Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9156 del 02/04/2019

Cassazione civile sez. II, 02/04/2019, (ud. 10/01/2019, dep. 02/04/2019), n.9156

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7937-2015 proposto da:

M.C.G., rappresentato e difeso dagli Avvocati

IVANO TOZZI e LORENZO CHIARINI, ed elettivamente domiciliato presso

lo studio del secondo in BOLOGNA, VICOLO BIANCO 7/A;

– ricorrente –

contro

M.C.S. e M.C.M., rappresentati

e difesi dagli Avvocati ALESSANDRO MONTI e NATALIA PAOLETTI, ed

elettivamente domiciliati presso lo studio della seconda in ROMA,

VIA BARNABA TORTOLINI 34;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1910/2014 della CORTE di APPELLO di BOLOGNA,

pubblicata il 19/08/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

10/01/2019 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

M.C.G., proprietario per 2/3 e nudo proprietario per 1/3 di un’unità immobiliare facente parte di un più ampio fabbricato denominato “(OMISSIS)”, sito in (OMISSIS), con accesso da (OMISSIS), agiva, in confessoria servitutis, innanzi al Tribunale di Bologna, nei confronti dei fratelli S. e M.C.M. e della madre M.Z.E., al fine di accertare la costituzione, per destinazione del padre di famiglia, di una servitù di passaggio da esercitarsi tramite un apposito scalone interno, incluso nella proprietà dei fratelli, titolari delle restanti proprietà immobiliari del medesimo fabbricato, sulle quali la madre esercitava il diritto di usufrutto. Chiedeva, altresì, la condanna dei convenuti al risarcimento del danno per il minore prezzo ricavabile dalla vendita del proprio immobile.

Si costituivano in giudizio S. e M.C.M., resistendo alla domanda ed eccependo la prescrizione della servitù. M.Z.E. non si costituiva.

Con sentenza n. 3035/2003, depositata in data 26.5.2003, il Tribunale di Bologna accoglieva le domande attoree e, dichiarata l’esistenza della servitù, condannava i convenuti al risarcimento dei danni, quantificati in Euro 413.165,52, pari alla differenza tra il prezzo di vendita dell’immobile di proprietà attorea e quello che, convenzionalmente, lo stesso attore avrebbe ottenuto dall’acquirente ove l’esistenza della servitù fosse stata accertata entro un dato termine.

Proponevano appello S. e M.C.M., che veniva respinto con sentenza n. 1318/2010 dalla Corte d’Appello di Bologna, la quale confermava la pronuncia di primo grado.

Avverso detta sentenza ricorrevano i soccombenti sulla base di tre motivi; resisteva con controricorso M.C.G., il quale proponeva ricorso incidentale condizionato, affidato a due motivi.

Con sentenza n. 17269/2012, depositata in data 10.10.2012, la Corte di Cassazione cassava con rinvio la sentenza n. 1318/2010 della Corte d’appello di Bologna, accogliendo i primi due motivi del ricorso principale, ritenuto assorbito il terzo e rigettato il ricorso incidentale proposto da M.C.G.. Rilevava la Suprema Corte che gli appellanti avevano basato la loro tesi difensiva sulla circostanza della esistenza nell’atto di divisione del 2.12.1989 (alla clausola di cui alla lett. E, comma 2, punto b) di una volontà contraria alla costituzione della servitù per destinazione del padre di famiglia. Ma la Corte d’appello non solo non aveva motivato compiutamente riguardo ciò, ma aveva finito per tralasciare di interpretare proprio la clausola il cui senso, nella valutazione complessiva dell’atto negoziale, avrebbe potuto risultare risolutivo per il suo immediato riferimento all’oggetto della lite; inoltre, la sentenza impugnata violava l’art. 1363 c.c., in quanto aveva fatto dipendere la decisione dall’interpretazione di un’unica clausola, senza interrogarsi sul significato complessivo dell’atto e delle restanti clausole, tra cui quella richiamata.

Con sentenza n. 1910/2014, depositata in data 19.8.2014, la Corte d’Appello di Bologna, pronunciando in sede di rinvio, ha dichiarato l’inesistenza della servitù di passaggio sullo scalone principale in oggetto a favore dell’unità immobiliare appartenente a M.C.G., condannandolo alle spese di lite dei vari gradi di giudizio, oltre che della fase di rinvio.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione M.C.G. sulla base di un motivo: resistono S. e M.C.M. con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato le rispettive memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con l’unico motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, giacchè la Corte di merito (“unitamente alla Suprema Corte in sede rescindente”) hanno dato per presupposti: a) che la previsione nell’atto di divisione di un diritto d’uso dello scalone a favore del ricorrente e dei suoi familiari nell’ipotesi di destinazione ad abitazione dell’immobile, esprimerebbe una volontà inequivocabilmente incompatibile con la costituzione di una servitù di passaggio; b) che tale clausola, se non intesa quale espressione di una volontà contraria alla costituzione della servitù, sarebbe inutile atteso che il diritto di passaggio sullo scalone, in quanto oggetto di una servitù inerente alla proprietà, non avrebbe richiesto una previsione contrattuale ad hoc, oltretutto condizionata a una particolare destinazione dell’immobile, indifferente invece per la servitù, nè sarebbe stato limitato solo a una specifica cerchia di soggetti, quali il ricorrente e i suoi familiari; c) che l’incompatibilità tra l’esistenza di una servitù di passaggio e la previsione di un diritto d’uso dello scalone deriverebbe dalla diversità dei due diritti, dei quali il secondo è un minus rispetto al primo. Il ricorrente evidenzia che la clausola contrattuale in oggetto esprime una condizione sospensiva non meramente potestativa, quindi lecita, che la Corte d’appello ha rilevato senza però, inspiegabilmente, tenerne conto. Viceversa, ove le parti avessero voluto escludere la costituzione di un diritto di servitù del padre di famiglia, il notaio rogante avrebbe escluso espressamente la costituzione di tale diritto reale, poichè, nessun notaio lascerebbe la sorte della costituzione di una servitù di passaggio all’alea relativa agli incerti effetti dell’applicazione dei canoni interpretativi del contratto di cui agli artt. 1362 c.c. e ss., quindi all’eventuale questione che ne potrebbe derivare in ordine alla nullità dell’atto. Secondo il ricorrente, la previsione di una condizione sospensiva sottenderebbe al soddisfacimento di un ulteriore interesse giuridicamente rilevante, possibile, lecito e determinato. Tutte le parti non avrebbero perciò escluso la costituzione del diritto di servitù per destinazione del padre di famiglia: infatti, con la previsione della clausola condizionante, le parti avrebbero inteso disciplinare l’ulteriore ipotesi relativa alla possibilità che il ricorrente fosse titolare del diritto d’uso ex art. 1201 c.c. sullo scalone.

1.1. – Il motivo è infondato.

1.2. – Nella prima sentenza di legittimità inter partes (Cass. n. 17269 del 2012), questa Corte ha innanzitutto rilevato che gli appellanti S. e M.C.M. avevano basato la loro tesi difensiva – diretta ad affermare l’esistenza nell’atto di divisione 2.12.1989 (evidenziata dalla menzionata clausola E, comma 2, punto b) di una volontà contraria alla costituzione della servitù per destinazione del padre di famiglia essenzialmente su due circostanze di fatto: la prima, costituita dal fatto che l’accesso alla porzione immobiliare ad uso ufficio assegnata a M.C.G. era stato espressamente previsto, oltre che dal (OMISSIS), anche dall’entrata di (OMISSIS), attraverso il cortile, il porticato ed il ballatoio distinti dal mapp. (OMISSIS); la seconda, consistente nella clausola secondo cui “qualora il medesimo Sig. M.C.G. o taluno dei suoi famigliari, avessero ad adibire a propria abitazione la suddetta unità immobiliare distinta dal mapp.(OMISSIS), avranno il diritto di uso, così come regolato dagli artt. 1201 c.c. e ss., del suddetto scalone, in concorso ovviamente con i proprietari dello scalone medesimo”.

Ciò premesso, questa Corte (nella citata sentenza n. 17269 del 2012) osservava che il giudice di appello, nonostante gli appellanti avessero specificamente censurato (anche) la mancata considerazione di quest’ultima clausola da parte del Tribunale, aveva omesso qualsivoglia considerazione al riguardo, limitandosi a ribadire l’impostazione decisoria di primo grado, focalizzata esclusivamente sulla prima delle due circostanze anzi dette (quella riguardante la previsione del passaggio da (OMISSIS)); ed aveva, quindi, ritenuto (concordemente al giudice di prime cure), che tale previsione, se valeva ad attribuire il diritto di passaggio per accedere alla porzione immobiliare assegnata a M.C.G. anche per il tramite dell’ingresso di via (OMISSIS), del porticato, del cortile e del ballatoio, per poi transitare nella scala con accesso dal portone di via (OMISSIS), non valeva tuttavia ad escludere nè esplicitamente, nè implicitamente la servitù ex art. 1062 c.c.nel percorso principale attraverso due rampe dello scalone di cui si discuteva in causa, trattandosi di clausola che, aggiungendo un’ulteriore possibilità d’accesso, non era incompatibile con la volontà di lasciare integra la situazione di fatto che, in forza di legge, avrebbe determinato la costituzione della predetta servitù.

A fronte di ciò, questa Corte rilevava tuttavia che nessuna considerazione, neppure implicita, la Corte territoriale aveva operato in ordine alla seconda circostanza. Sicchè tale difetto: “a) rendeva nel complesso insufficiente la motivazione su di un fatto – l’attitudine della clausola innanzi riportata a integrare gli estremi di un accordo contrario alla costituzione della servitù per destinazione del padre di famiglia – controverso e decisivo, ove si consideri che proprio tale clausola, non meno ed anzi ben più della prima, è direttamente ed espressamente volta a regolare proprio l’utilizzazione dello scalone, che a sua volta rappresenta lo specifico locus della servitù di cui si controverte in causa (in altri termini, la Corte d’appello non solo non aveva motivato compiutamente, ma aveva finito per tralasciare proprio la clausola il cui senso, nel contesto della valutazione complessiva dell’atto negoziale, avrebbe potuto risultare risolutivo per il suo esplicito e immediato riferimento all’oggetto stesso della lite); b) violava l’art. 1363 c.c. nella misura in cui risultava aver fatto dipendere la decisione dell’interpretazione di un’unica clausola, senza interrogarsi sul significato complessivo dell’atto e delle restanti clausole, tra cui, appunto, quella innanzi richiamata” (pagg. 18 e 19). Da qui la cassazione della sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti del ricorso principale.

1.3. – Costituisce principio consolidato che la riassunzione della causa innanzi al giudice di rinvio instauri un processo chiuso, nel quale è preclusa alle parti, tra l’altro, ogni possibilità di proporre nuove domande, eccezioni, nonchè conclusioni diverse, salvo che queste, intese nell’ampio senso di qualsiasi attività assertiva o probatoria, siano rese necessarie da statuizioni della sentenza della Cassazione (Cass. n. 25244 del 2013). Conseguentemente, nel giudizio di rinvio non possono essere proposti dalle parti, nè presi in esame dal giudice, motivi di impugnazione diversi da quelli che erano stati formulati nel giudizio d’appello conclusosi con la sentenza cassata e che continuano a delimitare, da un lato, l’effetto devolutivo dello stesso gravame e, dall’altro, la formazione del giudicato interno (Cass. n. 4096 del 2007; Cass. n. 13719 del 2006; in senso analogo, Cass. n. 13006 del 2003).

Pertanto, la riassunzione della causa davanti al giudice di rinvio si configura non già come atto di impugnazione, ma come attività d’impulso processuale volta alla prosecuzione del giudizio conclusosi con la sentenza cassata (giurisprudenza costante di questa Corte: Cass. n. 25244 del 2013, cit.; cfr. Cass. n. 4018 del 2006). Non senza dimenticare che a tali regole si aggiunge quella secondo cui, in tema di ricorso avverso sentenza emessa in sede di rinvio, ove sia in discussione, in rapporto al petitum concretamente individuato dal giudice di rinvio, la portata del decisum della sentenza di legittimità, la Corte di cassazione, nel verificare se il giudice di rinvio si sia uniformato al principio di diritto da essa enunciato, deve interpretare la propria sentenza in relazione alla questione decisa e al contenuto della domanda proposta in giudizio dalla parte, con la quale la pronuncia rescindente non può porsi in contrasto (Cass. n. 3955 del 2018).

1.4. – Del tutto correttamente, la Corte di merito, nel rispetto della specifica latitudine attribuita dalle coordinate apposte dal giudice di legittimità al proprio ambito decisionale nel giudizio di rinvio – premesso d’essere stata chiamata ad esaminare la clausola contenuta nell’atto di divisione e ad interpretarla facendo corretta applicazione della regola di ermeneutica contrattuale secondo le indicazioni della Suprema Corte (sentenza impugnata pag. 5) -, ha innanzitutto osservato che la disposizione relativa alla servitù, che ai sensi dell’art. 1062 c.c. impedisce la costituzione per destinazione del padre di famiglia, “deve identificarsi con qualunque manifestazione di volontà idonea a contrastare l’automatismo voluto dalla legge per la costituzione della servitù, o perchè manifestata in una clausola con la quale le parti escludono espressamente la nascita della servitù per destinazione del padre di famiglia, o perchè implicitamente contenuta in una clausola in cui contenuto è incompatibile con la volontà di lasciare immutata la situazione di fatto da cui scaturisce la nascita della servitù”.

In piena coerenza con siffatto assunto, la Corte distrettuale ha quindi rilevato che “la previsione, contenuta nell’atto di divisione, di un diritto d’uso dello scalone a favore del ricorrente e dei suoi familiari nella ipotesi di destinazione ad abitazione dell’immobile, espime una volontà inequivocabilmente incompatibile con la costituzione di una servitù di passaggio” (sentenza impugnata, pag. 5). E, altrettanto correttamente, ha precisato che, se tale clausola non fosse effettivamente l’espressione di una volontà contraria alla costituzione della servitù, essa sarebbe stata del tutto inutile atteso che il diritto di passare attraverso lo scalone, in quanto oggetto di una servitù inerente alla proprietà, non avrebbe richiesto una previsione contrattuale ad hoc, oltretutto condizionata ad una particolare destinazione dell’immobile, indifferente invece per la servitù, nè sarebbe stato limitato solo ad una specifica cerchia di soggetti, quali il ricorrente ed i suoi familiari. Concludendo, dunque, nel senso che “la incompatibilità tra l’esistenza di una servitù di passaggio sullo scalone e la previsione di un diritto d’uso dello stesso scalone deriva proprio dalla diversità dei due diritti sullo stesso bene, sei quali il secondo è un minus rispetto al primo” (sentenza impugnata pag. 6).

1.5. – Trattasi all’evidenza di una interpretazione della clausola contrattuale da parte del giudice di rinvio, che risulta condotta in modo del tutto coerente, sia con i principi richiamati da questa Corte nel primo giudizio di legittimità (onde assegnare al giudice del rinvio lo specifico compito di valutare compiutamente la clausola de qua, nel contesto di una lettura complessiva dell’atto negoziale, che avrebbe potuto risultare risolutiva per il suo esplicito e immediato riferimento all’oggetto stesso della lite, precedentemente violata dalla Corte distrettuale nel giudizio d’appello, nella misura in cui risultava aver fatto dipendere la decisione dell’interpretazione di un’unica clausola, senza interrogarsi sul significato complessivo dell’atto e delle restanti clausole, tra cui, appunto, quella innanzi richiamata), sia con le correnti regole di ermeneutica contrattuale.

Non dovendosi, peraltro, trascurare che l’accertamento, anche in base al significato letterale delle parole, della volontà degli stipulanti, in relazione al contenuto del negozio (cfr. Cass. n. 18509 del 2008), si traduce in un’indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice di merito. Ne consegue che tale accertamento è censurabile in sede di legittimità soltanto per vizio di motivazione (Cass. n. 1646 del 2014), nel caso in cui (contrariamente a quanto risulta nella presente fattispecie, che peraltro si connota, come detto, per la ulteriore incidenza del principio di diritto, nel giudizio di rinvio) la motivazione stessa risulti talmente inadeguata da non consentire di ricostruire l’iter logico seguito dal giudice per attribuire all’atto negoziale un determinato contenuto, oppure nel caso di violazione delle norme ermeneutiche; con la precisazione che nessuna di tali censure può risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione (tra le tante, Cass. n. 26683 del 2006; Cass. n. 18375 del 2006; Cass. n. 1754 del 2006).

Per sottrarsi al sindacato di legittimità, infatti, quella data dal giudice del merito al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni, sì che quando di una clausola contrattuale siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto la interpretazione poi disattesa dal giudice del merito, dolersi in sede di legittimità che sia stata privilegiata l’altra (Cass. n. 8909 del 2013; Cass. n. 24539 del 2009; Cass. n. 15604 del 2007; Cass. n. 4178 del 2007; Cass. n. 17248 del 2003).

1.6. – Orbene, secondo la concorde giurisprudenza di questo giudice di legittimità, qualora deduca la violazione dei citati canoni interpretativi, il ricorrente deve precisare in quale modo il ragionamento del giudice se ne sia discostato, non essendo sufficiente un astratto richiamo ai criteri asseritamente violati e neppure una critica della ricostruzione della volontà dei contraenti che, benchè genericamente riferibile alla violazione denunciata, si riduca, come nella specie, alla mera (benchè energicamente ribadita) prospettazione di un processo e di un risultato interpretativo diverso da quello accolto nella sentenza impugnata (Cass. sez. un. 1914 del 2016; cfr. Cass. n. 3657 del 2016; Cass. n. 25728 del 2013 e, tra le altre, Cass. n. 1754 del 2006).

Nella specie, procedendo ad una analitica e coordinata lettura della clausola in oggetto, la Corte distrettuale ha correttamente e logicamente (e quindi incensurabilmente) individuato la volontà comune, desumibile dall’inequivoco dato letterale della clausola medesima.

Come detto, dunque, tali valutazioni si sottraggono al sindacato di legittimità, avendo la Corte territoriale (in attuazione di quanto specificamente richiesto da questa Corte di legittimità) proceduto alla ricostruzione della comune intenzione dei contraenti, nel rispetto delle regole di ermeneutica contrattuale poste dagli artt. 1362 e 1363 c.c., sulla base del tenore letterale e di una lettura della clausola in esame, riferita anche al contenuto generale dell’accordo negoziale da cui la clausola medesima non risulta meramente estrapolata.

1.7. – Nessun rilievo, infine, può esser dato ai “fatti nuovi”, avvenuti successivamente al deposito del ricorso introduttivo del presente giudizio di legittimità, che secondo l’assunto del ricorrente confermerebbero e proverebbero ulteriormente il fondamento della domanda (memoria ricorrente pagg. 2-4).

Le memorie (ex art. 378 c.p.c.) sono destinate esclusivamente ad illustrare ed a chiarire i motivi della impugnazione ovvero alla confutazione delle tesi avversarie (ex plurimis, Cass. n. 17510 del 2016; Cass. n. 12142 del 2015; Cass. n. 26670 del 2014), e con esse non possono essere dedotte nuove censure, nè venire sollevate questioni nuove, che non siano rilevabili d’ufficio (ex plurimis, Cass. n. 2631 del 2014; Cass. n. 7260 del 2005) e neppure può venire specificato, integrato o ampliato il contenuto dei motivi originari del ricorso (Cass. n. 3471 del 2016; Cass. n. 3780 del 2015; Cass. n. 6222 del 2012).

2. – Il ricorso va dunque rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa altresì la dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrenti alla refusione delle spese di lite in favore dei controricorrenti, che liquida in complessivi Euro 10.200,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 10 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 2 aprile 2019

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