Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9154 del 21/04/2011

Cassazione civile sez. trib., 21/04/2011, (ud. 18/11/2010, dep. 21/04/2011), n.9154

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. SOTGIU Simonetta – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.I., B.D., elettivamente domiciliati in ROMA VIA

DELLA GIULIANA 63, presso lo studio dell’avvocato GARATTI LUCIANO,

che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato TONIOLATTI

PAOLO, giusta delega in calce;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 11/2006 della COMM. TRIBUTARIA 2^ GRADO di

TRENTO, depositata il 06/03/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/11/2010 dal Consigliere Dott. LUIGI ALESSANDRO SCARANO;

udito per il ricorrente l’Avvocato TONIOLATTI, che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il resistente l’Avvocato D’ASCIA, che ha chiesto il

rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

LECCISI Giampaolo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 6/3/2006 la Commissione Tributaria di 2^ grado di Trento accoglieva il gravame interposto dall’Agenzia delle entrate di Trento nei confronti della pronunzia della Commissione Tributaria di I grado di Trento di accoglimento delle riunite opposizioni spiegate dai contribuenti sigg.ri I. e B.D. in relazione ad avvisi di accertamento emessi a titolo di I.R.P.E.F. e contributo per il S.S.N. per gli anni d’imposta dal 1995 al 1997, all’esito di ripresa a tassazione D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 38, comma 3 e 4, e art. 41 bis di somme utilizzate per l’acquisto di cespite immobiliare per l’ammontare di quasi L. 3 miliardi, ripresa a tassazione dall’A.F. operata nella ravvisata incoerenza del relativo possesso in relazione alla mera attività agricola esercitata.

Avverso la suindicata decisione del giudice dell’appello i sigg.ri I. e B.D. propongono ora ricorso per cassazione, affidato a 4 motivi.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il 1^ motivo i ricorrenti denunziano violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;

nonchè omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si dolgono che il giudice dell’appello abbia ritenuto legittimo il ricorso nel caso all’accertamento sintetico D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 38, benchè la determinazione dei loro redditi sia avvenuta in via forfettaria e non già analitica, che sola l’avrebbe legittimato in presenza di divergenza con il reddito fondatamente attribuibile in base all’investimento effettuato.

Lamentano non essere nel caso emerso alcun elemento deponente per l’esistenza in loro favore di fonti di reddito altre o diverse da quelle agrarie. Come d’altro canto riconosciuto dall’A.F., che “a pag. 5 delle memorie di costituzione nel primo grado di giudizio” ammette che essi ricorrenti sono “titolari solo di redditi fondiari”.

Con il 2^ motivo denunziano violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; nonchè contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si dolgono che non sia stata riconosciuta rilevanza probatoria ai disinvestimenti da essi effettuati, considerandosi peraltro legittimi gli atti impositivi emessi in relazione ai medesimi.

Con il 3^ motivo denunziano omessa motivazione su punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si dolgono non essersi dal giudice dell’appello considerato (anche) il “disinvestimento finanziario effettuato dai ricorrenti, sempre nel 1997, per complessive L. 550.000.000 (si veda la dichiarazione prodotta sub doc. 3 nel primo grado di giudizio rilasciata in data 15 maggio 2003 dalla banca di Trento e di Bolzano, filiale di Mezzolombardo …”.

Con il 4 motivo denunziano omessa motivazione su punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si dolgono che l’A.F. non abbia fornito alcun elemento probatorio o presuntivo circa l’esistenza di fonti di reddito diverse da quelle fondiarie.

Lamentano che ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 7, il maggior reddito sinteticamente accertato deve essere considerato ai meri fini dell’ILOR e non già, come nel caso, dell’IRPEF. I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono sotto plurimi profili inammissibili.

Va anzitutto posto in rilievo che essi si palesano privi dei requisiti a pena di inammissibilità richiesti dai sopra richiamati articoli, nella specie applicantisi nel testo modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, essendo stata l’impugnata sentenza pubblicata successivamente alla data (2 marzo 2006) di entrata in vigore del medesimo.

L’art. 366 bis c.p.c. dispone infatti che nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, l’illustrazione di ciascun motivo deve, a pena di inammissibilità, concludersi con la formulazione di un quesito di diritto (cfr. Cass., 19/12/2006, n. 27130).

Una formulazione del quesito di diritto idonea alla sua funzione richiede allora che con riferimento ad ogni punto della sentenza investito da motivo di ricorso la parte, dopo avere del medesimo riassunto gli aspetti di fatto rilevanti ed avere indicato il modo in cui il giudice lo ha deciso, esprima la diversa regola di diritto sulla cui base il punto controverso andrebbe viceversa risolto.

Il quesito di diritto deve essere in particolare specifico e riferibile alla fattispecie (v. Cass., Sez. Un., 5/1/2007, n. 36), risolutivo del punto della controversia – tale non essendo la richiesta di declaratoria di un’astratta affermazione di principio da parte del giudice di legittimità (v. Cass., 3/8/2007, n. 17108) -, e non può con esso invero introdursi un tema nuovo ed estraneo (v.

Cass., 17/7/2007, n. 15949).

Il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c., deve comprendere l’indicazione sia della regula iuris adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo, sicchè la mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile, non potendo considerarsi in particolare sufficiente ed idonea la mera generica richiesta di accertamento della sussistenza della violazione di una norma di legge (da ultimo v. Cass., 28/5/2009, n. 12649).

Quanto al pure denunziato vizio di motivazione, a completamento della relativa esposizione esso deve indefettibilmente contenere la sintetica e riassuntiva indicazione: a) del fatto controverso; b) degli elementi di prova la cui valutazione avrebbe dovuto condurre a diversa decisione; c) degli argomenti logici per i quali tale diversa valutazione sarebbe stata necessaria (art. 366 bis c.p.c.).

Al riguardo, si è precisato che l’art. 366 bis c.p.c. rispetto alla mera illustrazione del motivo impone un contenuto specifico autonomamente ed immediatamente individuabile, ai fini dell’assolvimento del relativo onere essendo pertanto necessario che una parte del medesimo venga a tale indicazione “specificamente destinata” (v. Cass., 18/7/2007, n. 16002).

Orbene, nel non osservare i requisiti richiesti dallo schema delineato in giurisprudenza di legittimità (cfr. in particolare Cass. Sez. Un., 5/2/2008, n. 2658; Cass., Sez. Un., 5/1/2007, n. 36), i quesiti recati dal ricorso risultano formulati in termini invero difformi dal suindicato schema, non risultando ivi indicati la sintetica e riassuntiva indicazione del fatto controverso, delle regole di diritto applicate dal giudice per risolverlo, e della diversa regola che il giudice dell’appello avrebbe dovuto ad avviso del ricorrente viceversa applicare.

Essi risultano altresì connotati da genericità e astrattezza, senza specifico riferimento alla fattispecie concreta, sostanziandosi in una richiesta di declaratoria da parte di questa Corte di un’astratta affermazione di principio.

A tale stregua non consentono, in base alla loro sola lettura (v.

Cass., Sez. Un., 27/3/2009, n. 7433; Sez. Un., 14/2/2008, n. 3519;

Cass. Sez. Un., 5/2/2008, n. 2658; Cass., 7/4/2009, n. 8463), di individuare la soluzione adottata dalla sentenza impugnata e di precisare i termini della contestazione (cfr. Cass., Sez. Un., 19/5/2008, n. 12645; Cass., Sez. Un., 12/5/2008, n. 11650; Cass., Sez. Un., 28/9/2007, n. 20360), nonchè di poter circoscrivere la pronunzia nei limiti del relativo accoglimento o rigetto (cfr., Cass., Sez. Un., 26/03/2007, n. 7258), senza che essi debbano richiedere, per ottenere risposta, una scomposizione in più parti prive di connessione tra loro (cfr. Cass., 23/6/2008, n. 17064).

L’inidonea formulazione del quesito di diritto equivale invero alla relativa omessa formulazione, in quanto nel dettare una prescrizione di ordine formale la norma incide anche sulla sostanza dell’impugnazione, imponendo al ricorrente di chiarire con il quesito l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in relazione alla concreta fattispecie (v. Cass., 7/4/2009, n. 8463; Cass. Sez. un., 30/10/2008, n. 26020; Cass. Sez. un., 25/11/2008. n. 28054), (anche) in tal caso rimanendo invero vanificata la finalità di consentire a questa Corte il miglior esercizio della funzione nomofilattica sottesa alla disciplina del quesito introdotta con il D.Lgs. n. 40 del 2006 (cfr., da ultimo, Cass. Sez. un., 10/9/2009, n. 19444).

La norma di cui all’art. 366 bis c.p.c. è d’altro canto insuscettibile di essere interpretata nel senso che il quesito di diritto possa, e a fortiori debba, desumersi implicitamente dalla formulazione del motivo, giacchè una siffatta interpretazione si risolverebbe nell’abrogazione tacita della norma in questione, tanto più che essi risultano formulati in violazione della principio di autosufficienza (v. Cass. Sez. Un., 5/2/2008, n. 2658; Cass., Sez. Un., 26/03/2007, n. 7258).

Va ulteriormente posto in rilievo che il ricorso non reca invero nemmeno la “chiara indicazione” – nei termini più sopra indicati- delle “ragioni” dei denunziati vizi di motivazione, inammissibilmente rimettendosene l’individuazione all’attività esegetica di questa Corte, a fortiori non consentita in presenza di formulazione come già più sopra osservato nella specie altresì carente di autosufficienza.

A quest’ultimo riguardo va in particolare osservato che, come questa Corte ha già avuto più volte modo di affermare, i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbono avere i caratteri della specificità, della completezza, e della riferibilità alla decisione stessa, con – fra l’altro – l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto, essendo inammissibile il motivo nel quale non venga precisato in qual modo e sotto quale profilo (se per contrasto con la norma indicata, o con l’interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina) abbia avuto luogo la violazione nella quale si assume essere incorsa la pronuncia di merito.

Sebbene l’esposizione sommaria dei fatti di causa non deve necessariamente costituire una premessa a sè stante ed autonoma rispetto ai motivi di impugnazione, è tuttavia indispensabile, per soddisfare la prescrizione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che il ricorso, almeno nella parte destinata alla esposizione dei motivi, offra, sia pure in modo sommario, una cognizione sufficientemente chiara e completa dei fatti che hanno originato la controversia, nonchè delle vicende del processo e della posizione dei soggetti che vi hanno partecipato, in modo che tali elementi possano essere conosciuti soltanto mediante il ricorso, senza necessità di attingere ad altre fonti, ivi compresi i propri scritti difensivi del giudizio di merito, la sentenza impugnata ed il ricorso per cassazione (v. Cass., 23/7/2004, n. 13830; Cass., 17/4/2000, n. 4937; Cass., 22/5/1999, n. 4998).

E’ cioè indispensabile che dal solo contesto del ricorso sia possibile desumere una conoscenza dei “fatto”, sostanziale e processuale, sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice a quo (v.

Cass., 4/6/1999, n. 5492).

Quanto al vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, va invero ribadito che esso si configura solamente quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione (in particolare cfr.

Cass., 25/2/2004, n. 3803).

Tale vizio non consiste pertanto nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove preteso dalla parte rispetto a quello operato dal giudice di merito (v. Cass., 14/3/2006, n. 5443; Cass., 20/10/2005, n. 20322).

La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce infatti al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (v. Cass., 7/3/2006, n. 4842;. Cass., 27/4/2005, n. 8718).

Orbene, i suindicati principi risultano invero non osservati dagli odierni ricorrenti.

Già sotto l’assorbente profilo dell’autosufficienza, va posto in rilievo come essi facciano richiamo ad atti e documenti del giudizio di merito (es., al “contratto di compravendita … stipulato in data 11 novembre 1997”; alla vendita “di alcuni terreni di loro proprietà” e all’impiego di “loro risparmi accumulati nel corso degli anni ed investiti, tra l’altro in certificati di deposito presso la Banca di Trento e Bolzano, filiale di Mezzolombardo”; agli “avvisi di accertamento n. (OMISSIS)”, agli “avvisi di accertamento n. (OMISSIS)”;

all’atto d’impugnazione avanti alla Commissione Tributaria di 1^ grado di Trento; al “doc. n. 4” prodotto “nel corso del primo grado di giudizio” consistente nella “copia del contratto di vendita stipulato da B.I. in data 26 marzo 1999”; ai “contratti di compravendita mediante i quali il ricorrente aveva a cedere un terreno sito in (OMISSIS)) e uno nel comune catastale di (OMISSIS) unitamente ad un edificio destinato al ricovero degli attrezzi posto su detto fondo” prodotti “sub docc. 4 e 5 nel corso del primo grado di giudizio”; alla “sentenza n. 28/3/04 pronunciata in data 10 maggio 2004 e depositata il 20 luglio 2004” della Commissione Tributaria di 1^ grado di Trento; alla “memoria di costituzione del 16 novembre 2005”; alla “copia delle deposizioni rese da SOR (doc. 4) e da L.A. (doc. 7)”; alla “dichiarazione rilasciata dalla banca di Trento e Bolzano in data 15 maggio 2003 (doc. 9 del secondo grado di giudizio)”; alle “memorie di costituzione dell’Agenzia delle entrate nel primo di giudizio”) di cui lamentano la mancata o erronea valutazione, limitandosi a meramente rinviare agli atti del giudizio di merito, senza invero debitamente riprodurli nel ricorso.

A tale stregua non pongono questa Corte nella condizione di effettuare il richiesto controllo (anche in ordine alla tempestività e decisività dei denunziati vizi), da condursi sulla base delle sole deduzioni contenute nel ricorso, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative, non avendo la Corte di legittimità accesso agli atti del giudizio di merito (v. Cass., 24/3/2003, n. 3158; Cass., 25/8/2003, n. 12444; Cass., 172/1995, n. 1161).

In argomento va in ogni caso osservato quanto segue.

Va anzitutto, in termini generali, premesso che in base a consolidato indirizzo in tema di accertamento delle imposte sui redditi il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4, ove consente di rettificare con metodo sintetico la dichiarazione del contribuente, quando risulti la non congruità della “determinazione analitica in base ad elementi e circostanze di fatto certi”, non esige un preventivo riscontro dell’impossibilità (o difficoltà) di una revisione di tipo analitico delle poste indicate dal dichiarante, essendo all’uopo sufficiente, che l’imponibile, come risultante dai dati enunciati dal contribuente, si appalesi complessivamente in contrasto con la realtà evidenziata su base presuntiva da detti elementi e circostanze, sicchè qualora l’Ufficio abbia sufficientemente motivato l’accertamento sintetico, sia specificando gli indici di ricchezza, sia dimostrando la loro astratta idoneità a rappresentare una capacità contributiva non dichiarata, il provvedimento di rettifica del reddito è di per sè legittimo, non essendo necessario che sia stato preceduto dal riscontro analitico della congruenza e della verosimiglianza dei singoli cespiti di reddito dichiarati dal contribuente (cfr., in particolare, Cass., 20/06/2007, n. 14367).

Pervenendosi al riguardo in termini ancor più generali ad affermare che a mente del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 38 e 39, deve ritenersi legittima la rettifica induttiva del reddito d’impresa operata in presenza di contabilità formalmente regolare quando, sulla base di presunzioni dotate dei requisiti prescritti dall’art. 2729 c.c., comma 1, possa fondatamente ritenersi che l’entità del reddito dichiarato si ponga in evidente contrasto con il comune buon senso e con le regole basilari della ragionevolezza (v. Cass., 13/12/2007, n. 26130).

A parte la considerazione che questa Corte ha già avuto modo di porre in rilievo come la possibilità per l’erario di emettere la cartella di cui al D.P.R. n. 600, art. 36 bis, non è condizionata in assoluto alla previa doverosa comunicazione dell’attività istruttoria al contribuente, poichè tale adempimento è stato introdotto con il D.Lgs. n. 241 del 1997, con decorrenza solo per le dichiarazioni presentate a decorrere dal 1 gennaio 1999 (v. Cass., 22/05/2008, n. 13140), è invero da sottolinearsi come questa Corte abbia già avuto modo di precisare che alla rettifica della dichiarazione dei redditi del coltivatore diretto ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38 e del D.M. 21 luglio 1983, l’A.F. può legittimamente procedere con metodo sintetico, comprensiva soltanto del reddito agrario e dominicale – determinati in base agli estimi catastali – del fondo da lui condotto, quando da elementi estranei alla configurazione reddituale prospettata dal contribuente (es., disponibilità di autoveicoli non inerenti all’attività agricola, tenore di vita, ecc.) si possa fondatamente presumere che ulteriori redditi concorrano a formare l’imponibile complessivo, incombendo in tal caso invero al contribuente l’onere di dedurre e provare che i redditi effettivi frutto della sua attività agricola sono sufficienti a giustificare il suo tenore di vita, ovvero che egli possiede altre fonti di reddito non tassabili, o separatamente tassate (v. Cass., 22/04/2009, n. 9505; Cass., 27/03/2006, n. 6952;

Cass., 08/05/2003, n. 7005; Cass., 13/08/2002, n. 12192).

Orientamento invero avallato anche dal giudice di legittimità costituzionale delle leggi, che ha avuto modo di sottolineare come, ove la capacità di spesa del contribuente manifesti il possesso di un reddito superiore a quello effettivo realmente conseguito nell’esercizio delle attività agricole e quindi di un reddito diverso da quello denunciato (possesso di altri terreni o esercizio di attività diverse non riconducibili a quelle agricole), diventi invero legittimo l’accertamento sintetico in base ad elementi e circostanze di fatto certi, salva la facoltà del contribuente di fornire la prova della provenienza del maggiore reddito determinato o determinabile sinteticamente, di cui al richiamato D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 5, (v. Corte Cost. n. 377 del 1995).

Orbene, atteso quanto sopra rilevato ed esposto, correttamente il giudice dell’appello ha nel caso ritenuto incombere agli odierni ricorrenti di fornire la prova atta a vincere la presunzione di sussistenza di ulteriori redditi concorrenti a formare il loro imponibile complessivo tassabile, pervenendo alla formulazione di una valutazione di merito in ordine alla relativa insufficienza ed idoneità al riguardo, che, come sopra esposto, risulta inammissibilmente impugnata nel presente giudizio di legittimità, non avendo d’altro canto i ricorrenti in proposito nemmeno dedotto censura ai sensi degli artt. 115 e 116 c.p.c., nè denunziato alcun vizio integrante error in procedendo.

Emerge dunque evidente, alla stregua di tutto quanto sopra rilevato ed esposto, come, lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili, le deduzioni degli odierni ricorrenti, oltre a risultare formulate secondo un modello difforme da quello delineato all’art. 366 c.p.c., n. 4, in realtà si risolvono nella mera rispettiva doglianza circa l’asseritamente erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle loro aspettative (v. Cass., 20/10/2005, n. 20322), e nell’inammissibile pretesa di una lettura dell’asserto probatorio diversa da quella nel caso operata dai giudici di merito (cfr. Cass., 18/4/2006, n. 8932).

Per tale via, infatti, lungi dal censurare la sentenza per uno dei tassativi motivi indicati nell’art. 360 c.p.c., i ricorrenti in realtà sollecitano, contra ius e cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimità, un nuovo giudizio di merito, in contrasto con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte di Cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass., 14/3/2006, n. 5443).

All’inammissibilità dei motivi consegue l’inammissibilità del ricorso.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento, in solido, delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 8.200,00, di cui Euro 8.000,00 per onorari, oltre a spese generali ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 18 novembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 21 aprile 2011

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