Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9149 del 19/05/2020

Cassazione civile sez. I, 19/05/2020, (ud. 28/02/2020, dep. 19/05/2020), n.9149

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15284/2015 proposto da:

S.A., elettivamente domiciliato in Roma, Via Venti

Settembre n. 3, presso lo Studio Sandulli, avvocato Colao Roberta,

rappresentato e difeso dall’avvocato Terracino Claudio, giusta

procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Sanpaolo Invest Società di intermediazione mobiliare S.p.a., in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in Roma, Via Tommaso Salvini n. 2/a, presso lo studio

dell’avvocato Pedretti Luigi, che la rappresenta e difende, giusta

procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

C.B., elettivamente domiciliata in Roma, Viale Marco Polo

n. 88, presso lo studio dell’avvocato Datturi Alessandro,

rappresentata e difesa dall’avvocato Ciullo Massimo, giusta procura

in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1836/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 18/03/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

28/02/2020 dal Cons. Dott. FALABELLA MASSIMO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – E’ impugnata la sentenza della Corte di appello di Roma del 18 marzo 2015 con cui è stato dichiarato inammissibile il gravame proposto da S.A. avverso la pronuncia del Tribunale di Roma che aveva visto soccombere quest’ultimo.

La decisione della Corte di merito, resa nel contraddittorio con San Paolo Invest SIM s.p.a. e C.B., concerne una vicenda che, sulla base di quanto esposto nel ricorso per cassazione, può riassumersi come segue. S. aveva sottoscritto il 27 aprile 2007 un investimento di Euro 50.000,00 su di un prodotto finanziario denominato (OMISSIS) – compatto (OMISSIS) e, successivamente, in data 25 novembre 2008, un contratto di consulenza in materia di investimenti di collocamento con C.B., private banker della banca sunnominata. L’attore non aveva mai avuto contezza delle perdite che avevano colpito il fondo a partire dal 2008, nè aveva mai saputo di operazioni in perdita attuate sul medesimo, da cui era invece derivata una perdita di capitale: del resto, in una mail del 18 gennaio 2011, la promotrice C. aveva dichiarato che il fondo (OMISSIS) risultava “tranquillo” e valeva Euro 22.250,00. Lo stesso S. aveva poi avuto l’opportunità di intraprendere un’attività stagionale in Emilia Romagna e si era quindi risolto a richiedere il disinvestimento del capitale investito: aveva quindi appreso dal promotore che il fondo (OMISSIS) aveva cessato di esistere dagli anni 2008-2009, essendo stato oggetto di operazione di disinvestimento che aveva portato all’integrale perdita del capitale: onde l’importo di Euro 22.346,00, precedentemente rendicontato dalla promotrice, non trovava riscontro. Di qui le domande proposte dall’attore basate, oltre che sulla nullità e sull’annullabilità di non meglio chiariti atti (cfr. ricorso, pag. 4), sulla responsabilità precontrattuale, contrattuale ed extracontrattuale, dei due convenuti: e cioè della Banca San Paolo e della promotrice.

La pronuncia d’inammissibilità dell’appello proposto contro la sentenza del Tribunale, che aveva respinto le domande attrici, si basa su due ordini di rilievi che sono, in sintesi, i seguenti. Per un verso, avendo riguardo a quanto previsto dall’art. 342 c.p.c., nel testo riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, l’atto di appello conterrebbe la trascrizione pressochè integrale della citazione e degli altri atti di causa, compresa la sentenza impugnata, raggiungendo l’estensione di 143 pagine, sicchè esso non si rivelerebbe idoneo allo scopo di circoscrivere, in modo netto e preciso, gli errori in cui sarebbe incorso il giudice di prime cure: risulterebbe in altri termini preclusa l’individuazione delle specifiche violazione di legge e dei vizi nella ricostruzione del fatto che si intendevano addebitare al Tribunale. In secondo luogo, l’atto di gravame presenterebbe carenze avendo anche riguardo al testo previgente dell’art. 342 cit., giacchè non prospetterebbe censure atte a destituire di fondamento la decisione adottata dal primo giudice. Spiega la Corte di appello che il Tribunale aveva basato la propria decisione su due rilievi, entrambi corretti: il cliente non aveva dedotto e provato il danno cagionato da anticipata vendita del (OMISSIS), dovendo tale danno essere parametrato al risultato altrimenti raggiunto nel 2015 (e cioè a scadenza), non all’investimento effettuato nel 2007; la scelta di investire nel (OMISSIS) non poteva considerarsi in sè pregiudizievole e inappropriata, essendo stato lo stesso attore a riferire di una ripresa del rendimento del fondo. Osserva in particolare il giudice di appello, quanto al primo profilo, che della situazione del fondo del 2015 nulla si sapeva e, quanto al secondo profilo, che dalla lettura dell’atto di gravame non riusciva ad evincersi perchè l’investimento relativo al (OMISSIS) fosse non conforme al profilo di rischio del cliente e quali informazioni S. avrebbe voluto ricevere e non aveva ricevuto anche al momento del disinvestimento.

2. – L’impugnazione per cassazione si basa su otto motivi. Resistono con controricorso San Paolo Invest SIM e C.B.. Il ricorrente e la banca hanno depositato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – I motivi di ricorso hanno, in sintesi, il contenuto che segue.

Primo motivo: nullità della sentenza del procedimento nonchè violazione degli artt. 342,360,366,112, 113 e 132 c.p.c., art. 118 disp. att. c.p.c., art. 65 ord. giud., artt. 111 e 24 Cost. e art. 6 CEDU. Avrebbe errato la Corte di Roma nell’assumere la sostanziale identità tra l’atto di appello e il ricorso per cassazione: affermazione, questa, contrastante con la legge e fondata su di una “dissertazione dottrinale” dell’estensore del provvedimento; l’affermazione risulterebbe pure contrastante col diritto costituzionale al giusto processo e col diritto di difesa, fondandosi, oltretutto, sul richiamo a una relazione del Primo presidente della Corte di cassazione che riguardava il giudizio di legittimità e che quindi non poteva ritenersi pertinente.

Secondo motivo: nullità della sentenza e del procedimento, nonchè violazione degli artt. 342,348 bis, 112, 113 e 132 c.p.c., art. 118 disp. att. c.p.c.. Viene dedotto che la Corte di merito aveva statuito l’inammissibilità dell’impugnazione, ritenendo l’atto d’appello privo di ragionevole probabilità di accoglimento, onde avrebbe dovuto fare applicazione dell’art. 348 bis c.p.c.: il che avrebbe importato la necessità di provvedere con ordinanza in prima udienza, non potendosi giustificare il rinvio che invece si era attuato per consentire il passaggio del giudizio alla fase decisoria. Rileva poi il ricorrente che nel proprio atto d’appello aveva specificamente indicato la parte della sentenza che intendeva appellare, gli errori commessi dal giudice di prima istanza e la diversa soluzione giuridica che avrebbe dovuto essere adottata. Col motivo si contesta inoltre il rilievo per cui nell’atto di appello sarebbero stati riprodotti integralmente tutti gli atti di causa e, nella sua integrità, la sentenza di primo grado.

Terzo motivo: nullità della sentenza e del procedimento, nonchè violazione degli artt. 342, 348 bis e 112, c.p.c., art. 11 preleggi, artt. 111 e 24 Cost. e art. 6 CEDU. La censura investe l’affermazione secondo cui l’atto di appello risulterebbe inammissibile anche in base al vecchio testo dell’art. 342 c.p.c., “attesa la palese inidoneità delle censure a destituire di fondamento la decisione adottata dal primo giudice”. Viene osservato che il giudice non può applicare alla fattispecie una norma non più in vigore e che se lo stesso avesse inteso valorizzare il profilo della non ragionevole probabilità di accoglimento del gravame avrebbe dovuto prendere in considerazione l’art. 348 bis c.p.c.. Osserva inoltre il ricorrente che la sentenza evidenzierebbe un vizio di omessa pronuncia: infatti, la Corte di Roma non aveva reso una pronuncia di merito a cognizione piena ma, dopo aver rilevato l’inammissibilità, aveva statuito, in via sommaria, nel senso della manifesta infondatezza dell’impugnazione.

Quarto motivo: nullità della sentenza e del procedimento, nonchè violazione degli artt. 342,346,112,113,115, 116 e 132 c.p.c., art. 11 preleggi, D.Lgs. n. 164 del 2007, artt. 111 e 24 Cost. e art. 6 CEDU. Viene denunciata la ricostruzione operata dalla Corte capitolina quanto al contenuto della domanda attrice, avendo specificamente riguardo alla individuazione dei temi di lite, che erano stati riassunti dal giudice di appello nei termini, rispettivamente, di mancata informativa della rischiosità dell’investimento, inadatto al profilo di rischio dell’attore, e di alienazione, ad insaputa dello stesso, delle quote del fondo, in perdita, “quantunque l’investimento fosse programmato al 2015 e di conseguenza all’epoca della alienazione l’investimento fosse ancora in corso con possibilità di miglioramento”. Il ricorrente deduce che il giudice distrettuale avrebbe erroneamente apprezzato il contenuto della domanda attrice, pretermettendo, tra l’altro, l’esame delle doglianze correlate alla condotta della promotrice che, con riferimento all’ultima fase del rapporto, aveva fornito all’investitore informazioni false e fuorvianti. Nel corpo del motivo è inoltre sottolineato come, a differenza di quanto ritenuto nella sentenza impugnata, il quadro normativo di riferimento fosse costituito dalla normativa comunitaria recepita con il D.Lgs. n. 164 del 2007.

Quinto motivo: nullità della sentenza e del procedimento, nonchè violazione degli artt. 342,346,112,113,115, 116 e 132 c.p.c., art. 11 preleggi, D.Lgs. n. 164 del 2007, art. 215 c.p.c., art. 2712 c.c., artt. 111 e 24 Cost. e art. 6 CEDU. Il ricorrente torna qui a dolersi del mancato esame, da parte della Corte territoriale, della terza fase del rapporto, contrassegnata dalle condotte decettive poste in atto dalla promotrice finanziaria e dell’erronea applicazione, da parte del giudice di appello, di una normativa sostanziale diversa da quella applicabile ratione temporis.

Sesto motivo: nullità della sentenza e del procedimento, nonchè violazione degli artt. 342,112,113, 115 e 116 c.p.c., D.Lgs. n. 164 del 2007, art. 1223 c.c., artt. 111 e 24 Cost. e art. 6 CEDU. La doglianza attiene all’accertamento del danno e si fonda sul rilievo per cui l’istante aveva delineato il pregiudizio occorso non solo per la perdita di un’opportunità imprenditoriale, ma anche per il lavoro perso in conseguenza delle informazioni veritiere e fuorvianti della promotrice.

Settimo motivo: nullità della sentenza e del procedimento, nonchè violazione degli artt. 342, 112 e 132 c.p.c., D.Lgs. n. 164 del 2007, artt. 111 e 24 Cost. e art. 6 CEDU. Viene osservato che la vendita anticipata del titolo non poteva considerarsi l’unico profilo di illegittimità dell’operazione, essendo stato dedotto che l’operazione risultava inadeguata all’obiettivo del prodotto e al profilo dell’attore. S. – viene dedotto – aveva lamentato distinte violazioni di legge e non solo l’anticipato disinvestimento, come ritenuto dalla Corte territoriale. E’ inoltre rilevato che la sentenza impugnata avrebbe impropriamente modificato, senza riformarla, la decisione di primo grado: la Corte distrettuale aveva infatti assunto che sull’investitore gravasse l’onere di indicare cosa l’intermediario, al momento dei fatti, gli avrebbe dovuto riferire e non gli aveva invece riferito.

Ottavo motivo: nullità della sentenza e del procedimento, nonchè violazione degli artt. 342,112,132 c.p.c., D.M. 10 marzo 2014, n. 55, artt. 1, 4 e 5, artt. 111 e 24 Cost. e art. 6 CEDU. Con riferimento alla statuizione delle spese vengono prospettate più censure: l’aver basato la decisione sulla somma richiesta in appello, laddove avrebbe dovuto farsi riferimento al valore effettivo della controversia; l’aver indicato quale importo domandato in fase di gravame una somma neanche corrispondente a quella effettivamente richiesta; l’essere stata la liquidazione del compenso non improntata al principio di proporzionalità; l’avere la Corte applicato il massimo tariffario, nonostante in sentenza si fosse rilevato che la vicenda risultava essere modesta; l’essersi proceduto alla liquidazione dei compensi per la fase decisoria, nonostante la Corte di appello avesse inteso definire il giudizio a norma dell’art. 348 bis c.p.c.; l’aver la Corte impropriamente ritenuto che l’estensione dell’atto d’appello giustificasse l’applicazione del massimo tariffario.

2. – I primi due motivi possono esaminarsi congiuntamente, in quanto investono entrambi la parte della pronuncia impugnata con cui l’appello è stato dichiarato inammissibile a norma del vigente art. 342 c.p.c. (pagg. da 7 a 12): per la verità, il secondo mezzo contiene pure una doglianza che è riferita alla seconda parte della decisione (quella, svolta da pag. 12 a pag. 16, e incentrata sulla “palese inidoneità delle censure a destituire di fondamento la decisione adottata dal primo giudice”); per ragioni di opportunità espositiva converrà tuttavia trattare insieme i due motivi, accantonando, per ora, la doglianza da ultimo indicata.

I motivi indicati sono inammissibili.

Essi mostrano di non cogliere appieno la ratio decidendi della statuizione di inammissibilità che qui rileva, la quale è chiaramente evincibile da quanto la Corte di appello ha esposto a pag. 12 della sentenza. Ivi si legge, come in precedenza accennato: “(L)’atto di citazione in appello contiene la trascrizione pressochè integrale dell’atto di citazione, di altri atti di causa e, brano dopo brano, della sentenza impugnata, mentre non consente di individuare quali specifiche violazioni di legge siano stati addebitate al primo giudice e quali errori nella ricostruzione del fatto (…) siano state eventualmente poste in essere”. Il ricorrente trascura di considerare nella sua piena rilevanza questo passaggio argomentativo e si sofferma su profili – quali il contestato accostamento del giudizio d’appello riformato a quello di cassazione – che perdono di significato a fronte della affermazione sopra trascritta.

Occorre infatti considerare che quanto ritenuto dalla Corte di merito è sostanzialmente conforme alle precisazioni formulate, in tempi abbastanza recenti, dalle Sezioni Unite sulla reale portata del novellato art. 342 c.p.c.. Tale norma – è stato spiegato – va interpretata nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza tuttavia che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (Cass. Sez. U. 16 novembre 2017, n. 27199). In particolare, la disposizione in parola esige che “che le questioni e i punti contestati della sentenza impugnata siano chiaramente enucleati e con essi le relative doglianze; per cui, se il nodo critico è nella ricostruzione del fatto, esso deve essere indicato con la necessaria chiarezza, così come l’eventuale violazione di legge”; in tal senso, “in nome del criterio della razionalizzazione del processo civile, che è in funzione del rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata”, si richiede “che la parte appellante ponga il giudice superiore in condizione di comprendere con chiarezza qual è il contenuto della censura proposta, dimostrando di aver compreso le ragioni del primo giudice e indicando il perchè queste siano censurabili” (sent. cit., in motivazione, par. 5.1).

Emerge chiaramente, allora, che la Corte di appello, nella sentenza impugnata, ha richiamato, sul piano astratto, un principio di diritto del tutto corretto.

E’ vero che ciò non basta per affermare che la statuizione di inammissibilità sia immune da censure, giacchè occorre comunque verificare se di tale principio sia stata fatta un’appropriata applicazione in concreto.

E’ altrettanto vero, però, che le doglianze levate da S. all’indirizzo della sentenza di primo grado, e concentrate all’interno del secondo motivo del ricorso per cassazione (ove si è dedotto che nell’atto di appello lo stesso odierno istante “ha indicato la parte della sentenza che si intendeva appellare e quindi la ha riportata” e “ha indicato gli errori commessi dal giudice e la diversa soluzione giuridica con la rilevanza della censura”) sono riportate in modo del tutto generico. Basti rilevare: che i motivi svolti all’interno del corposo atto di appello sono riassunti in poco più di una pagina del ricorso per cassazione (pag. 24 s.); che manca una trascrizione degli stralci dell’atto di gravame atti a sconfessare l’affermazione, contenuta nella pronuncia impugnata, per cui tale atto “non circoscrive gli errores in modo netto e preciso”; che il compendio di cui si è detto è finanche mancante della semplice indicazione delle pagine della citazione di appello contenenti il nucleo delle singole censure e non reca, dunque, alcun ragguaglio circa la precisa localizzazione delle singole questioni poste al giudice di secondo grado.

Va qui considerato che la deduzione con il ricorso per cassazione di errores in procedendo implica che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” (Cass. Sez. U. 25 luglio 2019, n. 20181): la deduzione con il ricorso per cassazione di errores in procedendo, in relazione ai quali la Corte è anche giudice del fatto, potendo accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito, non esclude, infatti, che preliminare ad ogni altro esame sia quello concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando ne sia stata positivamente accertata l’ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali (così Cass. 13 marzo 2018, n. 6014: cfr. pure: Cass. 29 settembre 2017, n. 22880; Cass. 8 giugno 2016, n. 11738; Cass. 30 settembre 2015, n. 19410). In particolare, ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (Cass. 29 settembre 2017, n. 22880 cit.; Cass. 20 settembre 2006, n. 20405).

Deve concludersi, dunque, nel senso che dichiarata da parte del giudice di appello l’inammissibilità di un atto di gravame per la rilevata impossibilità di enucleare con chiarezza, all’interno di esso, le censure svolte, è onere del ricorrente per cassazione porre la Corte nella condizioni di avere puntuale contezza di quegli elementi che consentano di formulare il richiesto giudizio circa la comprensibilità dei singoli motivi, riproducendo le parti dell’atto necessarie allo scopo e fornendo tutte le ulteriori indicazioni funzionali a quel risultato.

Quanto osservato è assorbente: sicchè le ulteriori deduzioni svolte dall’odierno istante – come quella basata sulla ripresa, da parte del collegio decidente, di tesi dottrinali (ripresa peraltro non accompagnata da alcuna citazione di autori giuridici: per il che non si comprende la denunciata violazione dell’art. 118 disp. att. c.p.c.) – risultano prive di decisività.

3. – I motivi dal terzo al settimo, al pari della censura svolta nel secondo motivo, e relativa alla mancata applicazione dell’art. 348 bis c.p.c., sulla manifesta infondatezza dell’appello, sono tutti inammissibili. Essi, infatti, attengono a una ratio decidendi ulteriore a quella di cui si è in precedenza detto, la quale, da sola, sorregge la statuizione resa dal giudice del gravame. Il mancato accoglimento di tale ratio decidendi rende dunque inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione (Cass. 18 aprile 2017, n. 9752; Cass. 14 febbraio 2012, n. 2108).

4. – L’ottavo motivo è infine infondato.

Lo è anzitutto con riguardo al denunciato mancato apprezzamento del valore effettivo della controversia, giacchè è il D.M. 10 marzo 2014, n. 55, stesso art. 5, a prevedere che tale parametro entra in gioco quando risulta “manifestamente diverso da quello presunto anche in relazione agli interessi perseguiti dalle parti”: il ricorrente nemmeno spiega, del resto, la ragione per cui, a suo avviso, ricorrerebbe una tale evenienza.

Non si coglie, poi, la decisività del rilievo per cui la domanda attrice avrebbe avuto un minore di Euro 223.304,00, indicata dalla Corte di merito (e pari, invece, a un importo comunque non inferiore a Euro 75.298,00). Infatti, anche a voler prescindere dal rilievo per cui, ai fini del rimborso delle spese di lite a carico della parte soccombente, il valore della controversia va fissato sulla base del criterio del disputatum (ossia di quanto richiesto nell’atto introduttivo del giudizio ovvero nell’atto di impugnazione parziale della sentenza) (Cass. Sez. U. 11 settembre 2007, n. 19014) – onde occorreva che l’istante svolgesse la censura avendo riguardo alla domanda proposta in primo grado (ciò che non ha fatto) – lo scaglione di applicarsi è il medesimo, sia che si consideri quanto affermato dalla Corte di appello, sia che si attribuisca rilievo alla deduzione del ricorrente.

Per quanto concerne la liquidazione, va osservato che in base alle tariffe approvate con il D.M. n. 140 del 2012, rileva unicamente che la liquidazione sia contenuta entro i limiti, massimo e minimo (Cass. 12 giugno 2018, n. 15315; Cass. 16 settembre 2015, n. 18167). E’ da osservare, per completezza, che la Corte di appello ha pure dato conto del perchè ha liquidato le spese in ragione del massimo tariffario: ha infatti valorizzato l’impegno richiesto per rispondere all’atto di appello (che in altra parte della sentenza ha rilevato essere particolarmente lungo: evenienza, questa, che nulla ha a che vedere con l’asserito carattere punitivo della decisione, dovendo piuttosto correlarsi al lavoro che inevitabilmente comporta l’approntamento della resistenza in giudizio a un atto di rilevanti dimensioni).

Palesemente destituita di fondamento è, da ultimo, la censura incentrata sulla mancanza della fase decisoria: dato, questo, che il ricorrente ricava dalla considerazione per cui la Corte di appello avrebbe dovuto pronunciare in prima udienza l’ordinanza ex art. 348 bis c.p.c.. E’ un dato di fatto inconfutabile che tale provvedimento non sia stato mai emesso, per cui, a monte di ogni considerazione quanto alla fondatezza, in diritto, dell’assunto per cui la pronuncia del nominato provvedimento escluderebbe l’esistenza di una fase decisoria, è certo che con riguardo alla fase del giudizio di cui al cit. D.M. n. 55 del 2014, art. 4, comma 5, lett. d), che ha avuto luogo, compete il compenso.

5. – Il ricorso è dunque respinto.

6. – Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore di San Paolo Invest e di C.B., delle spese del giudizio di legittimità, che liquida per la prima in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge e per la seconda in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 28 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 maggio 2020

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