Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9156 del 21/04/2011

Cassazione civile sez. trib., 21/04/2011, (ud. 18/11/2010, dep. 21/04/2011), n.9156

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. SOTGIU Simonetta – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.F., elettivamente domiciliato in ROMA VIALE PARIOLI

180, presso lo studio dell’avvocato SANINO MARIO, rappresentato e

difeso dall’avvocato PIGATO SILVANO, giusta delega in calce;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– resistente con atto di costituzione –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO DI (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 8/2006 della COMM. TRIB. REG. di VENEZIA,

depositata il 13/04/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/11/2010 dal Consigliere Dott. LUIGI ALESSANDRO SCARANO;

udito per il ricorrente l’Avvocato ARBIB, per delega dell’Avvocato

SANINO, che si riporta;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

LECCISI Giampaolo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 13/4/2006 la Commissione Tributaria Regionale del Veneto accoglieva il gravame interposto dall’Agenzia delle entrate di Adria nei confronti della pronunzia della Commissione Tributaria Provinciale di Rovigo di accoglimento dell’opposizione proposta dal sig. M.F. in relazione ad avviso di irrogazione delle sanzioni amministrative emesso nel 2002 sulla base del verbale dell’I.N.P.S. relativo all’irregolare assunzione di lavoratore dipendente.

Avverso la suindicata sentenza del giudice dell’appello il M. propone ora ricorso per cassazione, affidato a 4 motivi.

Si è tardivamente costituita, al solo fine di partecipare alla discussione. L’Agenzia delle entrate.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va preliminarmente osservato che l’intimata, tardivamente costituitasi, non ha partecipato alla discussione orale, risultando pertanto non osservata la condizione indefettibilmente necessaria ai fini della sanatoria con effetto ex nunc dell’irrituale attività processuale dalla medesima compiuta nelle more (v. Cass., 21/4/2010, n. 9479; Cass., 27/5/2009, n. 12381. V. altresì Cass., 21/6/2002, n. 9093; Cass., Sez. Un., 11/4/1981, n. 2114; Cass., 28/5/1980, n. 3513;

Cass., 9/8/1962, n. 2486).

Con il 1^ motivo la ricorrente denunzia violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, 101, 112, 113 c.p.r., artt. 32, 33, 34 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5.

Si duole che il giudizio di appello si sia svolto in camera di consiglio anzichè in pubblica udienza, nonostante vi fosse istanza concorde delle parti in tal senso.

Lamenta che la “mancata discussione in udienza, invece dovuta nella specie, ha comportato per l’appellato violazione del suo diritto di difesa, atteso che la tardiva costituzione determina la sola decadenza dalla facoltà di proporre eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio e di fare istanza per la chiamata in causa di terzi”.

Con il 2 motivo denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2700 c.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, D.L. n. 12 del 2002, art. 3, comma 3, conv. in L. n. 73 del 2002, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamenta che controparte ha per la prima volta in grado di appello determinato “un nuovo ammontare della sanzione irrogata, sulla base di nuovo CCNL”, con modifica sia del petitum da Euro 18.183,20 a 10.035,18 che della causa petendi (CCNL Artigiani anzichè Industria), con ciolazione del principio del doppio grado di giurisdizione e del principio devolutivo dell’appello.

Si duole che il CCNL Edili Artigiani non sia stato invero nemmeno prodotto in giudizio, con conseguente mancato assolvimento da parte dell’A.F. del suo onere probatorio.

Con il 3 motivo denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 409, 426 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 39, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamenta che il presupposto della sanzione irrogata riposa sul rapporto di lavoro, al cui accertamento avrebbe dovuto provvederà necessariamente il giudice del lavoro.

Con il 4 motivo denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 73 del 2002, art. 23, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamenta che il dipendente P.C. era non già un suo dipendente in nero bensì un dipendente a tempo indeterminato della società Falco s.p.a., che il giorno dell’accertamento de quo era in ferie e pertanto non poteva essere assoggettato a controlli, sicchè l’effettuato controllo nei suoi confronti “fuori dal posto di lavoro”, senza il suo consenso scritto, come del pari le “dichiarazioni cavate” al medesimo integrano violazione del “Codice della privacy”.

Premesso che non può trovare nel caso applicazione la pronunzia Cass., Sez. Un., 7/7/2009, n. 15846, con la quale si è esclusa, spettando essa alla giurisdizione ordinaria, la giurisdizione del giudice tributario in ordine alle controversie aventi ad oggetto l’irrogazione delle sanzioni previste dal D.L. n. 12 del 2002, art. 3, comma 3, per omessa registrazione del lavoratore dipendente nelle scritture obbligatorie, essendosi formato giudicato implicito in punto giurisdizione del giudice tributario (v. Cass., Sez. Un., 9/10/2008, n. 24883), va osservato che i motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono in parte (sotto plurimi profili) inammissibili e in parte infondati.

Va anzitutto posto in rilievo che essi si palesano privi dei requisiti a pena di inammissibilità richiesti dai sopra richiamati articoli, nella specie applicantisi nel testo modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, essendo stata l’impugnata sentenza pubblicata successivamente alla data (2 marzo 2006) di entrata in vigore del medesimo.

L’art. 366 bis c.p.c. dispone infatti che nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, l’illustrazione di ciascun motivo deve, a pena di inammissibilità, concludersi con la formulazione di un quesito di diritto (cfr. Cass., 19/12/2006, n. 27130).

Una formulazione del quesito di diritto idonea alla sua funzione richiede allora che con riferimento ad ogni punto della sentenza investito da motivo di ricorso la parte, dopo avere del medesimo riassunto gli aspetti di fatto rilevanti ed avere indicato il modo in cui il giudice lo ha deciso, esprima la diversa regola di diritto sulla cui base il punto controverso andrebbe viceversa risolto.

Il quesito di diritto deve essere in particolare specifico e riferibile alla fattispecie (v. Cass., Sez. Un., 5/1/2007, n. 36), risolutivo del punto della controversia – tale non essendo la richiesta di declaratoria di un’astratta affermazione di principio da parte del giudice di legittimità (v. Cass., 3/8/2007, n. 17108) -, e non può con esso invero introdursi un tema nuovo ed estraneo (v.

Cass., 17/7/2007, n. 15949).

Il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c., deve comprendere l’indicazione sia della regala iuris adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo, sicchè la mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile, non potendo considerarsi in particolare sufficiente ed idonea la mera generica richiesta di accertamento della sussistenza della violazione di una norma di legge (da ultimo v. Cass., 28/5/2009, n. 12649).

Quanto al pure denunziato vizio di motivazione, a completamento della relativa esposizione esso deve indefettibilmente contenere la sintetica e riassuntiva indicazione: a) del fatto controverso; b) degli elementi di prova la cui valutazione avrebbe dovuto condurre a diversa decisione; c) degli argomenti logici per i quali tale diversa valutazione sarebbe stata necessaria (art. 366 bis c.p.c.).

Al riguardo, si è precisato che l’art. 366 bis c.p.c. rispetto alla mera illustrazione del motivo impone un contenuto specifico autonomamente ed immediatamente individuabile, ai fini dell’assolvimento del relativo onere essendo pertanto necessario che una parte del medesimo venga a tale indicazione “specificamente destinata” (v. Cass., 18/7/2007, n. 16002).

Orbene, nel non osservare i requisiti richiesti dallo schema delineato in giurisprudenza di legittimità (cfr. in particolare Cass. Sez. Un., 5/2/2008, n. 2658; Cass., Sez. Un., 5/1/2007, n. 36), i quesiti recati dal ricorso risultano formulati in termini invero difformi dal suindicato schema, non risultando ivi indicati la sintetica e riassuntiva indicazione del fatto controverso, delle regole di diritto applicate dal giudice per risolverlo, e della diversa regola che il giudice dell’appello avrebbe dovuto ad avviso del ricorrente viceversa applicare.

A tale stregua essi non consentono, in base alla loro sola lettura (v. Cass., Sez. Un., 27/3/2009, n. 7433; Sez. Un., 14/2/2008, n. 3519; Cass. Sez. Un., 5/2/2008, n. 2658; Cass., 7/4/2009, n. 8463), di individuare la soluzione adottata dalla sentenza impugnata e di precisare i termini della contestazione (cfr. Cass., Sez. Un., 19/5/2008, n. 12645; Cass., Sez. Unv, 12/5/2008, n. 11650; Cass., Sez. Un., 28/9/2007, n. 20360), nonchè di poter circoscrivere la pronunzia nei limiti del relativo accoglimento o rigetto (cfr., Cass., Sez. Un., 26/03/2007, n. 7258), senza che essi debbano richiedere, per ottenere risposta, una scomposizione in più parti prive di connessione tra loro (cfr. Cass., 23/6/2008, n. 17064).

L’inidonea formulazione del quesito di diritto equivale invero alla relativa omessa formulazione, in quanto nel dettare una prescrizione di ordine formale la norma incide anche sulla sostanza dell’impugnazione, imponendo al ricorrente di chiarire con il quesito l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in relazione alla concreta fattispecie (v. Cass., 7/4/2009, n. 8463; Cass. Sez. un., 30/10/2008, n. 26020; Cass. Sez. un., 25/11/2008. n. 28054), (anche) in tal caso rimanendo invero vanificata la finalità di consentire a questa Corte il miglior esercizio della funzione nomofilattica sottesa alla disciplina del quesito introdotta con il D.Lgs. n. 40 del 2006 (cfr., da ultimo, Cass. Sez. un., 10/9/2009, n. 19444).

La norma di cui all’art. 366 bis c.p.c. è d’altro canto insuscettibile di essere interpretata nel senso che il quesito di diritto possa, e a fortiori debba, desumersi implicitamente dalla formulazione del motivo, giacchè una siffatta interpretazione si risolverebbe nell’abrogazione tacita della norma in questione, tanto più che essi risultano formulati in violazione della principio di autosufficienza (v. Cass. Sez. Un., 5/2/2008, n. 2658; Cass., Sez. Un., 26/03/2007, n. 7258).

Il ricorso non reca invero nemmeno la “chiara indicazione” – nei termini più sopra indicati – delle “ragioni” del denunziato vizio di motivazione, inammissibilmente rimettendosene l’individuazione all’attività esegetica di questa Corte, a fortiori non consentita in presenza di formulazione come già più sopra osservato nella specie altresì carente di autosufficienza.

A quest’ultimo riguardo va in particolare osservato che, come questa Corte ha già avuto più volte modo di affermare, i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbono avere i caratteri della specificità, della completezza, e della riferibilità alla decisione stessa, con – fra l’altro – l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto, essendo inammissibile il motivo nel quale non venga precisato in qual modo e sotto quale profilo (se per contrasto con la norma indicata, o con l’interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina) abbia avuto luogo la violazione nella quale si assume essere incorsa la pronuncia di merito.

Sebbene l’esposizione sommaria dei fatti di causa non deve necessariamente costituire una premessa a sè stante ed autonoma rispetto ai motivi di impugnazione, è tuttavia indispensabile, per soddisfare la prescrizione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che il ricorso, almeno nella parte destinata alla esposizione dei motivi, offra, sia pure in modo sommario, una cognizione sufficientemente chiara e completa dei fatti che hanno originato la controversia, nonchè delle j vicende del processo e della posizione dei soggetti che vi hanno partecipato, in modo che tali elementi possano essere conosciuti soltanto mediante il ricorso, senza necessità di attingere ad altre fonti, ivi compresi i propri scritti difensivi del giudizio di merito, la sentenza impugnata ed il ricorso per cassazione (v. Cass., 23/7/2004, n. 13830; Cass., 17/4/2000, n. 4937; Cass., 22/5/1999, n. 4998).

E’ cioè indispensabile che dal solo contesto del ricorso sia possibile desumere una conoscenza del “fatto”, sostanziale e processuale, sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice a quo (v.

Cass., 4/6/1999, n. 5492).

Quanto al vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, va invero ribadito che esso si configura solamente quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione (in particolare cfr.

Cass., 25/2/2004, n. 3803).

Tale vizio non consiste pertanto nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove preteso dalla parte rispetto a quello operato dal giudice di merito (v. Cass., 14/3/2006, n. 5443; Cass., 20/10/2005, n. 20322).

La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce infatti al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (v. Cass., 7/3/2006, n. 4842;. Cass., 27/4/2005, n. 8718).

Orbene, i suindicati principi risultano invero non osservati dall’odierno ricorrente.

Già sotto l’assorbente profilo dell’autosufficienza, va posto in rilievo come il medesimo faccia richiamo ad atti e documenti del giudizio di merito es., al “verbale di constatazione mod. 18 n. 23/Inps”; ai “libri” e “documenti obbligatori” in base alla “normativa sul lavoro (libro matricola, libro paga, ecc.)”; alla “sentenza n. 17.2.2004, depositata il 1.7.2004” della “Commissione Tributaria Provinciale di Rovigo”; all’atto di appello dell’Agenzia delle entrate; alle proprie “controdeduzioni”; alla “richiesta di pubblica udienza di discussione”; al “CCNL edile del settore artigiani”; a “nuovo CCNL”; a “CCNL Artigiani anzichè Industria”; a “prove nuove”; a “nuovi documenti”; al “libretto di lavoro”; alle “dichiarazioni cavate al P. dagli accertatori del verbale di constatazione, fuori del posto di lavoro e senza il consenso scritto del P.” di cui lamenta la mancata o erronea valutazione, limitandosi a meramente rinviare agli atti del giudizio di merito, senza invero debitamente riprodurli nel ricorso.

A tale stregua non pone questa Corte nella condizione di effettuare il richiesto controllo (anche in ordine alla tempestività e decisività dei denunziati vizi), da condursi sulla base delle sole deduzioni contenute nel ricorso, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative, non avendo la Corte di legittimità accesso agli atti del giudizio di merito (v. Cass., 24/3/2003, n. 3158; Cass., 25/8/2003, n. 12444; Cass., 1/2/1995, n. 1161).

Quanto al 1^ motivo va in ogni caso osservato che nell’impugnata sentenza non risulta fatto invero cenno a richiesta di trattazione in pubblica udienza avanzata dall’Agenzia delle entrate, bensì solamente a quella proposta dal contribuente, di cui il giudice dell’appello non ha peraltro tenuto conto in ragione della ritenuta tardività della costituzione del medesimo.

Orbene, il ricorrente non ha al riguardo invero denunziato alcun vizio integrante error in procedendo, anche in relazione al quale il principio di autosufficienza va comunque osservato, dovendo specificamente indicarsi l’atto difensivo o il verbale di udienza nei quali le domande o le eccezioni sono state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primo luogo, la ritualità e la tempestività, e, in secondo luogo, la decisività (v. Cass., 31/1/2006, n. 2138; Cass., 27/1/2006, n. 1732; Cass., 4/4/2005, n. 6972; Cass., 23/1/2004, n. 1170; Cass., 16/4/2003, n. 6055). E’ infatti al riguardo noto che, pur divenendo nell’ipotesi in cui vengano denunciati con il ricorso per cassazione errores in procedendo la Corte di legittimità giudice anche del fatto (processuale) ed abbia quindi il potere-dovere di procedere direttamente all’esame e all’interpretazione degli atti processuali, preliminare ad ogni altra questione si prospetta invero quella concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando sia stata accertata la sussistenza di tale ammissibilità diviene possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo, sicchè esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione la Corte di Cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali (v. Cass., 23/1/2006, n. 1221).

Va, ancora, per altro verso sottolineato come il contribuente non censuri d’altro canto la eventuale erroneità della tardività della sua costituzione in quel grado di giudizio ravvisata dal giudice dell’appello.

Sotto altro profilo va osservato che, come questa Corte (innovando al proprio precedente orientamento, in ordine al quale v. Cass., 16/09/2005, n. 18359; Cass., 12/12/2003, n. 19066; Cass., 04/05/2001, n. 6249; Cass., 17/04/2001, n. 5643), ha da tempo affermato che l’omessa fissazione, nel giudizio dinanzi alla commissione tributaria regionale, dell’udienza di discussione orale, pur ritualmente richiesta dalla parte, non comporta necessariamente la nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa, atteso che l’art. 360 cod. proc. civ., n. 4, nel consentire la denuncia di vizi di attività del giudice che comportino la nullità della sentenza o del procedimento, non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in dipendenza del denunciato error in procedendo, onde, poichè la discussione della causa nel giudizio d’appello ha una funzione meramente illustrativa delle posizioni già assunte e delle tesi già svolte nei precedenti atti difensivi e non è sostitutiva delle difese scritte, per configurare una lesione del diritto di difesa non basta affermare, genericamente, che la mancata discussione ha impedito al ricorrente di esporre meglio la propria linea difensiva, ma è necessario indicare quali siano gli specifici aspetti che la discussione avrebbe consentito di evidenziare o di approfondire, colmando lacune e integrando gli argomenti ed i rilievi già contenuti nei precedenti atti difensivi (v. Cass., 17/3/2008, n. 7106; Cass., 10/02/2006, n. 2948).

La parte che propone ricorso per cassazione avverso la sentenza, deducendone la nullità per tale motivo, ha pertanto l’onere, anche in ragione dei principi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e di interesse ad agire (v. Cass., 23/02/2010, n. 4340), di dedurre lo specifico pregiudizio al diritto di difesa asseritamente derivatogli in conseguenza del rito seguito (v. Cass., 19/3/2010, n. 6686).

Orbene, l’odierno ricorrente non ha invero assolto tale onere, limitandosi a censurare la mancata adozione della pubblica udienza senza invero indicare sotto quale profilo sia rimasto nel caso violato il suo diritto di difesa.

In ordine al 3 motivo, non può invero sottacersi che, come posto in rilievo dal P.G. nella sua requisitoria in udienza, nella specie assume invero rilievo non già la sussistenza di un rapporto di lavoro alle dipendenze di terzi, bensì il mero fatto storico del rinvenimento di persona nello svolgimento di prestazione di attività lavorativa alle dipendenze di soggetto da cui non risulti regolarmente assunto.

Quanto al 4 motivo, va infine rilevata la inconferenza della doglianza in relazione alla pronunzia impugnata, e in ogni caso la relativa novità, concernendo questione che non risulta trattata nella fase di merito appalesandosi inammissibilmente prospettata per la prima volta in sede di legittimità, non avendo al riguardo il ricorrente invero assolto l’onere di allegare la compiuta deduzione della medesima avanti al giudice del merito, di riprodurla nel ricorso per cassazione e di indicare in quale atto del precedente giudizio lo abbia fatto, onde dar modo a questa Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminarne il merito (cfr. Cass., 14/6/2007, n. 13958; Cass., 31/1/2006, n. 2140).

Emerge dunque evidente, alla stregua di tutto quanto sopra rilevato ed esposto, come, lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili, le deduzioni dell’odierno ricorrente, oltre a risultare formulate secondo un modello difforme da quello delineato all’art. 366 c.p.c., n. 4, in realtà si risolvono nella mera rispettiva doglianza circa l’asseritamente erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle sue aspettative (v. Cass., 20/10/2005, n. 20322), e nell’inammissibile pretesa di una lettura dell’asserto probatorio diversa da quella nel caso operata dai giudici di merito (cfr. Cass., 18/4/2006, n. 8932).

Per tale via, infatti, lungi dal censurare la sentenza per uno dei tassativi motivi indicati nell’art. 360 c.p.c., il ricorrente in realtà sollecita, contra ius e cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimità, un nuovo giudizio di merito, in contrasto con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte di Cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass., 14/3/2006, n. 5443).

All’inammissibilità ed infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.

Non è peraltro a farsi luogo a pronunzia in ordine alle spese del giudizio di cassazione, non avendo l’intimata svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 18 novembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 21 aprile 2011

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