Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9144 del 02/04/2021

Cassazione civile sez. trib., 02/04/2021, (ud. 19/01/2021, dep. 02/04/2021), n.9144

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – rel. Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

Dott. ARMONE Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 20818/2017 R.G. proposto da:

ST MALTA LIMITED, in persona del suo legale rappresentante

pro tempore rappresentata e difesa giusta delega in atti dall’avv.

Daniela Agnello e con domicilio eletto in Roma presso lo studio

dell’avv. Roberta Feliziani in via Crescenzio n. 269;

– ricorrente –

Contro

AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI, in persona del Direttore pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, con domicilio eletto in Roma, via Dei Portoghesi, n. 12,

presso l’Avvocatura Generale dello Stato;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Toscana n. 407/30/17 depositata il 09/02/2017, non notificata;

Udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del

19/01/2021 dal Consigliere Roberto Succio.

 

Fatto

RILEVATO

che:

– con la sentenza impugnata la CTR fiorentina rigettava l’appello della contribuente e pertanto confermava la sentenza di primo grado che aveva dichiarata la legittimità dell’atto impugnato, avviso di accertamento relativo al mancato assolvimento dell’imposta unica su concorsi pronostici, oltre a sanzioni ed interessi, per operazioni svoltesi nell’anno 2009;

– ricorre a questa Corte ST MALTA con atto affidato a sette motivi; resiste con controricorso l’Amministrazione Finanziaria; la ricorrente ha altresì depositato memoria in data 9/12/2020 con la quale chiede tra l’altro trattarsi la controversia in udienza pubblica.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– preliminarmente, l’istanza di trattazione della causa in pubblica udienza va disattesa;

– in adesione all’indirizzo espresso dalle sezioni unite di questa Corte, il collegio giudicante ben può escludere, nell’esercizio di una valutazione discrezionale, la ricorrenza dei presupposti della trattazione in pubblica udienza, in ragione del carattere consolidato dei principi di diritto da applicare nel caso di specie (Cass., sez. un., 5 giugno 2018, n. 14437), e allorquando non si verta in ipotesi di decisioni aventi rilevanza nomofilattica (Cass., sez. un., 23 aprile 2020, n. 8093). In particolare, la sede dell’adunanza camerale non è incompatibile, di per sè, anche con la statuizione su questioni nuove, soprattutto se non oggettivamente inedite e già assistite da un consolidato orientamento, cui la Corte fornisce ii proprio contributo;

– nel caso in questione, il tema oggetto del giudizio è nuovo nella giurisprudenza di questa Corte, ma non è inedito, in quanto compiutamente affrontato in tutti i suoi risvolti da un lato dalla Corte costituzionale (con la sentenza 14 febbraio 2018, n. 27) e dall’altro da quella unionale (con la sentenza in causa C-788/18, relativa giustappunto alla St Malta Limited); e i principi da quelle Corte stabiliti risultano ampiamente e diffusamente recepiti pure dalla giurisprudenza di merito. Così ampie e convergenti affermazioni inducono quindi a ritenere preferibile la scelta del procedimento camerale, funzionale alla decisione di questioni di diritto di rapida trattazione non caratterizzate da peculiare complessità (sulla medesima falsariga, si veda Cass. 20 novembre 2020, n. 26480);

– nè la giurisprudenza penale di questa Corte richiamata nell’istanza di rimessione alla pubblica udienza è idonea a incrinare i principi in questione, per le ragioni di seguito esplicate. Infine, quanto al profilo delle esigenze difensive va anzitutto nuovamente sottolineato che, in conformità alla giurisprudenza sovranazionale, il principio di pubblicità dell’udienza, pur previsto dall’art. 6 CEDU e avente rilievo costituzionale, non riveste carattere assoluto e vi si può derogare in presenza di “particolari ragioni giustificative”, ove “obiettive e razionali” (in particolare, Corte Cost. 11 marzo 2011, n. 80). Ad ogni modo, queste esigenze sono anche in concreto presidiate, perchè le parti hanno illustrato la propria rispettiva posizione in esito alle pronunce della Corte costituzionale e della Corte di giustizia depositando osservazioni scritte;

– con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, nonchè degli artt. 24 e 97 Cost. per non avere la CTR ritenuto illegittimo l’avviso di accertamento in quanto non tradotto, nella copia notificata alla ricorrente, in lingua inglese;

– il motivo è infondato;

– infatti, risulta dalla sentenza impugnata come parte ricorrente, ancorchè soggetto non residente privo di stabile organizzazione in Italia (per quanto nulla si dica in atto in ordine alla conoscenza o meno della lingua italiana da parte dei propri amministratori, circostanza che andava quantomeno dedotta dal contribuente), abbia in concreto nei gradi del merito svolte le sue articolate e valorose difese, contestando la pretesa tributaria azionata con l’atto impugnato;

– con ciò, parte ricorrente ha dimostrato di avere adeguatamente compreso le ragioni di fatto e di diritto poste alla base dell’atto impugnato, le cui motivazioni sono state prima comprese e poi contestate di fronte ai precedenti giudici;

– questa Corte, in argomento, ha già ritenuto in fattispecie analoga il cui principio trova applicazione anche nel caso per cui è processo (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 26407 del 19/10/2018) che il vizio dell’atto impositivo emesso in lingua italiana nei confronti di soggetto appartenente alla minoranza linguistica tedesca privo dell’informazione sul diritto di sollevare eccezione di nullità per la mancata traduzione ai sensi del D.P.R. n. 574 del 1988, art. 8, è in concreto sanato ove il destinatario abbia comunque promosso, in sede amministrativa o giurisdizionale, un procedimento volto alla difesa dei propri diritti;

– il secondo motivo si incentra sulla violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, come interpretato dalla Legge di stabilità 2011, art. 1, comma 66, lett. b), in relazione con art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR erroneamente ritenuto il CTD soggetto passivo del tributo;

– il terzo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 288 del 1998, art. 1, comma 2, lett. b) e degli artt. 1326, 1327,1336 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR errato nel ravvisare in capo al CTR il presupposto territoriale del tributo;

– il quarto motivo denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 56 TFUE e dei principi del diritto dell’Unione Europea di parità di trattamento e non discriminazione, con riferimento al D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, come interpretato dalla Legge di stabilità 2011, art. 1, comma 66, nonchè la violazione del principio di legittimo affidamento in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;

– il sesto motivo censura, sotto un primo aspetto, la pronuncia gravata per violazione e/o falsa applicazione dei principi di eguaglianza e ragionevolezza delle leggi di cui all’art. 3 Cost. con riferimento al D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3 e della Legge di stabilità 2011, art. 1, comma 64 e comma 66, lett. b), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; lo stesso denuncia anche, sotto un secondo profilo, la violazione del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. e all’art. 3 Cost. con riferimento al D.Lgs. n. 504 del 1998, artt. 1 e 3, al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 64, comma 3 ed alla Legge di stabilità 2011, art. 1, comma 66, lett. b), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;

– i sopradetti motivi possono trattarsi congiuntamente, in quanto connessi tra di loro e tutti diretti a colpire aspetti tra di loro strettamente collegati del tributo in questione;

– anche a prescindere dai profili di inammissibilità di quelle doglianze che sono in concreto articolate sulla posizione del CTD anzichè su quella del bookmaker, i motivi sono infondati;

– va premesso come sin dalle origini il tributo sui giochi e le scommesse, che è frutto del percorso evolutivo iniziato con la tassa di lotteria (D.Lgs. 14 aprile 1948, n. 496, art. 6), è stato pensato in relazione alle attività di gioco: già nella relazione ministeriale al disegno di legge istitutivo dell’imposta unica n. 2033 presentato il 15 giugno 1951, si leggeva, quanto ai giochi riservati al CONI e all’UNIRE, che questi “…debbono allo Stato, per l’esercizio delle attività di giuoco predette, la corresponsione di una tassa di lotteria…”. Sicchè il presupposto dell’imposizione non è stato correlato alla giocata in sè, ma alla prestazione di un servizio, che è, appunto, il servizio di gioco. Il prelievo colpisce dunque il prodotto che è offerto al consumatore tramite l’organizzazione dell’attività, sotto forma di servizio. E proprio queste ragioni di ordine storico e sistematico innervano il quadro normativo odierno, che è così articolato:

– conformemente al D.Lgs. 23 dicembre 1998, n. 504, art. 1, volto al riordino dell’imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse, a norma della L. 3 agosto 1998, n. 288, art. 1, comma 2, l’imposta unica è dovuta per i concorsi pronostici e le scommesse di qualunque tipo, relativi a qualunque evento, anche se svolto all’estero; il suddetto D.Lgs. n. 504 del 1988, art. 3, intitolato ai soggetti passivi, stabilisce che “Soggetti passivi dell’imposta unica sono coloro i quali gestiscono, anche in concessione, i concorsi pronostici e le scommesse”;

– a norma della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, “(…) a) (…) l’imposta unica (…) è comunque dovuta ancorchè la raccolta del gioco, compresa quella a distanza, avvenga in assenza ovvero in caso di inefficacia della concessione rilasciata dal ministero dell’economia e delle finanze amministrazione autonoma dei monopoli di Stato;

b) il D.Lgs. (n. 504 del 1998), art. 3, si interpreta nel senso che soggetto passivo d’imposta è chiunque, ancorchè in assenza o in caso di inefficacia della concessione rilasciata dal ministero dell’economia e delle finanze -amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, gestisce con qualunque mezzo, anche telematico, per conto proprio o di terzi, anche ubicati all’estero, concorsi pronostici o scommesse di qualsiasi genere. Se l’attività è esercitata per conto di terzi, il soggetto per conto del quale l’attività è esercitata è obbligato solidalmente al pagamento dell’imposta e delle relative sanzioni”;

– va notato poi che il D.M. n. economia e finanze 1 marzo 2006, n. 111, art. 16, prevede che il concessionario effettui il pagamento delle somme dovute a titolo di imposta unica;

– inoltre, ai sensi della L. 23 dicembre 2014, n. 190, art. 1, comma 644, lett. g), l’imposta unica si applica “su di un imponibile forfetario coincidente con il triplo della media della raccolta effettuata nella provincia ove è ubicato l’esercizio o il punto di raccolta, desunta dai dati registrati nel totalizzatore nazionale per il periodo d’imposta antecedente a quello di riferimento”;

– questo quadro normativo è stato sottoposto all’esame e della Corte costituzionale e della Corte di giustizia, che ne hanno compiutamente esaminato le relazioni rispettivamente con la Costituzione e col diritto unionale prospettate nell’odierno ricorso; il che esclude la necessità della trattazione relativa in pubblica udienza, poichè non residuano profili di particolare rilevanza. Quanto all’ambito soggettivo dell’imposta, affrontato dal quarto motivo di ricorso, la Corte costituzionale ha dato atto dell’incertezza correlata all’interpretazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, per il periodo antecedente alla disposizione interpretativa del 2010 (nel senso che era incerto se la pretesa impositiva si potesse rivolgere anche nei confronti dei soggetti che operavano al di fuori del sistema concessorio); ma ha riconosciuto che il legislatore con la L. n. 220 del 2010 da un canto ha stabilito che l’imposta è dovuta anche nel caso di scommesse raccolte al di fuori del sistema concessorio e, art. 1, comma 66, d’altro canto, ha esplicitato l’obbligo delle ricevitorie operanti per conto di bookmakers privi di concessione al versamento del tributo e delle relative sanzioni. A questo riguardo ha escluso che l’equiparazione, ai fini tributari, del “gestore per conto terzi” (ossia del titolare di ricevitoria) al “gestore per conto proprio” (ossia al bookmaker) sia irragionevole. Entrambi i soggetti, difatti, ha sottolineato quella Corte, partecipano, sia pure su piani diversi e secondo diverse modalità operative, allo svolgimento dell’attività di “organizzazione ed esercizio” delle scommesse soggetta a imposizione. In particolare, ha rimarcato, il titolare della ricevitoria, benchè non partecipi direttamente al rischio connaturato al contratto di scommessa, svolge comunque un’attività di gestione, perchè assicura la disponibilità di locali idonei e la ricezione della proposta, si occupa della trasmissione al bookmaker dell’accettazione della scommessa, dell’incasso e del trasferimento delle somme giocate, nonchè del pagamento delle vincite secondo le procedure e le istruzioni fornite dal bookmaker. Sicchè, ha specificato, l’attività gestoria che costituisce il presupposto dell’imposizione va riferita alla raccolta delle scommesse, il volume delle quali determina anche la provvigione della ricevitoria e per conseguenza il suo stesso rischio imprenditoriale. Nè, ha aggiunto la Corte costituzionale, la scelta di assoggettare all’imposta i titolari delle ricevitorie operanti per conto di soggetti privi di concessione viola il principio di capacità contributiva, nei limiti in cui il rapporto tra il titolare della ricevitoria che agisce per conto di terzi e il bookmaker sia disciplinato da un contratto che regoli anche le commissioni dovute al titolare della ricevitoria per il servizio prestato. Ciò perchè attraverso la regolazione delle commissioni il titolare della ricevitoria ha la possibilità di trasferire il carico tributario sul bookmaker per conto del quale opera. Di qui l’infondatezza dell’ottavo motivo, poichè la rivalsa svolge funzione applicativa del principio di capacità contributiva, poichè redistribuisce tra i coobbligati, bookmaker e ricevitoria, che hanno comunque concorso, sia pure in vario modo, alla realizzazione del presupposto impositivo, il carico fiscale in relazione alla partecipazione di ognuno a tale realizzazione. In ogni caso, poi, della sussistenza (evidente in questo caso) di autonomi rapporti obbligatori – che ai fini tributari sono avvinti dal nesso di solidarietà per conseguenza paritetica, e non già dipendente – non dubita, d’altronde, la giurisprudenza civile di questa Corte, la quale, sia pure con riguardo al gioco del lotto, ha chiarito, appunto, che sono due i rapporti obbligatori, quello concluso tra lo scommettitore e il raccoglitore e quello che si instaura tra lo scommettitore ed il gestore (Cass. 27 luglio 2015, n. 15731). E la stessa giurisprudenza penale citata in memoria dalla contribuente (ossia Cass. 9 luglio 2020, n. 25439) evidenzia la rilevanza dei ruoli del ricevitore appartenente alla rete distributiva del bookmaker (punto 5), consistente nella “…raccolta e trasmissione delle scommesse per conto di quest’ultimo, rilasciando le ricevute emesse dal terminale di gioco – con le annesse attività di incasso delle poste e di pagamento delle eventuali vincite -…”. Per conseguenza la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3 e della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b), nella sola parte in cui prevedono che, nelle annualità d’imposta precedenti al 2011, siano assoggettate all’imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse le ricevitorie operanti per conto di soggetti privi di concessione. In quel periodo non si può difatti procedere alla traslazione dell’imposta, perchè l’entità delle commissioni già pattuite fra ricevitorie e bookmaker si era già cristallizzata sulla base del quadro precedente alla L. n. 220 del 2010 (Corte Cost. 23 gennaio 2018, n. 27). Quella Corte ha anche chiarito (punto 4.5) che, in mancanza di regolazione degli effetti transitori e in considerazione della natura interpretativa della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b), la disposizione va applicata anche ai rapporti negoziali perfezionatisi prima della sua entrata in vigore. Ne consegue anzitutto che per le annualità d’imposta antecedenti al 2011 non rispondono le ricevitorie, ma rispondono i bookmaker, con o senza concessione; qui non è peraltro oggetto di ricorso la posizione del CTD. Per il resto, la censura è infondata. In particolare:

– è infondato il secondo motivo di ricorso, col quale si assume che la funzione gestoria postuli l’assunzione del rischio d’impresa, l’esercizio della funzione decisionale e organizzatoria in ordine alla fissazione degli eventi oggetto di scommessa, delle quote e dei criteri di accettazione e la titolarità del rapporto giuridico di scommessa con lo scommettitore, in base alle considerazioni che precedono in ordine all’accezione di gestione del ricevitore, come illustrata da Corte Cost. n. 27/18;

– è infondato il terzo motivo, col quale si fa leva, in relazione al ricevitore, sulla conclusione del contratto di scommessa, perchè il fatto imponibile è la prestazione di servizi consistente nell’organizzazione dèl gioco da parte del ricevitore e nella raccolta delle scommesse, che consiste, in relazione a ciascun scommettitore, nella valida registrazione della scommessa, documentata dalla consegna allo scommettitore della relativa ricevuta (così Cass. n. 15731/15, cit.); attività, queste, tutte svolte in Italia;

– è infondato il quarto motivo di ricorso, che denuncia profili di censura riguardanti frizioni col diritto unionale; qui l’infondatezza emerge dalla giurisprudenza della CGUE. Al riguardo, giova premettere che le imposte sui giochi d’azzardo non hanno natura armonizzata; sicchè i giochi d’azzardo rilevano, ai fini del diritto sovraordinato, in relazione alle norme concernenti la libera prestazione di servizi presidiata dall’art. 56 TFUE (Corte giust. 26 febbraio 2020, causa C-788/18, punto 17). Inoltre, nel settore dei giochi d’azzardo con poste in danaro, secondo costante giurisprudenza della Corte di Giustizia, gli obiettivi di tutela dei consumatori, di prevenzione dell’incitamento a una spesa eccessiva collegata al gioco, nonchè di prevenzione di turbative dell’ordine sociale in generale costituiscono motivi imperativi d’interesse generale atti a giustificare restrizioni alla libera prestazione di servizi: per conseguenza, in assenza di un’armonizzazione unionale della normativa sui giochi d’azzardo, ogni Stato membro ha il potere di valutare, alla luce della propria scala di valori, le esigenze che la tutela degli interessi in questione implica, a condizione che le restrizioni non minino i requisiti di proporzionalità (Corte giust. 24 ottobre 2013, causa C-440/12, punto 47; 8 settembre 2009, causa C-42/07). Non solo: gli Stati membri non hanno l’obbligo di adeguare il proprio sistema fiscale ai vari sistemi di tassazione degli altri Stati membri, al fine di eliminare la doppia imposizione che risulta dal parallelo esercizio della rispettiva competenza fiscale (Corte giust. in causa C-788/18, cit., punto 23; per analogia, Corte giust. 1 dicembre 2011, causa C-253/09, punto 83); in questo contesto la normativa italiana, si anticipava, ha superato il vaglio della giurisprudenza unionale. La Corte di giustizia ha escluso qualsivoglia discriminazione tra bookmakers nazionali e bookmakers esteri, perchè l’imposta unica si applica a tutti gli operatori che gestiscono scommesse raccolte sul territorio italiano, senza distinzione alcuna in funzione del luogo in cui essi sono stabiliti (punto 21 di Corte giust. in causa C-788/18), di modo che la normativa italiana “non appare atta a vietare, ostacolare o rendere meno attraenti le attività di una società, quale la Stanleybet Malta, nello Stato membro interessato”. E ancora, ha sottolineato quella Corte, la situazione di un centro di trasmissione dati che raccoglie scommesse per conto di una società che ha sede in un altro Stato membro non è analoga a quella degli operatori nazionali: di qui l’esclusione di ogni restrizione discriminatoria della ncirmativa che esclude che i centri di trasmissione dati che agiscono per conto degli operatori di scommesse nazionali siano soggetti al pagamento in solido dell’imposta;

– è pure infondato il sesto motivo, nel suo profilo in cui si sostiene che sia compatibile col principio di capacità contributiva soltanto un meccanismo d’imposizione che consenta di far gravare sui soli scommettitori l’onere del tributo, giacchè è, invece, il meccanismo di traslazione dell’imposta tra bookmaker e ricevitore a garantire l’osservanza dei principi in questione;

– analogamente è infondato il sèsto motivo, nell’autonomo e ulteriore profilo (sia pura dedotto unitamente con il precedente) col quale si fa leva sui principi di uguaglianza e di ragionevolezza delle leggi, già esaminati da Corte Cost. n. 27/18 che ne ha esclusa in concreto la violazione nella fattispecie in esame;

– in ultimo, alla luce delle sopraesposte considerazioni e statuizioni risulta assorbito l’ulteriore profilo del sesto motivo di ricorso, col quale si prospetta l’incompatibilità dell’interpretazione retroattiva della norma interpretativa contenuta nella legge di stabilità per il 2011 con i principi dell’equo processo stabiliti dall’art. 6 CEDU, e con il principio di cui all’art. 117 Cost., ancora in base alla decisione di Corte Cost. n. 27/18 e alle considerazioni che la sorreggono;

– il quinto motivo di ricorso si incentra sulla violazione e falsa applicazione della Dir. 2006/112 CE, art. 401, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non avere la CTR disapplicato la normativa di cui al D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 401, in ragione della sua contrarietà al divieto di mantenere o introdurre imposte sul volume d’affari diverse dall’IVA, tributo armonizzato;

– anche questo motivo non ha fondamento;

– come correttamente osservato in controricorso (pag. 66 e 67) il tributo che qui rileva è differente da una imposta sulla cifra di affari per plurime ragioni: riguarda unicamente operazioni relative all’esercizio delle scommesse, irrilevanti a fini IVA; non tiene conto del valore aggiunto di ciascuna, difettando nel sistema il meccanismo della detrazione IVA e applicandosi il tributo all’importo scommesso; è calcolata senza alcun riconoscimento di deduzione degli acquisti di beni e servizi inerenti effettuati nel periodo in cui sono poste in essere le operazioni di scommessa;

– in tal senso non rilevano quindi i soli fatti consistenti nella proporzionalità, nell’esser riscossa a ogni fase e nella sua traslazione in capo al consumatore, evidenziati in ricorso, anche perchè (come con evidente contraddizione logica e giuridica si ammette proprio in ricorso per cassazione a pag. 83) proprio la disciplina IVA che si cita da parte del ricorrente, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 2, proclama esenti dal tributo armonizzato le operazioni in parola con ciò evitando il concorrere di due imposte sul medesimo volume d’affari;

– e comunque, effetto del tutto risolutivo e dirimente ha sul punto, il chiaro dictum del Giudice Unionale (CGUE, sent. n. 24 ottobre 2013 in causa n. C-440/2012), Metropol Spielstàtten Unternehmergesellschaft (haftungsbeschrànkt) secondo il quale “in forza della direttiva IVA, art. 401, “le disposizioni di (tale) direttiva non vietano ad uno Stato membro di mantenere o introdurre imposte (…) sui giochi e sulle scommesse, (…) e qualsiasi imposta, diritto o tassa che non abbia il carattere di imposta sul volume d’affari (…)”. La formulazione di tale articolo non osta, pertanto, a che gli Stati membri assoggettino un’operazione all’IVA, nonchè, in modo cumulativo, a un tributo speciale non avente il carattere d’imposta sul volume d’affari (v., in tal senso, la sentenza dell’8 luglio 1986, Kerrutt, 73/85, Racc. pag. 2219, punto 22)”;

– secondo la ridetta pronuncia, quindi, la direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, art. 401, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, in combinato disposto con la stessa, art. 135, paragrafo 1, lett. i), deve essere interpretato nel senso che l’imposta sul valore aggiunto e un tributo speciale nazionale sui giochi d’azzardo possono essere riscossi in modo cumulativo, a condizione che siffatto ultimo tributo non abbia il carattere di un’imposta sul volume d’affari; inoltre, sempre secondo tal sentenza, l’art. 1, paragrafo 2, prima frase, e la direttiva n. 112 del 2006, art. 73, devono essere interpretati nel senso che non ostano a una disposizione o a una prassi nazionale secondo cui, per la gestione di apparecchi per giochi d’azzardo con possibilità di vincita, l’importo dei proventi di cassa di tali apparecchi dopo che è trascorso un determinato periodo di tempo viene considerato come base imponibile;

– il settimo motivo si incentra, infine, in un suo primo profilo, sulla violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 12 e 14 e degli artt. 91 e 92 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR disposto la liquidazione delle spese in favore dell’Amministrazione Finanziaria rappresentata da proprio funzionario e in subordine per non aver disposto la compensazione delle spese in difetto di presentazione di nota;

– il motivo è evidentemente infondato;

– la questione della legittimità della condanna alle spese a favore dell’Erario nel caso di soccombenza del contribuente è stata esaminata anche sotto i profili di rilevanza costituzionale;

– per quanto infatti la Corte Costituzionale l’abbia sul punto affrontata solo in rito (Corte Cost. n. 292 del 2010), la stessa per quanto rilevante risulta manifestamente priva di fondamento alla luce sia dei principi generali del processo civile in tema di spese di giudizio, che pare ricorrente invoca rimandando impropriamente agli artt. 91 e 92 c.p.c., sia alla luce dell’interpretazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 15, adottata da questa Corte;

– va esclusa ogni contrarietà di tal previsione ridetta rispetto all’art. 76 Cost. anche considerando che la .L.D. n. 413 del 1991 (esercitata con il D.Lgs. n. 546 del 1992); due sono le ragioni che contrastano con successo la tesi della illegittimità: la prima risiede nella evidente superfluità di tal previsione; stante il richiamo del D.Lgs. n. 546 del 1002, art. 1, comma 2, al codice di rito, che contiene la disciplina delle spese di giudizio. Ciò dato, è evidente che al processo tributario, pure nei confronti dell’Ente impositore che pacificamente ne è parte, trova applicazione anche detta disciplina. E per vero la L. n. 413 del 1991, art. 30, ha invece espressamente inserito tra i principi e criteri direttivi della legge delega – in evidente connessione con l’obbligatorietà dell’assistenza tecnica per le parti private e ai fini di ridurre il numero delle controversie – la previsione di un modello processuale fondato sul principio processuale civilistico della soccombenza, disponendo alla lett. i) che la legge delegata avrebbe dovuto prevedere la “i) disciplina dell’assistenza tecnica delle parti diverse dall’Amministrazione avanti agli organi della giustizia tributaria ad opera di avvocati, procuratori legali, dottori commercialisti, ragionieri e periti commerciali iscritti nell’apposito albo e, nelle materie di rispettiva competenza, ad opera di altri esperti in materia tributaria iscritti in albi o ruoli o elenchi istituiti presso l’intendenza di finanza competente per territorio; previsione dell’assistenza delle parti diverse dell’amministrazione ad opera di avvocati, procuratori legali, dottori commercialisti, ragionieri e periti commerciali iscritti nell’apposito albo, consulenti del lavoro, consulenti tributari, ovvero mediante procuratore generale o speciale nei procedimenti davanti alle commissioni tributarie ai sensi della lett. b); regime delle spese processuali in base al principio della soccombenza (sottolineatura aggiunta); previsione della facoltà dell’Amministrazione di affidare il patrocinio all’Avvocatura dello Stato nel giudizio di secondo grado”;

– non solo: anche avendo riguardo alla sostanziale natura semi-sanzionatoria di tal condanna alle spese a carico del contribuente soccombente, non è vero infatti che quanto liquidato a titolo di spese non costituisce per l’Ufficio vittorioso il rimborso di un costo ma unicamente un ‘suo arricchimento; questa Corte ha già chiarito come (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 24675 del 23/11/2011) in tema di contenzioso tributario, all’Amministrazione finanziaria (nella specie, l’Agenzia delle Dogane) assistita in giudizio dai propri funzionari, in caso di vittoria nella lite, spetta, ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 15, comma 2 bis, la liquidazione delle spese che va effettuata applicandosi la tariffa vigente per gli avvocati e procuratori, con la riduzione del venti per cento degli onorari di avvocato. Tal importo vale come sostanziale ristoro per la sottrazione del funzionario delegato alla difesa giudiziale dall’attività lavorativa ordinaria, utilizzabile altrimenti in compiti interni di ufficio e tenuto conto dell’identità della prestazione professionale profusa dal funzionario rispetto a quella del difensore abilitato, in forza della qual circostanza è prevista appunto la riduzione ex lege prevista del venti per cento rispetto ai compensi spettanti agli avvocati;

– in ultimo, con riguardo alla mancata produzione della nota spese, sulla quale si insiste abbondantemente nel motivo, osserva la Corte che la condanna al pagamento delle spese processuali costituisce una conseguenza legale della soccombenza ed alla relativa pronuncia il giudice provvede anche d’ufficio, indipendentemente dalla domanda della parte vittoriosa e dall’Unione al fascicolo della nota spese come stabilito dall’art. 75 disp att. c.p.c., qui applicabile in forza del rinvio operato dal D.Lgs. n. 546 del 1992 al codice di rito civile, poichè l’inosservanza di questa norma non esclude il potere/dovere del giudice di liquidare le spese e gli onorari in base agli atti di causa;

– il motivo contiene poi un secondo profilo, con il quale ci si duole della mancata compensazione delle spese da parte della CTR, a fronte della complessità e peculiarità dell’argomento giuridico trattato;

– sotto questo solo profilo il motivo è fondato;

– invero, è evidente che le questioni giuridiche di fondo poste nel primo, nel secondo e nel quarto motivo di ricorso hanno effettivamente trovato completa e definitiva soluzione solo con le pronunce della CGUE e del Giudice delle Leggi di cui si è detto in precedenza, entrambe successive alla sentenza impugnata come al ricorso per cassazione;

– pertanto, è accolto il profilo del settimo motivo di ricorso di cui in motivazione; le spese dell’intero giudizio sono compensate;

– il ricorso nel resto è rigettato.

P.Q.M.

accoglie il settimo motivo di ricorso; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e decidendo nel merito compensa le spese di entrambi i gradi del merito e del giudizio di cassazione; rigetta nel resto.

Così deciso in Roma, il 19 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 2 aprile 2021

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