino della (OMISSIS), volta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale e, in subordine, di quella umanitaria.

Il giudice di merito ha ritenuto, in primo luogo, insussistenti i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato, non essendo la sua vicenda inquadrabile in nessuna delle fattispecie di protezione (costui aveva riferito di essersi allontanato dalla Nigeria a seguito di un conflitto con i vicini per una proprietà terriera).

Il giudice d’appello ha, inoltre, ritenuto inesistenti i requisiti per il riconoscimento della protezione sussidiaria in ragione dell’insussistenza di una situazione di violenza diffusa e generalizzata nel paese di provenienza del ricorrente.

Il ricorrente non è stato, altresì, ritenuto meritevole del permesso per motivi umanitari, difettando in capo allo stesso i presupposti per il riconoscimento di una sua condizione di vulnerabilità.

Ha proposto ricorso per cassazione A.K.L. affidandolo ad un unico articolato motivo.

Il Ministero dell’Interno non ha svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. E’ stata dedotta dal ricorrente la violazione dell’art. 2 Cost. e art. 11 del Patto internazionale sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite del 1996, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 32, art. 19 T.U.I.. Espone il ricorrente la sistematica violazione dei diritti umani perpetrata in Nigeria, paese in cui oltre la metà della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà e dove corruzione e malaffare impediscono di ottenere adeguata tutela dalle autorità locali. Ne consegue che, data la condizione generale della Nigeria, un eventuale rientro lo esporrebbe ad una situazione di vulnerabilità, determinata anche dalle sofferenze patite e dai trattamenti disumani cui è stato sottoposto in Libia.

Sostiene, inoltre, il ricorrente di aver intrapreso un pregevole percorso di integrazione socio lavorativa, come documentato in atti.

Invoca, infine, il ricorrente il diritto al rispetto della propria vita privata protetta dall’art. 8 della Convenzione, quale diritto a sviluppare e mantenere rapporti con altri esseri umani ed il mondo esterno, anche svincolato dal diritto all’unità familiare.

2. Il motivo presenta profili di inammissibilità ed infondatezza.

In ordine alla lamentata violazione dei diritti umani, va preliminarmente osservato che, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, non è sufficiente la generica deduzione della violazione dei diritti fondamentali nel Paese d’origine. Sul punto, questa Corte ha già affermato che, anche ove sia dedotta dal richiedente una effettiva e significativa compromissione dei diritti fondamentali inviolabili nel paese d’origine, pur dovendosi partire, nella valutazione di vulnerabilità, dalla situazione oggettiva di tale paese, questa deve essere necessariamente correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza. Infatti, ove si prescindesse dalla vicenda personale del richiedente, si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti, e ciò in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (in questi termini, Cass. n. 4455 del 23/02/2018).

Nel caso di specie, il ricorrente ha dedotto solo genericamente la violazione dei diritti fondamentali in Nigeria, facendo riferimento in modo assertivo ad un tenore di vita della popolazione inferiore alla soglia di povertà ed al sistema di corruzione, ma senza minimamente correlarla alla sua condizione personale.

Anche con riferimento alle sofferenze asseritamente patite in Libia, il ricorrente ha fatto genericamente richiamo ai propri atti processuali di cui non ha specificato il contenuto ed alla condizione generale dei migranti in Libia, senza indicare alcun dettaglio relativo alla sua esperienza personale e senza neppure allegare che la questione della Libia abbia formato oggetto di uno specifico motivo di appello.

Quanto alla dedotta integrazione nel paese d’accoglienza, va osservato che la sentenza impugnata ha evidenziato che il ricorrente non risulta avere alcun legame affettivo o parentale in territorio italiano, mentre, d’altra parte, il dedotto pregevole percorso di integrazione socio lavorativa, che il ricorrente avrebbe intrapreso, sarebbe documentato genericamente da imprecisati atti.

Peraltro, la giurisprudenza di questa Corte ha condivisibilmente ritenuto, in ordine alla dedotta integrazione del richiedente, che tale elemento può essere sì considerato in una valutazione comparativa al fine di verificare la sussistenza della situazione di vulnerabilità, ma non può, tuttavia, da solo esaurirne il contenuto (vedi sempre Cass. n. 4455 del 23/02/2018).

Infine, palesemente infondata è l’allegata violazione dell’art. 8 CEDU, avendo comunque escluso la Corte di merito che il ricorrente abbia instaurato in Italia solidi legami sociali idonei a dar luogo ad una “vita privata” tutelabile dalla norma predetta.

Il rigetto del ricorso non comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, non essendosi il Ministero dell’Interno costituito in giudizio.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello del ricorso principale, se dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 maggio 2020

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