Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9162 del 02/04/2021

Cassazione civile sez. trib., 02/04/2021, (ud. 21/01/2021, dep. 02/04/2021), n.9162

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. LEUZZI Salvatore – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 13836 del ruolo generale dell’anno 2017

proposto da:

St. Malta Limited, rappresentata e difesa dagli Avv.ti Roberto

A. Jacchia, Antonella Terranova, Fabio Ferraro e Daniela Agnello per

procura speciale in calce al ricorso, elettivamente domiciliata in

Roma, via Vincenzo Bellini n. 24, presso lo studio dei primi tre

difensori;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle dogane e dei monopoli, in persona del Direttore pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello

Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è

domiciliata;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale del Lazio, sezione staccata di Latina, n. 8167/19/16,

depositata in data 9 dicembre 2016;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 21

gennaio 2021 dal Consigliere Giancarlo Triscari.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Dall’esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle dogane e dei monopoli aveva notificato a St. Malta Limited, soggetto esercente l’attività di raccolta scommesse priva di concessione, un avviso di accertamento con il quale era stato contestato il mancato versamento dell’imposta unica sulle scommesse per l’anno 2008, quale soggetto obbligato in solido con Sport Games s.r.l. che, per conto di St. Malta Limited, svolgeva l’attività di ricevitoria; avverso l’atto impositivo la società aveva proposto ricorso che era stato rigettato dalla Commissione tributaria provinciale di Latina; avverso la pronuncia del giudice di primo grado la società aveva proposto appello.

La Commissione tributaria regionale della Campania, sezione staccata di Latina, ha rigettato l’appello, in particolare ha ritenuto che: la fattispecie in esame è disciplinata dal D.Lgs. n. 504 del 1998, che, all’art. 3, comma 1, individua quali soggetti passivi dell’imposta unica coloro i quali gestiscono, anche in concessione, i concorsi pronostici e le scommesse, nonchè dalla successiva norma interpretativa di cui alla L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b), secondo cui soggetto passivo dell’imposta è chiunque, anche se in assenza o in caso di inefficacia della concessione, gestisce con qualunque mezzo, anche telematico, per conto proprio o di terzi, anche ubicati all’estero, concorsi pronostici o scommesse di qualsiasi genere, sicchè, anche nel caso di svolgimento di attività di raccolta scommesse mediante un intermediario da parte di bokmaker estero che operi privo di concessione, come nel caso di specie, sussisteva la responsabilità del medesimo in caso di omesso pagamento dell’imposta unica; l’attività del ricevitore e quella del bokmaker estero erano da ricondursi ad una fattispecie da valutarsi nel suo complesso, essendo finalizzate ad una operazione economica unitaria, consistente nella raccolta e organizzazione delle scommesse; sussistevano, nella fattispecie, sia il presupposto oggettivo che quello soggettivo dell’imposta ed era rispettato il criterio della territorialità; erano da escludersi ragioni di contrasto con i principi costituzionali o unionali.

La società ha quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato a dieci motivi di censura, illustrato con successiva memoria, cui ha resistito l’Agenzia delle dogane e dei monopoli depositando controricorso, illustrato con successiva memoria.

La società ha altresì depositato istanza con la quale ha chiesto la trattazione della causa alla pubblica udienza.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Preliminarmente, va disattesa l’istanza di trattazione della causa in pubblica udienza.

In adesione all’indirizzo espresso dalle sezioni unite di questa Corte, il collegio giudicante ben può escludere, nell’esercizio di una valutazione discrezionale, la ricorrenza dei presupposti della trattazione in pubblica udienza, in ragione del carattere consolidato dei principi di diritto da applicare nel caso di specie (Cass. Sez. Un., 5 giugno 2018, n. 14437), e non si verta in ipotesi di decisioni aventi rilevanza nomofilattica (Cass. Sez. U., 23 aprile 2020, n. 8093).

In particolare, la sede dell’adunanza camerale non è incompatibile, di per sè, anche con la statuizione su questioni nuove, soprattutto se non oggettivamente inedite e già assistite da un consolidato orientamento, cui la Corte fornisce il proprio contributo.

Nel caso in questione, il tema oggetto del giudizio è nuovo nella giurisprudenza di questa Corte, ma non è inedito, in quanto compiutamente affrontato in tutti i suoi risvolti, da un lato, dalla Corte costituzionale (con la sentenza 14 febbraio 2018, n. 27) e, dall’altro, da quella unionale (con la sentenza in causa C-788/18, relativa alla St. Malta Limited); e i principi da quelle Corti stabiliti risultano ampiamente e diffusamente recepiti pure dalla giurisprudenza di merito.

Così ampie e convergenti affermazioni inducono quindi a ritenere preferibile la scelta del procedimento camerale, funzionale alla decisione di questioni di diritto di rapida trattazione non caratterizzate da peculiare complessità (sulla medesima falsariga, si veda Cass. 20 novembre 2020, n. 26480).

Nè la giurisprudenza penale di questa Corte allegata all’istanza di rimessione alla pubblica udienza è idonea a incrinare i principi in questione, per le ragioni di seguito esplicate.

Infine, quanto al profilo delle esigenze difensive, che pure si manifestano nell’istanza e sono ribadite nella memoria illustrativa, va anzitutto, nuovamente, sottolineato che, in conformità alla giurisprudenza sovranazionale, il principio di pubblicità dell’udienza, pur previsto dall’art. 6 CEDU, e avente rilievo costituzionale, non riveste carattere assoluto e vi si può derogare in presenza di “particolari ragioni giustificative”, ove “obiettive e razionali” (in particolare, Corte Cost. 11 marzo 2011, n. 80).

Ad ogni modo, queste esigenze sono anche in concreto presidiate, perchè le parti hanno illustrato le proprie rispettive posizioni in esito alle pronunce della Corte costituzionale e della Corte di giustizia depositando osservazioni scritte.

1. Con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, come interpretato dalla L. di stabilità 2011, art. 1, comma 66, lett. b), per avere erroneamente ritenuto che il centro di trasmissione dati è soggetto passivo dell’imposta unica sulle scommesse.

2. Con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, come interpretato dalla L. di stabilità 2011, art. 1, comma 66, lett. b), per avere erroneamente ritenuto integrato il profilo oggettivo del presupposto dell’imposta unica.

3. Con il terzo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, come interpretato dalla L. di stabilità 2011, art. 1, comma 66, lett. b), per avere erroneamente ritenuto che fosse configurabile nei confronti del centro di trasmissione dati il profilo territoriale del tributo.

4. Con il quarto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza delle leggi di cui all’art. 3 Cost., sotto diversi profili, con riferimento al D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, e della L. di stabilità 2011, art. 1, comma 66, lett. b).

5. Con il quinto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione dell’art. 53 Cost., e del principio di capacità contributiva, con riferimento al D.Lgs. n. 504 del 1998, artt. 1 e 3, al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 64, comma 3, e alla L. di stabilità 2011, art. 1, comma 66, lett. b).

6. Con il sesto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del principio dell’equo processo di cui alla Convenzione dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali del 1950 (CEDU), art. 6, e dell’art. 117 Cost., comma 1, con riferimento alla L. di stabilità 2011, art. 1, comma 66, lett. b).

6.1. Ai fini della definizione dei motivi di ricorso illustrati, si rende necessario un esame del quadro normativo di riferimento.

Sin dalle origini il tributo sui giochi e le scommesse, che è frutto de del percorso evolutivo iniziato con la tassa di lotteria (D.Lgs. 14 aprile 1948, n. 496, art. 6), è stato pensato in relazione alle “attività di gioco”: già nella relazione ministeriale al disegno di legge istitutivo dell’imposta unica n. 2033, presentato il 15 giugno 1951, si leggeva, quanto ai giochi riservati al CONI e all’UNIRE, che questi “…debbono allo Stato, per l’esercizio delle attività di giuoco predette, la corresponsione di una tassa di lotteria…”.

Sicchè il presupposto dell’imposizione non è stato correlato alla giocata in sè, ma alla prestazione di un servizio, che è, appunto, il servizio di gioco e, in questo ambito, il prelievo colpisce il prodotto che è offerto al consumatore tramite l’organizzazione dell’attività, sotto forma di servizio.

Sono proprio queste ragioni di ordine storico e sistematico che caratterizzano il quadro normativo di riferimento, che è così articolato:

– conformemente al D.Lgs. 23 dicembre 1998, n. 504, art. 1, volto al riordino dell’imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse, a norma della L. 3 agosto 1998, n. 288, art. 1, comma 2, l’imposta unica è dovuta per i concorsi pronostici e le scommesse di qualunque tipo, relativi a qualunque evento, anche se svolto all’estero; il suddetto D.Lgs. n. 504 del 1988, art. 3, intitolato ai soggetti passivi, stabilisce che “Soggetti passivi dell’imposta unica sono coloro i quali gestiscono, anche in concessione, i concorsi pronostici e le scommesse”;

– a norma della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, “(…) a) (…) l’imposta unica (…) è comunque dovuta ancorchè la raccolta del gioco, compresa quella a distanza, avvenga in assenza ovvero in caso di inefficacia della concessione rilasciata dal ministero dell’economia e delle finanze – amministrazione autonoma dei monopoli di Stato; b) il D.Lgs. (n. 504 del 1998), art. 3, si interpreta nel senso che soggetto passivo d’imposta è chiunque, ancorchè in assenza o in caso di inefficacia della concessione rilasciata dal ministero dell’economia e delle finanze – amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, gestisce con qualunque mezzo, anche telematico, per conto proprio o di terzi, anche ubicati all’estero, concorsi pronostici o scommesse di qualsiasi genere. Se l’attività è esercitata per conto di terzi, il soggetto per conto del quale l’attività è esercitata è obbligato solidalmente al pagamento dell’imposta e delle relative sanzioni”;

– il D.M. economia e finanze 1 marzo 2006, n. 111, art. 16, prevede che il concessionario effettui il pagamento delle somme dovute a titolo di imposta unica;

– ai sensi della L. 23 dicembre 2014, n. 190, art. 1, comma 644, lett. g), l’imposta unica si applica “su di un imponibile forfetario coincidente con il triplo della media della raccolta effettuata nella provincia ove è ubicato l’esercizio o il punto di raccolta, desunta dai dati registrati nel totalizzatore nazionale per il periodo d’imposta antecedente a quello di riferimento”.

6.2. Questo quadro normativo è stato sottoposto all’esame della Corte costituzionale e della Corte di giustizia, che ne hanno compiutamente esaminato le relazioni rispettivamente con la Costituzione e col diritto unionale prospettate nell’odierno ricorso, fornendo chiari elementi per la soluzione degli ulteriori dubbi prospettati con la memoria illustrativa.

6.3. In particolare, la Corte costituzionale (con la sentenza 23 gennaio 2018, n. 27), con riguardo all’ambito soggettivo dell’imposta, ha dato atto dell’incertezza correlata all’interpretazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, per il periodo antecedente alla disposizione interpretativa del 2010 (nel senso che era incerto se la pretesa impositiva si potesse rivolgere anche nei confronti dei soggetti che operavano al di fuori del sistema concessorio); ma ha riconosciuto che il legislatore, con la L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, da un canto, ha stabilito che l’imposta è dovuta anche nel caso di scommesse raccolte al di fuori del sistema concessorio e, d’altro canto, ha esplicitato l’obbligo delle ricevitorie operanti, come nel caso in esame, per conto di bookmakers privi di concessione, al versamento del tributo e delle relative sanzioni.

A questo riguardo ha escluso che l’equiparazione, ai fini tributari, del “gestore per conto terzi” (ossia del titolare di ricevitoria) al “gestore per conto proprio” (ossia al bookmaker) sia irragionevole.

Entrambi i soggetti, difatti, ha sottolineato quella Corte, partecipano, sia pure su piani diversi e secondo diverse modalità operative, allo svolgimento dell’attività di “organizzazione ed esercizio” delle scommesse soggetta a imposizione. In particolare, ha rimarcato il fatto che il titolare della ricevitoria, benchè non partecipi direttamente al rischio connaturato al contratto di scommessa, svolge comunque un’attività di gestione, perchè assicura la disponibilità di locali idonei e la ricezione della proposta, si occupa della trasmissione al bookmaker dell’accettazione della scommessa, dell’incasso e del trasferimento delle somme giocate, nonchè del pagamento delle vincite secondo le procedure e le istruzioni fornite dal bookmaker.

Della sussistenza di autonomi rapporti obbligatori che, ai fini tributari, sono avvinti dal nesso di solidarietà per conseguenza paritetica, e non già dipendente, non dubita, d’altronde, la giurisprudenza civile di questa Corte, la quale, sia pure con riguardo al gioco del lotto, ha chiarito, appunto, che sono due i rapporti obbligatori, quello concluso tra lo scommettitore e il raccoglitore e quello che si instaura tra lo scommettitore ed il gestore (Cass. civ., 27 luglio 2015, n. 15731).

La stessa giurisprudenza penale citata in memoria dai contribuenti (ossia Cass. pen. 9 luglio 2020, n. 25439) evidenzia la rilevanza del ruolo del ricevitore appartenente alla rete distributiva del bookmaker (punto 5), consistente nella “…raccolta e trasmissione delle scommesse per conto di quest’ultimo, rilasciando le ricevute emesse dal terminale di gioco -con le annesse attività di incasso delle poste e di pagamento delle eventuali vincite (…)”.

Sicchè, ha concluso la Corte costituzionale, quanto al ricevitore, l’attività gestoria che costituisce il presupposto dell’imposizione va riferita alla raccolta delle scommesse, il volume delle quali determina anche la provvigione della ricevitoria e per conseguenza il suo stesso rischio imprenditoriale.

Nè, ha aggiunto, la scelta di assoggettare all’imposta i titolari delle ricevitorie operanti per conto di soggetti privi di concessione viola il principio di capacità contributiva, nei limiti in cui il rapporto tra il titolare della ricevitoria che agisce per conto di terzi e il bookmaker sia disciplinato da un contratto che regoli anche le commissioni dovute al titolare della ricevitoria per il servizio prestato: ciò perchè attraverso la regolazione negoziale delle commissioni il titolare della ricevitoria ha la possibilità di trasferire il carico tributario sul bookmaker per conto del quale opera.

La rivalsa svolge quindi funzione applicativa del principio di capacità contributiva, poichè redistribuisce tra i coobbligati, bookmaker e ricevitoria, che hanno comunque realizzato, sia pure in vario modo, il presupposto impositivo, il carico fiscale in relazione alla partecipazione di ognuno a tale realizzazione.

E’ sulla base delle suddette considerazioni che la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, e della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b), nella sola parte in cui prevedono che, nelle annualità d’imposta precedenti al 2011, siano assoggettate all’imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse le ricevitorie operanti per conto di soggetti privi di concessione. In quel periodo, non si può difatti procedere alla traslazione dell’imposta, perchè l’entità delle commissioni già pattuite fra ricevitorie e bookmaker si era già cristallizzata sulla base del quadro precedente alla L. n. 220 del 2010. Quella Corte ha anche chiarito (punto 4.5) che, in mancanza di regolazione degli effetti transitori e in considerazione della natura interpretativa della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b), la disposizione va applicata anche ai rapporti negoziali perfezionatisi prima della sua entrata in vigore.

Ne consegue che per le annualità d’imposta antecedenti al 2011 non rispondono le ricevitorie, ma rispondono i bookmaker, con o senza concessione, in base alla combinazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, e della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. a), usciti indenni dal vaglio di legittimità costituzionale.

A diversa conclusione, invece, deve pervenirsi per le annualità dal 2011.

Invero, va osservato che la incostituzionalità della norma in esame è stata riscontrata dalla Corte “in ragione dell’impossibilità per le ricevitorie di traslare l’imposta per gli esercizi anteriori al 2011” con conseguente violazione dell’art. 53 Cost., “giacchè l’entità delle commissioni pattuite fra ricevitore e bookmaker si era già cristalizzata sulla base del quadro regolatorio, anche sotto il profilo tributario, precedente alla L. n. 220 del 2010”.

A fondamento, dunque, della pronuncia di incostituzionalità è stata la considerazione della già avvenuta definizione negoziale tra le parti dei reciproci rapporti in data antecedente alla introduzione della soggettività passiva della ricevitoria del bookmaker privo di concessione, ed è stato dato rilievo al fatto che le stesse non erano state nelle condizioni di regolare diversamente la misura delle commissioni al fine di procedere all’eventuale trasferimento del carico tributario, gravante anche sulla ricevitoria in forza della legge sopravvenuta, sui bookmaker.

La suddetta ragione di incostituzionalità, tuttavia, non è stata ravvisata per i “rapporti successivi al 2011”, quindi non solo per gli eventuali rapporti negoziali perfezionati dopo l’entrata in vigore della norma interpretativa, ma anche per i rapporti che, seppure sorti in data antecedente, si sono protratti oltre l’entrata in vigore della medesima norma.

In entrambi i casi, invero, la disposizione interpretativa del 2010 costituisce parametro normativo di riferimento per definire negozialmente l’assetto di interessi delle parti, sia in caso di rapporti sorti successivamente che per quelli già sorti e destinati a protrarsi, potendo le parti, alla luce e tenendo conto proprio della scelta normativa di assoggettare al tributo anche i titolari delle ricevitorie operanti per conto di soggetti privi di concessione, rimodulare la regolazione negoziale delle commissioni al fine di trasferire il carico tributario sul bookmaker per conto del quale opera la ricevitoria.

In questo ambito, invero, la solidarietà dell’obbligazione e la correlata possibilità di traslazione dell’imposta sono, infatti, destinate ad influire sulla stessa portata della regolazione negoziale delle commissioni tra le parti, che, anche quando i rapporti economici siano rimasti invariati, ossia non siano stati oggetto di modifiche o di nuovi accordi in conseguenza della L. n. 220 del 2010, assume, necessariamente, un valore di conformità e adeguatezza rispetto alla nuova configurazione legale del rapporto.

7. Orbene, considerato che oggetto di rilievo è la sola posizione della società bookmaker, le complessive censure, anche a prescindere dai profili di inammissibilità delle doglianze in quanto articolate sulla posizione del CTD anzichè su quella del bookmaker, sono infondate.

Invero, non può seguirsi la linea difensiva della ricorrente secondo cui l’obbligazione solidale del bookmaker privo di concessione, delineata dalla disposizione interpretativa del 2010, sarebbe da qualificarsi quale dipendente, con la conseguenza che, venendo meno la configurabilità della responsabilità principale della ricevitoria, correlativamente verrebbe meno anche quella dipendente del bokmaker.

Si è già evidenziato che la Corte costituzionale, con la menzionata pronuncia, ha chiarito che entrambi i soggetti (la ricevitoria e il bookmaker), partecipano, sia pure su piani diversi e secondo diverse modalità operative, allo svolgimento dell’attività di “organizzazione ed esercizio” delle scommesse soggetta a imposizione, sicchè entrambe svolgono l’attività gestoria delle scommesse.

Ed è proprio in tale prospettiva, infatti, che la pronuncia di incostituzionalità della disposizione interpretativa se, da un lato, ha inciso sulla parte della stessa in cui ha configurato, per il periodo precedente all’entrata in vigore, la responsabilità della ricevitoria, d’altro lato, non ha in alcun modo fatto venire meno la responsabilità del bookmaker privo di concessione.

7.5. Le considerazioni sopra espresse costituiscono i profili di fondo sulla cui linea deve ritenersi che le ragioni di censura prospettate sono infondate.

In particolare:

– è infondato il primo motivo di ricorso, con cui si assume che la funzione gestoria postuli l’assunzione del rischio d’impresa, l’esercizio della funzione decisionale e organizzatoria in ordine alla fissazione degli eventi oggetto di scommessa, delle quote e dei criteri di accettazione e la titolarità del rapporto giuridico di scommessa con lo scommettitore, in base alle considerazioni che precedono in ordine all’accezione di gestione del ricevitore, come illustrata da Corte Cost. n. 27/18 e confermata dalla giurisprudenza civile e penale di questa Corte;

– è infondato il secondo motivo, con cui si torna a sostenere l’irrilevanza dell’attività svolta dalla ricevitoria;

– è infondato il terzo motivo, con cui si fa leva, in relazione al ricevitore, sulla conclusione del contratto di scommessa, perchè il fatto imponibile è la prestazione di servizi consistente nell’organizzazione del gioco da parte del ricevitore e nella raccolta delle scommesse, che consiste, in relazione a ciascun scommettitore, nella valida registrazione della scommessa, documentata dalla consegna allo scommettitore della relativa ricevuta (così Cass. n. 15731 del 2015, cit.); attività, queste, tutte svolte in Italia;

– è infondato il quarto motivo, con cui si fa leva sui principi di uguaglianza e di ragionevolezza delle leggi, già esaminati da Corte Cost. n. 27/18.

Non può, in questo ambito, assumere rilievo l’ulteriore profilo di censura, pure prospettato nell’ambito del presente motivo di ricorso, relativo alla irragionevolezza della norma interpretativa nella parte in cui, prevedendo la imponibilità anche delle scommesse a quota fissa offerte con modalità transfrontaliera in assenza di concessione, non ha tenuto conto che il movimento delle suddette scommesse, proprio in quanto realizzate fuori sistema, non viene rilevato, sicchè la base imponibile viene determinata senza considerare il movimento netto reale, essendo le stesse escluse dalla formazione del movimento netto che determina l’applicazione delle aliquote, con la conseguenza che verrebbero applicate aliquote superiori a quelle che avrebbero dovuto applicarsi per legge.

Il profilo di censura è inammissibile per difetto di specificità, posto che parte ricorrente postula solo in astratto la circostanza che l’applicazione della disciplina di determinazione del movimento netto sul quale commisurare l’aliquota dell’imposta unica anche nel caso di scommettitore privo di concessione, avrebbe determinato l’applicazione dell’aliquota massima che, diversamente, ove si fossero considerate anche le scommesse fuori sistema, non sarebbe stata applicata.

In realtà, rispetto al criterio di commisurazione dell’aliquota secondo quanto previsto dal D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 4, comma 1, lett. b), n. 3), valevole per tutti i soggetti che svolgono l’attività di raccolta delle scommesse, in alcun modo parte ricorrente deduce o allega in ordine al fatto che l’eventuale considerazione delle scommesse “fuori sistema” avrebbe potuto incidere diversamente sulla determinazione dell’imponibile e sull’applicazione dell’aliquota operata dall’amministrazione doganale secondo le prescrizioni di legge.

– è infondato il quinto motivo, là dove si sostiene che sia compatibile col principio di capacità contributiva soltanto un meccanismo d’imposizione che consenta di far gravare sui soli scommettitori l’onere del tributo, giacchè è, invece, il meccanismo di traslazione dell’imposta tra bookmaker e ricevitore a garantire l’osservanza del principio in questione;

– è infondato il sesto motivo, che prospetta l’incompatibilità dell’interpretazione retroattiva della norma interpretativa contenuta nella legge di stabilità per il 2011 con i principi dell’equo processo stabiliti dall’art. 6 CEDU. La compatibilità costituzionale dell’effetto retroattivo della legge in relazione all’art. 6 Cedu, s’incentra sul rispetto del principio di affidamento dei consociati nella certezza dell’ordinamento giuridico come specchio della ragionevolezza della legge; sicchè occorre che l’intervento legislativo con effetti retroattivi sia sorretto da motivi imperativi d’interesse generale (tra varie, Corte Cost. 13 luglio 2017, n. 176). Laddove nel caso in esame sussiste il motivo imperativo, proprio delle leggi interpretative, di sciogliere incertezze, giacchè, come si è anticipato, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 27/18, ha appunto riconosciuto alla L. n. 220 del 2010, la funzione di risolvere l’incertezza inerente all’interpretazione del D.Lgs. n. 504 del 1998 art. 3.

Va conseguentemente disattesa la richiesta di rimessione alla Corte costituzionale, manifestamente infondata.

8. Con il settimo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi

dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione dell’art. 56 ss. TFUE, e dei principi del Diritto dell’Unione di parità di trattamento e non discriminazione, con riferimento al D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 1, come interpretato dalla L. di stabilità 2011, art. 1, comma 66, lett. b), nonchè per violazione del principio di legittimo affidamento. In subordine, è stato chiesto rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, comma 2.

8.1. Il motivo è infondato, alla luce della giurisprudenza unionale che ha già risolto le questioni di parità di trattamento e non discriminazione.

Al riguardo, giova premettere che le imposte sui giochi d’azzardo non hanno natura armonizzata; sicchè i giochi d’azzardo rilevano, ai fini del diritto unionale, in relazione alle norme concernenti la libera prestazione di servizi presidiata dall’art. 56 TFUE (Corte di giustizia, 26 febbraio 2020, causa C-788/18, punto 17).

Inoltre, nel settore dei giochi d’azzardo con poste in danaro, secondo costante giurisprudenza unionale, gli obiettivi di tutela dei consumatori, di prevenzione dell’incitamento a una spesa eccessiva collegata al gioco, nonchè di prevenzione di turbative dell’ordine sociale in generale costituiscono motivi imperativi d’interesse generale atti a giustificare restrizioni alla libera prestazione di servizi: ne consegue che, in assenza di un’armonizzazione unionale della normativa sui giochi d’azzardo, ogni Stato membro ha il potere di valutare, alla luce della propria scala di valori, le esigenze che la tutela degli interessi in questione implica, a condizione che le restrizioni non minino i requisiti di proporzionalità (Corte di giustizia, 24 ottobre 2013, causa C-440/12, punto 47; 8 settembre 2009, causa C-42/07).

Il legislatore nazionale ha proceduto a questa valutazione, dichiarando, nella L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 64, i propri obiettivi, tra i quali si colloca “…l’azione per la tutela dei consumatori, in particolare dei minori di età, dell’ordine pubblico, della lotta contro il gioco minorile e le infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore del gioco e recuperando base imponibile e gettito a fronte di fenomeni di elusione e di evasione fiscale nel medesimo settore”.

La prevalenza dell’ordine di valori di ciascuno Stato membro comporta che gli Stati membri non hanno l’obbligo di adeguare il proprio sistema fiscale ai vari sistemi di tassazione degli altri Stati membri, al fine di eliminare la doppia imposizione che risulta dal parallelo esercizio della rispettiva competenza fiscale (Corte di giustizia, in causa C-788/18, cit., punto 23; per analogia, Corte di Giustizia, 1 dicembre 2011, causa C-253/09, punto 83).

In questo contesto la normativa italiana, come già segnalato, ha superato il vaglio della giurisprudenza unionale.

La Corte di giustizia ha escluso qualsivoglia discriminazione tra bookmakers nazionali e bookmakers esteri, perchè l’imposta unica si applica a tutti gli operatori che gestiscono scommesse raccolte sul territorio italiano, senza distinzione alcuna in funzione del luogo in cui essi sono stabiliti (punto 21 di Corte di Giustizia, causa C788/18), di modo che la normativa italiana “non appare atta a vietare, ostacolare o rendere meno attraenti le attività di una società, quale la St. Malta, nello Stato membro interessato”. Anzi, come ha sottolineato la Corte costituzionale (ancora con la sentenza n. 27/18), a seguire la tesi prospettata in ricorso e ribadita in memoria si giungerebbe ad una discriminazione al contrario: la scelta legislativa “risponde ad un’esigenza di effettività del principio di lealtà fiscale nel settore del gioco, allo scopo di evitare l’irragionevole esenzione per gli operatori posti al di fuori del sistema concessorio, i quali finirebbero per essere favoriti per il solo fatto di non aver ottenuto la necessaria concessione (…)”.

Nè v’è l’incongruenza, segnalata in memoria, tra i punti 17, 26 e 28 di quella sentenza.

Col punto 17, in relazione al bookmaker, ci si limita a stabilire in via generale che la libera prestazione di servizi non tollera restrizioni idonee a vietare, ostacolare o a rendere meno attraenti le attività del prestatore stabilito in un altro Stato membro; ma col punto 24 si specifica, in concreto, che, “…la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale non prevede un regime fiscale diverso a seconda che la prestazione di servizi sia effettuata in Italia o in altri Stati membri”; sicchè, si conclude nel punto 24, “…rispetto a un operatore nazionale che svolge le proprie attività alle stesse condizioni di tale società, la Stanleybet Malta non subisce alcuna restrizione discriminatoria a causa dell’applicazione nei suoi confronti di una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale”.

Quanto al centro trasmissione dati, col punto 26 ci si limita a ribadire che il bookmaker estero esercita un’attività di gestione di scommesse “allo stesso titolo degli operatori di scommesse nazionali” ed è per questo che il centro di trasmissione dati che opera quale suo intermediario risponde dell’imposta, a norma della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b).

Ma ciò non toglie, si aggiunge al punto 28, che la situazione del centro trasmissione dati che trasmette i dati di gioco per conto degli operatori di scommesse nazionali è diversa da quella del centro trasmissione che li trasmette per conto di un operatore che ha sede in altro Stato membro.

La statuizione non è affatto oscura, come si deduce in memoria, giacchè la diversità della situazione è in re ipsa, per il fatto stesso che si tratta di soggetto che raccoglie scommesse per conto di un bookmaker estero: nel settore dei giochi d’azzardo, difatti, il ricorso al sistema delle concessioni costituisce “…un meccanismo efficace che consente di controllare gli operatori attivi in questo settore, allo scopo di prevenire l’esercizio di queste attività per fini criminali o fraudolenti” (Corte di Giustizia, 19 dicembre 2018, causa C-375/17, Stanley International Betting e St. Malta, punto 66, richiamata al punto 18 della sentenza in causa C-788/18, cit.); e ciò in conformità agli obiettivi perseguiti dal legislatore italiano, dinanzi indicati, come puntualmente rimarcato dalla Corte di giustizia. Di qui l’esclusione, anche con riguardo alla posizione del centro trasmissione dati, di qualsiasi restrizione discriminatoria.

8.2. Con riferimento, infine, alla questione della violazione del principio dell’affidamento, la stessa è stata prospettata in relazione alla portata innovativa della disposizione interpretativa della L. del 2010, che avrebbe introdotto, “improvvisamente e imprevedibilmente” la responsabilità delle ricevitorie dei bookmaker privi di concessione.

Il profilo di censura è, in primo luogo, inammissibile, posto che la ricorrente prospetta ragioni di lesione del principio del legittimo affidamento che attengono, semmai, alla posizione del ricevitore, in ordine alla quale, peraltro, la Corte costituzionale, con la sentenza citata, si è già espressa con la pronuncia di incostituzionalità relativamente alla portata innovativa retroattiva della norma in esame che aveva introdotto la responsabilità dei ricevitori per il periodo antecedente alla entrata in vigore della stessa.

Con riferimento, invero, alla posizione del bookmaker estero, la stessa Corte costituzionale non ha posto in discussione il fatto che il bookmaker estero, privo di concessione, dovesse essere considerato soggetto passivo dell’imposta unica anche prima della entrata in vigore della disposizione interpretativa, sicchè non può porsi alcuna violazione del principio del legittimo affidamento.

Non sussistono, per tali ragioni, alcun presupposto per un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, neppure ponendosi una questione di interpretazione della precedente statuizione della Corte: le questioni sollecitate in memoria, per un verso, si risolvono in una critica della sentenza resa nella causa C-788/18, che si rivela sterile per le ragioni esplicate, e, per altro verso, sembra postulare che la Corte di giustizia abbia riconosciuto nella propria giurisprudenza precedente la legittimità della gestione delle attività connesse a giochi d’azzardo in regime di libera prestazione per il tramite dei centri di trasmissione dati, mentre la stessa Corte, “pur avendo constatato l’incompatibilità con il diritto dell’Unione di alcune disposizioni delle gare avviate per l’attribuzione di contratti di concessione di servizi connessi ai giochi d’azzardo, non si è pronunciata sulla legittimità della gestione delle attività connesse a giochi d’azzardo in regime di libera prestazione per il tramite dei CTD in quanto tale” (Corte di Giustizia, in causa C-375/17, cit., punto 67)

In questo quadro, la giurisprudenza penale di questa Corte citata in memoria è irrilevante (si allega alla memoria Cass. pen. 9 luglio 2020, n. 25439).

Essa si riferisce difatti alla diversa questione della rilevanza penale dell’attività d’intermediazione e di raccolta delle scommesse, che questa Corte ha escluso, in base alla giurisprudenza unionale, qualora l’attività di raccolta sia compiuta in Italia da soggetti appartenenti alla rete commerciale di un bookmaker operante nell’ambito dell’Unione Europea che sia stato illegittimamente escluso dai bandi di gara attributivi delle concessioni: e ciò perchè, in tal caso, rileva la non conformità agli artt. 49 e 56 TFUE, del regime concessorio interno. Difatti, ha sottolineato questa Corte con la sentenza in questione, “In forza dei principi affermati dalla Corte di giustizia…, il mancato rispetto della disciplina amministrativa che non sia conforme al diritto dell’Unione Europea non può comportare l’applicazione di sanzioni penali”.

Ma il fatto che quel bookmaker non risponda del reato di esercizio abusivo di attività di giuoco o discommessa, previsto e punito dalla L. 13 dicembre 1989, n. 401, art. 4, commi 1 e 4-bis, nessuna influenza produce sulla soggettività passiva della imposta unica sulle scommesse, che il D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, riferisce a chiunque, con o senza concessione, gestisce i concorsi pronostici o le scommesse.

9. Con l’ottavo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4), per violazione e falsa applicazione dell’art. 111 Cost., comma 6, dell’art. 132c.p.c., comma 2, n. 4), dell’art. 118, disp. att. c.p.c., del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 35, comma 3, e art. 36, comma 2, nn. 2) e 4), e dell’art. 112, c.p.c., per non avere esaminato la doglianza relativa alla violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, artt. 7 e 12, nonchè degli artt. 24 e 97 Cost., e del principio di necessità del contraddittorio endoprocedimentale.

In particolare, parte ricorrente lamenta che il giudice del gravame non ha esaminato il motivo di appello con il quale aveva evidenziato l’errore commesso dai giudici di primo grado che avevano ritenuto di rigettare il motivo di ricorso riguardante la illegittimità dell’avviso di accertamento per mancata notifica del processo verbale di constatazione anche alla ricorrente ad esito della verifica effettuata nei confronti della ricevitoria, venendo in tal modo privata del proprio diritto di difesa.

10. Con il nono motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4), per violazione e falsa applicazione dell’art. 111 Cost., comma 6, dell’art. 132c.p.c., comma 2, n. 4), dell’art. 118, disp. att. c.p.c., del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 35, comma 3, e art. 36, comma 2, nn. 2) e 4), e dell’art. 112, c.p.c., per non avere esaminato la doglianza relativa alla violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, artt. 7 e 12, e dei principi di chiarezza e trasparenza amministrativa, per essere l’avviso di accertamento privo di motivazione.

11. Con il decimo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione e falsa applicazione dell’art. 111 Cost., comma 6, dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), per non avere esaminato la questione relativa alla mancata applicazione dell’esimente di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, comma 2, alla sanzione di cui al D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 5, comma 3.

11.1. I motivi, che possono essere esaminati unitariamente, sono inammissibili.

Va precisato, sul punto, che questa Corte (Cass. civ., 25 settembre 2019, n. 23834) ha più volte affermato che l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un error in procedendo, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo, onde presume che la parte, nel rispetto del principio di autosufficienza, riporti, nel ricorso stesso, gli elementi ed i riferimenti atti ad individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il vizio processuale, così da consentire alla Corte di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo del corretto svolgersi dell’iter processuale.

Più in particolare, con specifico riferimento ai casi di denunzia del vizio di omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112, c.p.c., è stato reiteratamente affermata la necessità, da un lato, che al giudice del merito siano state rivolte una domanda od un’eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si sia resa necessaria ed ineludibile, e, dall’altro, che tali istanze siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto de loro contenuto, nel ricorso per cassazione.

Analogamente, laddove l’error in procedendo denunciato inerisca alla falsa applicazione del principio tantum devolutum quantum appellatum, l’autosufficienza del ricorso per cassazione impone che, nel ricorso stesso, siano esattamente riportati sia i passi del ricorso introduttivo con i quali la questione controversa è stata dedotta in giudizio, sia quelli del ricorso d’appello con cui le censure sono state formulate (Cass. civ., 8 giugno 2016, n. 11738).

I motivi di ricorso in esame, invero, difettano di specificità, non avendo parte ricorrente assolto all’onere di riportare o riprodurre in questa sede i passaggi contenuti nel ricorso di primo grado e nell’atto di appello da cui evincere che effettivamente le questioni erano state prospettate nei precedenti gradi di giudizio, non essendo a tal proposito sufficiente la mera affermazione secondo cui la doglianza era stata “sollevata da parte ricorrente come primo motivo di appello (cfr. da pag 16 a pag. 25 del ricorso in appello dinanzi alla CTR di Latina)”, ovvero “sollevata da parte ricorrente (cfr. da pag. 25 a 29 del ricorso in appello dinanzi alla CTR di Latina), ovvero ancora, con riferimento al decimo motivo, “per avere omesso di esaminare anche il sesto motivo di appello (cfr. da pag. 67 a pag. 70 del ricorso in appello dinanzi alla CTR di Latina)”.

In conclusione, sono infondati i motivi dal primo al settimo, inammissibili quelli dall’ottavo al decimo, con conseguente rigetto del ricorso.

L’intervento risolutore delle questioni, in epoca successiva alla proposizione del ricorso, ad opera della Corte costituzionale e della Corte di Giustizia, giustifica la compensazione delle spese di giudizio.

Si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso e compensa le spese di lite del presente giudizio. Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 21 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 2 aprile 2021

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