Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9153 del 10/04/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 10/04/2017, (ud. 14/12/2016, dep.10/04/2017),  n. 9153

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ANTONIO Enrica – Presidente –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13189-2011 proposto da:

V.I. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

GIROLAMO DA CARPI 6, presso lo studio dell’avvocato ANDREA

PIETROPAOLI, rappresentato e difeso dall’avvocato PAOLO CRESCIMBENI,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE C.F. (OMISSIS), in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura

Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli Avvocati LUIGI

CALIULO, GIUSEPPINA GIANNICO, SERGIO PREDEN, ANTONELLA PATTERI,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 151/2010 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 18/05/2010 R.G.N. 3/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/12/2016 dal Consigliere Dott. BERRINO UMBERTO;

udito l’Avvocato PREDEN SERGIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO RITA che ha concluso per l’inammissibilità in subordine

rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Si controverte della rivalutazione contributiva di cui alla L. n. 257 del 1992, art. 13, comma 8, invocata da V.I. nei confronti dell’Inps in conseguenza della sua lamentata esposizione agli effetti nocivi dell’amianto durante lo svolgimento negli anni dell’attività lavorativa.

Con sentenza del 10.3 – 18.5.2010, la Corte d’appello di Perugia, nel respingere l’impugnazione del V. avverso la sentenza del primo giudice che non gli aveva riconosciuto il diritto alla predetta rivalutazione ai fini pensionistici – per essere risultato inferiore ai dieci anni previsti dalla richiamata norma l’esposizione a concentrazioni superiori ai minimi di legge – ha rilevato che non poteva essere ammessa la prova testimoniale in relazione ad un accertamento che esigeva una specifica valutazione e che la relazione peritale aveva consentito di accertare che la concentrazione di fibre nocive era stata inferiore ai valori minimi consentiti dalla normativa posta a tutela dei lavoratori esposti ai rischi dell’amianto. Per la cassazione della sentenza ricorre V.I. con due motivi, illustrati da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Resiste con controricorso l’Inps.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo viene denunziata la violazione e falsa applicazione della L. n. 277 del 1991, artt. 24 e 31, nonchè della L. n. 257 del 1992, art. 13, comma 8, e successive modifiche, il tutto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Il V. si duole in particolare del fatto che il consulente d’ufficio che aveva svolto la relazione tecnica in secondo grado, le cui conclusioni erano state recepite dalla Corte d’appello, non aveva fatto altro che riportarsi a quelle esposte dal perito di prime cure sulla base di valori di riferimento errati e non rispondenti ai tempi ed alle lavorazioni di esso ricorrente, per cui, considerata anche la carenza istruttoria dovuta alla mancata ammissione della prova testimoniale, la decisione finale di rigetto non si basava su dati oggettivi idonei a condurre ad un calcolo preciso della percentuale di esposizione.

2. Col secondo motivo il ricorrente deduce l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, nonchè la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 – 116 c.p.c., degli artt. 2697 – 2724 c.c., per mancata ammissione delle prove testimoniali e degli artt. 2702 – 2712 c.c., per omessa valutazione delle prove documentali, il tutto ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

In pratica il V. ribadisce che il mero convincimento personale del consulente tecnico d’ufficio, non suffragato da riscontri oggettivi e numerici, non poteva assurgere a dato incontestabile e decisivo per la individuazione dell’esposizione qualificata o meno agli effetti nocivi dell’amianto, poichè in tal modo i limiti previsti dalla norma finivano per essere assoggettati a pure valutazioni discrezionali.

Osserva la Corte che per ragioni di connessione i due motivi possono essere esaminati congiuntamente. Orbene, gli stessi sono infondati. Invero, le censure, seppur prospettate in parte per asserita violazione di norme di legge, si risolvono, in realtà, in un generico e mero dissenso dalle conclusioni del consulente d’ufficio, sulla base delle quali la Corte territoriale ha adeguatamente formulato il proprio Convincimento sull’infondatezza del gravame, senza che le stesse doglianze riescano a scalfire il dato di fondo dell’accertato mancato superamento della soglia minima prevista dalla citata legge per poter ritenere sussistente una esposizione qualificata alle polveri di amianto necessaria ai fini della reclamata rivalutazione contributiva, risolvendosi, in ultima analisi, in una generica critica alla mancata ammissione della prova testimoniale.

Ebbene, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, la Corte di merito ha correttamente rilevato che la prova testimoniale non poteva essere ammessa per il principio che nega al teste la possibilità di esprimere valutazioni, posto che i relativi capitoli, così come articolati dalla difesa, tendevano a far acclarare l’avvenuta esposizione del ricorrente a concentrazioni di amianto superiori al limite minimo di legge per un tempo sufficiente al conseguimento dei relativi benefici previdenziali. Inoltre, la stessa Corte ha rilevato che il consulente d’ufficio, pur avendo svolto il calcolo richiesto dalla difesa, era pervenuto al risultato che, comunque, la concentrazione di fibre di amianto era risultata inferiore al valore minimo di legge e che il medesimo aveva tenuto conto anche delle mansioni svolte, così come indicategli dall’appellante.

In definitiva, la motivazione dell’impugnata sentenza è basata sull’esito dell’istruttoria svolta tramite la rinnovata consulenza tecnica d’ufficio, che ha tenuto conto delle osservazioni della difesa, per cui non merita le censure che le vengono genericamente mosse col presente ricorso.

Inoltre, è bene ricordare che “in tema di giudizio di cassazione, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge). Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza. Pertanto, il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di base.” (Cass. Sez. 3 n. 9368 del 21/4/2006; in senso conf. v. anche Cass. sez. lav. n. 15355 del 9/8/04).

Pertanto, il ricorso va rigettato.

Le spese di lite seguono la soccombenza del ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio nella misura di Euro 3200,00, di cui Euro 3000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 14 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 10 aprile 2017

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