Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9137 del 16/04/2013


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Civile Sent. Sez. 3 Num. 9137 Anno 2013
Presidente: UCCELLA FULVIO
Relatore: D’AMICO PAOLO

SENTENZA

sul ricorso 19309-2007 proposto da:
D’ALEO

EMILIA

DLAMLE65B49A089K,

elettivamente

domiciliato in ROMA, LARGO GEROLAMO BELLONI 4, presso
lo

studio

PIOLI

dell’avvocato

ALESSANDRO,

rappresentato e difeso dall’avvocato CARUSELLI TERESA
CHIARA con studio in 92100 AGRIGENTO, VIA ELICONE l
VILLAGGIO MOSE’ giusta delega in atti;
– ricorrente contro

AZIENDA OSPEDALIERA SAN GIOVANNI DI DIO DI AGRIGENTO
01938320841, in persona del suo legale rappresentante

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Data pubblicazione: 16/04/2013

pro tempore dott. GIANCARLO MANENTI, domiciliata ex
lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI
CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato
SINATRA GUIDO giusta delega in atti;
– controricorrente

457/2006 della CORTE D’APPELLO

di PALERMO, depositata 1’11/05/2006,

R.G.N. 730/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del

13/02/2013

dal Consigliere Dott. PAOLO

D’AMICO;
udito l’Avvocato TERESA CHIARA CARUSELLI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. ANTONIETTA CARESTIA che ha concluso
per l’inammissibilità in subordine rigetto;

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avverso la sentenza n.

Svolgimento del processo

L’Azienda Ospedaliera “San Giovanni di Dio” di Agrigento
citò in giudizio davanti al Tribunale della medesima città
Emilia D’Aleo, premettendo di essere proprietaria di un
piccolo magazzino detenuto senza titolo dalla convenuta fin

L’attrice chiese l’accertamento del proprio titolo di
proprietà sull’immobile e la condanna della D’Aleo alla
restituzione, oltre al risarcimento dei danni da liquidarsi in
via equitativa.
La convenuta si costituì

in giudizio,

eccependo

l’infondatezza della domanda chiedendone il rigetto.
Sostenne di detenere l’immobile legittimamente, giusto
apposito titolo costituito da un contratto di locazione per
attività commerciale, sin dal 1987 e a tal fine produsse le
ricevute del versamento dei canoni di locazione mediante
vaglia postali.
Con sentenza non definitiva del 31.7/22.8.2003 il giudice
monocratico del Tribunale dichiarò che l’attrice era
proprietaria dell’immobile e condannò la convenuta
all’immediato rilascio dello stesso.
Dispose quindi, con separata ordinanza, l’espletamento di
una c.t.u. per la quantificazione del danno subito
dall’attrice.

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dal 1987.

All’esito, la causa venne posta nuovamente in decisione e
decisa dal medesimo giudice con sentenza definitiva del 24/30
dicembre 2003, con la quale lo stesso condannò la convenuta a
corrispondere all’Azienda Ospedaliera San Giovanni di Dio la
somma di C 95.590,00, oltre al pagamento delle spese

Avverso entrambe le anzidette sentenze la D’Aleo ha
proposto appello.
L’Azienda Ospedaliera S. Giovanni di Dio si è costituita
ed ha contestato il fondamento del gravame chiedendone il
rigetto.
La Corte d’Appello di Palermo ha confermato la sentenza
non definitiva del Giudice monocratico del Tribunale di
Agrigento del 31 luglio/22 agosto 2007 e la sentenza
definitiva dello stesso Giudice del 24/30 dicembre 2003 ed ha
condannato Emilia D’Aleo al pagamento delle spese del
giudizio.
Quest’ultima propone ricorso per cassazione con quattro
motivi.
Resiste con controricorso l’Azienda Ospedaliera San
Giovanni di Dio.
Motivi della decisione

Con il primo motivo parte ricorrente denuncia «Violazione
e/o falsa applicazione degli artt. 16-17 r.d. 2440/1923; Artt.

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processuali e di c.t.u.

1325, (1350), 1418 c.c.; art. 3, 97 Cost.; e relativo vizio di
motivazione, ex art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.».
Sostiene Emilia D’Aleo che l’impugnata sentenza perviene
ad una conclusione non condivisibile circa la insussistenza
del rapporto locatizio, nella misura in cui fa discendere tale

scritta ad substantiam che desse titolo al rapporto locatizio
stesso.
Ritiene in particolare la ricorrente che appare improprio
qualificare inesistente il suddetto rapporto in quanto tale
estrema condizione appartiene a quelle situazioni che
difettino completamente del minimo di elementi essenziali
richiesti dalla legge, mentre nella fattispecie in esame
sarebbe erroneo far discendere l’inesistenza del rapporto de
quo dal solo difetto della forma che il Giudice ritiene invece
determinante.
Secondo la D’Aleo dovrebbe in particolare essere rivisto
e corretto l’orientamento giurisprudenziale che ritiene
imprescindibile l’elemento della forma scritta per la valida
costituzione di un rapporto di locazione con la pubblica
amministrazione.
Il motivo deve essere rigettato.
È infatti giurisprudenza consolidata che al fine di
consentire tanto l’esatta individuazione del contenuto
negoziale quanto i necessari controlli delle autorità tutorie,
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asserzione dal mancato accertamento processuale di una forma

tutti i contratti stipulati dalla P.A., anche quando essa
agisca

iure privatorum,

substantiam,

richiedono la forma scritta

ad

con manifestazione della volontà negoziale da

parte dell’organo rappresentativo abilitato a concludere
negozi giuridici in nome e per conto dell’ente pubblico. Da

nullo ed insuscettibile di qualsiasi forma di sanatoria,
dovendosi, quindi, escludere l’attribuzione di rilevanza ad
eventuali convalide o ratifiche successive, nonché a
manifestazioni di volontà implicita o desumibile da
comportamenti puramente attuativi (Cass., 14 dicembre 2006, n.
26826).
Poiché la volontà della P.A. di obbligarsi non può
desumersi per implicito da fatti o atti, dovendo essere
manifestata nelle forme richieste dalla legge, tra le quali
l’atto scritto

ad substantiam,

nei confronti della stessa

P.A., non è configurabile alcun rinnovo tacito del contratto
di locazione, né rileva, per la formazione del contratto, un
mero comportamento concludente, anche protrattosi per anni
(Cass., 23 giugno 2011, n. 13886).
Correttamente dunque l’impugnata sentenza ha ritenuto che
in assenza della forma scritta, richiesta per tutti i
contratti in cui sia parte una pubblica amministrazione, il
rapporto di locazione deve considerarsi nullo e la detenzione
dell’immobile sine titulo.
6

ciò consegue che il contratto privo della forma scritta è

Né gli argomenti addotti da parte ricorrente sono tali da
giustificare un mutamento d’indirizzo nella giurisprudenza di
questa Corte, non essendo idonei a superare la

ratio della

suddetta regola che si rinviene nell’esigenza di identificare
esattamente il contenuto negoziale e rendere possibili i

ove si ammettesse la validità di vincoli contrattuali privi
del richiesto rigore formale.
Con il secondo motivo si denuncia «Violazione e falsa
applicazione dell’art. 24 cost.; 2907 c.c.; 75, 81, 99, 100,
101, 112 c.p.c. e relativo difetto di motivazione ai sensi
dell’art. 360 I comma n. 3 e 5.»
La ricorrente propone il seguente quesito: «se un ente
che succeda ex lege, in tutte le posizioni attive e passive,
di altro estinto, qualora agisca in giudizio per far valere
congiuntamente pretese creditorie che sono maturate
direttamente in capo ad esso ed anche per quelle maturate in
capo all’ente estinto, ha l’onere di esternare chiaramente sin
dall’atto introduttivo del giudizio tale aspetto fondamentale
e caratterizzante l’azione fatta valere.
E se in caso di incertezza nell’individuazione del
petitum il giudice possa adottare la soluzione più estensiva.»
Sostiene parte ricorrente che l’Azienda ospedaliera “San
Giovanni di Dio” nell’instaurare il presente procedimento ha
omesso di allegare che agiva per far valere i crediti maturati
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controlli delle autorità, finalità che resterebbe frustrata

in capo alla di lei dante causa (USL n. 11 di Agrigento).
Dall’atto di citazione non emergeva infatti che l’attrice
intendesse far valere anche tali crediti.
Il motivo è inammissibile.
Secondo la Corte d’Appello, essendo l’Azienda ospedaliera

rapporti facenti capo alla precedente proprietaria
dell’immobile, USL 11, è normale ritenere che detta azienda
possa pretendere il risarcimento dei danni verificatisi nel
tempo in cui la proprietà dell’immobile apparteneva al suo
dante causa.
La ricorrente, sulla decisione della Corte, non svolge
alcuna impugnazione.
Da qui l’inconferenza del motivo.
La consolidata giurisprudenza di questa Corte ha al
riguardo statuito che la proposizione, con il ricorso per
cassazione, di censure prive di specifiche attinenze al
decisum della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata
enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 c.p.c., n. 4,
con conseguente inammissibilità del ricorso , rilevabile anche
d’ufficio (Cass., 7 novembre 2005, n. 21480).
L’inconferenza del motivo comporta che l’eventuale
accoglimento della censura risulta comunque privo di rilevanza
nella fattispecie, in quanto inidoneo a risolvere la questione

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subentrata ex lege nella titolarità attiva e passiva di tutti

decisa con la sentenza impugnata

(Cass., Sez. Un.,

19

settembre 2008, n. 23860).
Con il terzo motivo si denuncia «Violazione o falsa
applicazione dell’artt. 2043, 2056, 1223 c.c. e relativo vizio
di motivazione ai sensi dell’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.»

effettuato un’errata applicazione dei principi di cui all’art.
2043 c.c. e delle norme ad esso correlate.
In particolare, prosegue la D’Aleo, né dal testo della
sentenza della Corte d’Appello, né dal testo della sentenza
del Tribunale è possibile riscontrare che vi sia stato
l’accertamento degli indispensabili requisiti della
responsabilità aquiliana ed in specie: il fatto contra ius
non iure);

(o

il dolo o la colpa del danneggiante; il danno

ingiusto; il nesso di causalità fra condotta e danno.
L’impugnata sentenza, si afferma, ha proceduto ad una
ricostruzione secondo le non condivisibili figure del danno in
re ipsa e del c.d. “danno figurativo” mentre anche in tema di
risarcimento danni da occupazione abusiva di un immobile
occorre che sia provata l’esistenza del danno di cui si chiede
il risarcimento.
Il motivo deve essere rigettato.
Secondo questa Corte, in caso di occupazione senza titolo
di un cespite immobiliare altrui, il danno subito dal
proprietario è

in re ipsa,

discendendo dalla perdita della
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Sostiene parte ricorrente che la Corte d’Appello ha

disponibilità del bene e dall’impossibilità di conseguire
l’utilità ricavabile dal bene medesimo in relazione alla
natura normalmente fruttifera di esso. La determinazione del
risarcimento del danno ben può essere, in tal caso, operata
dal giudice sulla base di elementi presuntivi semplici, con

al valore locativo del bene usurpato (Cass., 8 maggio 2006, n.
10489; Cass., 29 gennaio 2003, n. 1294).
E comunque nel caso in esame l’impugnata sentenza fa
espresso riferimento ad una Ctu che, con adeguata
argomentazione, ha accertato il danno e la sua entità, mentre
parte ricorrente non ha specificamente contestato la medesima
Ctu.
Con il quarto motivo si denuncia «Violazione o falsa
applicazione dell’art. 1227 c.c. e omessa, insufficiente o
errata motivazione circa un fatto controverso e decisivo per
il giudizio, in relazione all’art. 360 I comma n. 3 e 5,
c.p.c.»
Assume la ricorrente che il danno lamentato dall’Azienda
ospedaliera è esclusivamente imputabile alla stessa Azienda
che non ha tutelato i propri diritti.
La D’Aleo sostiene di aver acquistato il possesso del
bene nel 1987, in assoluta buona fede, con la piena
convinzione che fra le parti in causa intercorresse un
rapporto di locazione, così come era stato con il precedente
10

riferimento al c.d. danno figurativo e, quindi, con riguardo

conduttore da cui ella aveva rilevato l’attività commerciale,
subentrando anche nel rapporto di locazione con la predetta
azienda.
Quest’ultima aveva atteso oltre dieci anni prima di far
valere le proprie pretese, incassando costantemente i

che titolo li ricevesse.
La protratta e ingiustificata inerzia dell’ente può,
secondo parte ricorrente, comportare l’applicazione dell’art.
1227 c.c.
Il motivo deve essere rigettato.
Infatti, in tema di esclusione, ai sensi dell’art. 1227
comma secondo c.c., della risarcibilità di quei danni che il
creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza,
grava sul debitore responsabile del danno l’onere di provare
la violazione, da parte del danneggiato, del dovere di
correttezza impostogli dal citato art. 1227 e l’evitabilità
delle conseguenze dannose prodottesi, trattandosi di una
circostanza impeditiva della pretesa risarcitoria,
configurabile

come

eccezione

in senso

stretto

(Cass.

5883/2000).
Nel caso di specie la ricorrente non ha dato prova che
controparte avrebbe potuto evitare le conseguenze dannose,
mentre l’azienda ospedaliera, essendo subentrata nella
titolarità attiva e passiva di tutti i rapporti facenti capo
11

pagamenti effettuati dalla ricorrente, senza mai chiedere a

precedente

alla

proprietaria

dell’immobile,

può

ragionevolmente pretendere il pagamento dei crediti derivanti
dall’occupazione senza titolo dell’immobile.
Né dall’inerzia della proprietaria dell’immobile possono
farsi derivare conseguenze giuridiche se non la evetuale

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con
condanna di parte ricorrente alle spese del giudizio di
cassazione che si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente
alle spese del giudizio di cassazione che liquida in C
3.200,00, di cui C 3.000,00 per compensi, oltre accessori di
legge.
Roma, 13 febbraio 2013

prescrizione o la decadenza.

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