Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9160 del 19/05/2020

Cassazione civile sez. I, 19/05/2020, (ud. 15/01/2020, dep. 19/05/2020), n.9160

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 38/2019 proposto da:

K.B., rappresentato e difeso dall’Avv. Erica Scalco,

giusta procura speciale su foglio allegato al ricorso per

cassazione, elettivamente domiciliati presso lo studio dell’Avv.

Valentina Caporilli.

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro in carica,

domiciliato ex lege in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso gli

uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato.

– intimato –

avverso la sentenza n. 1021/2018 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

pubblicata in data 15/06/2018.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. K.B., cittadino della (OMISSIS) nato il (OMISSIS) presentava domanda alla Commissione Territoriale di Brescia con la quale richiedeva in via principale il riconoscimento dello status di rifugiato, in via subordinata la protezione sussidiaria e in via ulteriormente subordinata la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, domanda che veniva rigettata con provvedimento notificato il 24 settembre 2016.

2. Il richiedente aveva narrato di essere cittadino liberiano, originario della capitale (OMISSIS)a, di religione musulmana ed appartenente all’etnia “(OMISSIS)”, studente e militante del Movimento per la difesa dei gay e delle lesbiche in Liberia; di avere lasciato il suo Paese nel novembre 2012 temendo per la propria incolumità per il suo attivismo civile e sociale, essendo stato, insieme ad altri membri del movimento, ripetutamente oggetto di aggressioni violente da parte di aderenti a gruppi antigay nei cui confronti il Governo non aveva ancora preso alcuna misura.

3. Il Tribunale di Brescia, adito con ricorso ex art. 702 bis c.p.c., non riconosceva la protezione internazionale nelle diverse forme richieste e, con ordinanza del 16 febbraio 2017, confermava il provvedimento di diniego della Commissione.

4. Avverso tale provvedimento K.B. proponeva appello, non ritenendo condivisibili le argomentazioni del Giudice di prime cure in ordine alla non credibilità del racconto e alla circostanza che non vi fossero i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale sussidiaria od umanitaria e la Corte di appello di Brescia, con sentenza n. 1021 emessa il 15 giugno 2018, rigettava l’appello e confermava l’ordinanza impugnata, compensando integralmente le spese del grado.

5. K.B. ricorre in cassazione con cinque motivi.

6. L’Amministrazione intimata non si è costituita.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo K.B. lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2018, art. 8 e del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5, violazione dell’art. 342 c.p.c. e dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Ad avviso del ricorrente la Corte di appello dapprima aveva affermato che la parte appellante non aveva contestato l’ordinanza sulla mancanza dei presupposti per il riconoscimento della protezione richiesta e sul giudizio di credibilità, ma poi di fatto aveva esaminato la contestazione, assumendo di condividere il giudizio di non credibilità operato dal Giudice di prime cure.

Il ricorrente, quindi, censura il capo della sentenza che aveva ritenuto non credibile il racconto del richiedente, evidenziando che non si poteva ritenere illogico che il richiedente fosse stato oggetto di persecuzione e di attacchi per essere membro del gruppo Modegal, cui era affiliato, e che la Corte si era basata su proprie opinioni soggettivistiche non seguendo un procedimentalizzazione legale della decisione.

Lamentava, poi, la circostanza che il tribunale non si era attivato per colmare lacune probatorie e che la Corte di appello non aveva disposto l’audizione dell’appellante.

1.1 Il motivo è infondato.

Come si evince dalla lettura della sentenza, la Corte territoriale ha affermato che era inverosimile che il K. dopo anni potesse essere preso di mira dagli “anti gay”, come dallo stesso definiti, per avere fatto parte del movimento pro gay per un breve periodo e che, egli avendo negato di essere gay, non aveva da temere alcuna persecuzione statuale in caso di rientro in patria.

La Corte di appello di Brescia, quindi, concludeva che non sussistevano i presupposti per il riconoscimento dello stato di rifugiato perchè l’appellante non era omosessuale e perchè in Liberia chi si batteva per la liberalizzazione dell’omosessualità non era sanzionato, nè era sottoposto a trattamenti disumani o degradanti da parte dell’autorità statuale.

I giudici di secondo grado hanno, quindi, compiuto un accertamento in fatto, non più censurabile in sede di legittimità, atteso che “La valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito” (Cass., 5 febbraio 2019, n. 3340).

Anche l’ulteriore profilo difensivo relativo all’audizione del richiedente è infondato poichè il potere officioso del giudice di appello di disporre l’audizione personale del richiedente è correlato ad una scelta discrezionale che compete al giudice di merito operare in base alle concrete circostanze di causa e alla necessità di vagliarle anche alla luce delle dichiarazioni rese in sede di audizione personale.

In proposito, questa Corte ha ripetutamente affermato che nel procedimento, in grado d’appello, relativo ad una domanda di protezione internazionale, non è ravvisabile una violazione processuale sanzionabile a pena di nullità nell’omessa audizione personale del richiedente, atteso che il rinvio, contenuto del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35, comma 13, al precedente comma 10, che prevede l’obbligo di sentire le parti, non si configura come un incombente automatico e doveroso, ma come un diritto della parte di richiedere l’interrogatorio personale, cui si collega il potere officioso del giudice d’appello di valutarne la specifica rilevanza (Cass., 29 maggio 2019, n. 14600; Cass., 7 febbraio 2018, n. 3003).

2. Con il secondo motivo K.B. lamenta l’omesso esame circa un fatto decisivo per la controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non avere acquisito informazioni aggiornate sulla situazione socio-politica della Liberia, e per non avere acquisito le informazioni ricavabili dal sito del MAE e rapporti di organizzazioni e istituzioni internazionali.

3. Con il terzo motivo K.B. lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. a), D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non avere acquisito informazioni aggiornate sulla situazione socio politica della Liberia; in particolare in ordine a possibili discriminazioni per motivi di orientamento sessuale e nei confronti di attivisti in favore di movimenti pro omosessuali e per non avere acquisito le informazioni ricavabili dal sito del MAE e rapporti di organizzazioni e istituzioni internazionali.

4. Con il quarto motivo K.B. lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 14, lettera b), del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. a), D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, comma 3, D.Lgs. n. 25 del 2008, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non avere acquisito informazioni aggiornate sulla situazione socio politica della Liberia.

4.1 I motivi sono connessi e vanno esaminati congiuntamente.

In proposito, va osservato che la valutazione della domanda di protezione internazionale deve avvenire, a mente del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. a), tramite l’apprezzamento di tutti i fatti pertinenti che riguardano il paese di origine al momento dell’adozione della decisione.

Qualora taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri se l’autorità competente a decidere ritenga che le dichiarazioni siano coerenti e plausibili e non siano in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso di cui si dispone (lett. c).

A ciò è correlato l’obbligo, previsto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, di esaminare ciascuna domanda alla luce delle informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel paese di origine dei richiedenti asilo.

I principi normativi esposti, quindi, affermano da un lato il dovere di cooperazione del richiedente asilo consistente nell’allegare, produrre o dedurre tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la domanda e dall’altro pongono a carico dell’autorità decidente l’obbligo di informarsi in modo adeguato e pertinente alla richiesta, soprattutto con riferimento alle condizioni generali del paese d’origine, allorquando le informazioni fornite dal richiedente siano deficitarie o mancanti.

Si tratta di un obbligo di verifica, che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, deve essere compiuta con riguardo alla situazione del paese sulla base di un accertamento che deve essere aggiornato, anche mediante integrazione istruttoria ufficiosa, all’attualità (Cass., 22 maggio 2019, n. 13897; Cass., 12 novembre 2018, n. 28990).

La pronuncia impugnata si è attenuta ai principi esposti affermando espressamente che la Liberia non era segnalata quale “punto caldo” dal sito (OMISSIS), aggiornato al 30 maggio 2018 (pag. 11 della sentenza impugnata), nè nel paese erano in corso conflitti armati e che le criticità pure presenti in Liberia non erano tali da rappresentare un’emergenza umanitaria, specificando inoltre che non vi era alcuna situazione specifica di vulnerabilità, poichè il K. era giovane, non aveva dichiarato problemi di salute (piuttosto nel corso dell’audizione aveva riferito di stare bene) e che la famiglia di origine viveva in buone condizioni economiche perchè il padre era titolare di una ditta import export e il ricorrente era uno studente universitario.

Ed ancora hanno precisato i giudici di secondo grado, che la Liberia è una Repubblica presidenziale il cui attuale presidente, W., era stato eletto a seguito di elezioni che avevano consentito al paese di sperimentare il primo avvicendamento presidenziale senza il ricorso alla violenza o ad arbitrarie modifiche del testo costituzionale.

Inoltre, la Corte territoriale non ha omesso l’accertamento della situazione della Liberia in ordine alla persecuzione degli attivisti in favore dei gay, avendo ricavato l’insussistenza di minacce rilevanti sotto tale specifico profilo dallo stesso racconto del ricorrente, il quale, di contro, non ha svolto alcuna specifica deduzione in senso contrario, limitandosi piuttosto a lamentare l’omessa acquisizione di informazioni di cui, peraltro, non indica nemmeno il contenuto.

5. Con il quinto motivo (erroneamente indicato come “VI”) K.B. lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e art. 8, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Ad avviso del richiedente la Corte di appello innanzi tutto avrebbe dovuto considerare d’ufficio la sussistenza dei presupposti per il rilascio del permesso per motivi umanitari e, in ogni caso, avrebbe dovuto valutare il lungo viaggio effettuato, il tempo trascorso in Libia e ritenere preponderanti tutti gli elementi esposti.

In particolare, oltre ad essere stata prodotta una relazione attestante l’integrazione sociale del ricorrente, era stato dedotto una vulnerabilità di tipo soggettivo legata alle condizioni socio economiche e politiche del Paese di provenienza, nonchè la gravità delle minacce ricevute, sia di tipo oggettivo relativa alle caratteristiche proprie del ricorrente, la sua giovane età e il timore di venire ucciso.

Anche con riguardo al paese della Libia la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei principi affermati, anche di recente, da questa Corte, secondo cui l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione, perchè l’indagine del rischio persecutorio o del danno grave in caso di rimpatrio va effettuata con riferimento al Paese di origine o alla dimora abituale ove si tratti di un apolide, potendo il paese di transito rilevare, ai sensi dell’art. 3 della Direttiva UE n. 115/2008, solo nel caso di accordi comunitari o bilaterali di riammissione, o altra intesa, che prevedano il ritorno del richiedente in tale paese (Cass., 6 dicembre 2018, n. 31676).

La doglianza sul punto è, quindi, inammissibile per difetto di specificità.

6. Per quanto sopra il ricorso è infondato;

Nulla sulle spese per la mancata costituzione dell’Amministrazione intimata.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 15 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 maggio 2020

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