Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9136 del 02/04/2021

Cassazione civile sez. trib., 02/04/2021, (ud. 20/10/2020, dep. 02/04/2021), n.9136

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. FRAULINI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 1363/2013 R.G. proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Distrettuale dello

Stato e presso i cui uffici domicilia in Roma, alla Via dei

Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

R.M., Associazione Area;

nonchè

Equitalia Nord s.p.a.;

– intimati-

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del

Veneto, n. 45/4/2013, depositata il 14 maggio 2013.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 20 ottobre

2020 dal Consigliere Luigi D’Orazio.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. L’Agenzia delle entrate emetteva un avviso di accertamento nei confronti della Associazione Area, per l’anno 2005, evidenziando che l’Associazione (Circolo Area) non risultava affiliato da alcun ente riconosciuto dal Ministero dell’Interno e che non aveva diritto ad alcuna agevolazione ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 148. Pertanto, l’ente, sulla base della documentazione rinvenuta (erano socie numerose donne di nazionalità straniera operanti nel locale come “figuranti” o “ballerine”), era un vero e proprio ente commerciale (night club). Non avendo la società presentato la dichiarazione dei redditi si procedeva con accertamento induttivo ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2. L’avviso di accertamento veniva notificato all’associazione in persona di R.M., che nel periodo dal 2-9-2004 al 27-1-2006, aveva ricoperto la carica di presidente dell’Associazione. Il R. era anche destinatario, in proprio della pretesa fiscale, quale obbligato solidale con l’associazione di cui era legale rappresentante. A causa del pericolo per la riscossione l’Ufficio iscriveva a ruolo a titolo straordinario, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 15 bis, notificando al R. ed alla Associazione la cartella di pagamento.

2. L’Associazione, con procura sottoscritta da R.M., impugnava l’avviso di accertamento. Con successivo ricorso l’Associazione ed il R., in proprio, impugnavano anche la cartella esattoriale. Con il ricorso avverso l’avviso di accertamento, presentato dalla associazione, si deduceva l’illegittimità dello stesso per carenza di obblighi tributari in capo a R.M., che era stato, peraltro, legale rappresentante solo sino al 27 gennaio 2006. Nè il R. aveva mai ricevuto la notificazione del processo verbale di constatazione. Nè vi era prova del fatto che il R. avesse agito in nome e per conto della Associazione, svolgendo in concreto attività negoziale, creando rapporti obbligatori con i terzi. Il R. era un semplice barista.

3. La Commissione tributaria provinciale di Rovigo accoglieva i ricorsi riuniti, in quanto l’Ufficio doveva dare prova della attività negoziale concretamente svolta dal legale rappresentante dell’ente, ai sensi dell’art. 38 c.c., non essendo sufficiente la prova in ordine alla carica rivestita. Il R. aveva svolto solo l’attività di barista fino alla data delle dimissioni, quindi nel gennaio 2006. L’effettiva gestione, infatti, era svolta da C.R.. Inoltre, non trattavasi di reddito da società di capitali, ma di attività svolta da società di persone e, quindi, con reddito Irpef a carico dei soci, per il principio di trasparenza.

4. L’Ufficio proponeva appello, in quanto erano in atti numerosi elementi dai quali desumere il coinvolgimento diretto del R. nelle attività dell’ente. Il R., oltre a ricoprire la carica di Presidente, era anche socio fondatore, quindi componente del Consiglio Direttivo; dalle dichiarazioni da lui rese emergeva che almeno sono al novembre del 2004 aveva la responsabilità dell’incasso; il R. intratteneva rapporti con i terzi sia per quanto concerneva le forniture del bar, sia per le bollette, salvo poi rivolgersi al C. per le movimentazioni di denaro. Inoltre, la qualifica di società all’ente non era stata mai contestata dall’ente. Trattandosi di un fatto non contestato, il giudice di primo grado era incorso non solo nella violazione dell’art. 115 c.p.c., ma anche nel vizio di ultrapetizione ex art. 112 c.p.c., decidendo su un motivo di impugnazione mai adombrato dal contribuente.

5. La Commissione tributaria regionale del Veneto rigettava l’appello dell’Ufficio rilevando che il R. aveva svolto solo funzioni di barista. Si evidenziava anche che l’art. 38 c.c., era applicabile alle obbligazioni tributarie e che la responsabilità gravava solo sulle persone fisiche che avevano in concreto gestito l’ente. In relazione alla violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., con riguardo alla tipologia di reddito da tassare, ed al difetto di motivazione della cartella, il giudice di appello riteneva assorbiti i relativi motivi di impugnazione.

6. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate.

7. Equitalia Nord s.p.a., che ha ricevuto rituale notificazione del ricorso, non ha svolto attività difensiva.

8. Restano intimati l’Associazione e R.M..

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di impugnazione l’Agenzia delle entrate deduce la “violazione e falsa applicazione degli artt. 81 e 100 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4”, in quanto il giudice di primo grado avrebbe dovuto dichiarare d’ufficio l’inammissibilità del ricorso contro l’avviso di accertamento per difetto di legittimazione attiva di R.M. o, comunque, l’improcedibilità del ricorso di primo grado per carenza di interesse. Infatti, il ricorso di primo grado era stato proposto esclusivamente dall’Associazione, in persona del legale rappresentante R.M.. L’azione, però, non era stata proposta in proprio da R.M., anche se tutti i motivi di ricorso riguardavano esclusivamente la sua posizione personale e non quella dell’ente da lui rappresentato, che era l’unico soggetto ad avere agito. Aveva agito, dunque, solo l’Associazione, ma per far valere esclusivamente diritti personali del R., con violazione dell’art. 81 c.p.c., ed in difetto di interesse ad agire in violazione dell’art. 100 c.p.c..

1.1. Il primo motivo è infondato.

1.2. Invero, per questa Corte, a sezioni unite, seppure per fattispecie diversa da quella in esame, in virtù del principio di strumentalità delle forme di cui all’art. 156 c.p.c., comma 3, e dell’esigenza di interpretare il mandato alle liti alla luce dell’intestazione del ricorso, è valida la procura conferita da una società e dal suo legale rappresentante in proprio, benchè priva dell’indicazione del nominativo del soggetto conferente, ove in calce alla medesima sia apposto un timbro recante la denominazione della società e l’indicazione “l’amministratore unico”, sulla quale si rinvenga una sottoscrizione per sigla, dovendosi ricondurre detta sottoscrizione al legale rappresentante anche in proprio (Cass., sez. un., 5 maggio 2017, n. 10937). La procura alle liti, dunque, deve essere interpretata in relazione al contesto dell’atto cui accede, con la conseguenza che la procura sottoscritta dal legale rappresentante di una società, senza indicazione di tale qualità, è riferibile anche alla società stessa allorchè l’atto, cui essa accede, rechi l’indicazione che la parte agisce in proprio e nella predetta qualità (Cass., sez. 1, 28 giugno 2002, n. 9491).

Si è anche precisato che la procura speciale rilasciata da chi sia parte in giudizio per sè e quale rappresentante legale di una società deve intendersi rilasciata, oltre che in tale ultima qualità, anche in nome proprio, senza che assuma alcun rilievo in contrario la circostanza che nella procura medesima si faccia riferimento soltanto alla qualità di rappresentante legale della società (Cass., 20 giugno 2018, n. 16251). Infatti, nella interpretazione della procura va dato rilievo anche allo scopo difensivo che muove al giudizio (Cass., 11 febbraio 2009, n. 3362), in quanto il principio del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., impone di discostarsi da interpretazioni suscettibili di ledere il diritto di difesa della parte ovvero comunque ispirate ad un formalismo funzionale non già alla tutela dell’interesse della controparte, ma piuttosto a frustrare lo scopo stesso del processo, che è quello di consentire che si pervenga ad una decisione di merito (Cass., n. 10963/2004). Va, poi, applicato il principio per cui essa va intesa nel senso che possa avere effetti per il principio di conservazione dell’atto di cui all’art. 1367 c.c., di cui è espressione, con riferimento specifico agli atti del processo, l’art. 159 c.p.c..

Nella specie, trattandosi di error in procedendo, questa Corte può esaminare gli atti processuali, presenti nel fascicolo, ed in particolare il contenuto della procura speciale rilasciata dal R., a margine del ricorso di primo grado. Nel ricorso di primo grado ha agito “L’Avv. Franco Fedozzi…nella propria qualità di procuratore speciale, difensore e domiciliatario della società Area…, in persona del legale rappresentante (sino al 27.1.2006) sig. R.M….giusta mandato a margine del presente atto”.

La procura reca la sottoscrizione di R.M., senza l’indicazione della Associazione Area, ed è del seguente tenore “Nomina a rappresentarmi e difendermi, in ogni fase e grado…l’Avv. Franco Fedozzi”. Inoltre, i motivi di ricorso attengono proprio alla posizione di R.M..

Pertanto, proprio dal tenore della procura rilasciata e del contenuto del ricorso di primo grado si deduce che il R. ha agito anche in proprio, e non solo quale legale rappresentante della Associazione.

2. Con il secondo motivo di impugnazione l’Agenzia deduce, in ulteriore subordine, la “violazione e falsa applicazione dell’art. 38 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, in quanto il giudice di appello ha erroneamente ritenuto che delle obbligazioni fiscali contratte dalle associazioni non riconosciute possono rispondere solidalmente con il fondo comune di questa, ai sensi dell’art. 38 c.c., solo i soggetti che in concreto hanno gestito l’associazione, e quindi coloro nei cui conti correnti siano affluiti i proventi dell’attività associativa, quali “persone che hanno agito in nome e per conto dell’associazione”. Tale argomentazione è fallace per due profili. La prima è che l’art. 38 c.c., fa riferimento esclusivamente alle obbligazioni di fonte negoziale e non alle obbligazioni fiscali, che sorgono ex lege e non richiedono alcuna manifestazione di volontà. Tuttavia, anche ritenendo applicabile l’art. 38 c.c., alle obbligazioni tributarie, la persona che agisce in nome e per conto dell’associazione è quella che “si ponga nella struttura di questa come elemento giuridicamente o concretamente necessario a consentirne l’operatività”. E’ sufficiente, allora, anche la “titolarità formale” delle cariche rappresentative dell’associazione, salvo che si dimostri, a cura del contribuente, che l’investitura formale era simulata, perchè la persona formalmente investita della carica era, in realtà, un mero prestanome.

L’altro errore consisterebbe nell’aver identificato quale soggetto che agisce in nome e per conto della associazione solo chi ne spenda il denaro. Nè il perimetro dell’art. 38 c.c., può essere ristretto fino a ricomprendere solo chi sia “titolare dell’intera gestione dell’ente”. La responsabilità può nascere anche dalla stipulazione di “singoli negozi” con i terzi, quindi anche da parte di un soggetto che non necessariamente partecipi alla complessiva gestione dell’ente. La gestione del solo bar interno non escludeva il R. da responsabilità.

2. Il motivo è infondato.

2.1. Invero, l’art. 38 c.c., stabilisce che per le obbligazioni dell’associazione non riconosciuta, oltre che il fondo comune, “rispondono anche personalmente e solidalmente le persone che hanno agito in nome e per conto dell’associazione”.

2.2. Per questa Corte la norma mira a rafforzare la garanzia per i terzi creditori, che abbiano fatto affidamento sulla solvibilità e sul patrimonio della persona fisica, sicchè accanto alla responsabilità del fondo comune, si rinviene anche la responsabilità di un referente persona fisica.

2.3. La formula normativa, però, evidenzia che si tratta di responsabilità che tende a trascendere la posizione astrattamente assunta dal soggetto nell’ambito della compagine sociale per ricollegarsi più direttamente alla concreta ingerenza nell’attività dell’ente; ciò per controbilanciare, a tutela dei terzi che interloquiscono con l’associazione, l’assenza di vincoli di pubblicità legale, anche con riferimento al patrimonio dell’ente, e per incentivare l’oculatezza nella gestione dell’ente.

La responsabilità della persona fisica che ha agito in nome e per conto dell’associazione ha carattere accessorio, ma non sussidiario, rispetto alla responsabilità primaria della associazione, tanto da essere inquadrata fra quelle di garanzia assimilabili alla “fideiussione” (Cass., sez 1, 17 giugno 2015, n. 12508).

Si è chiarito che la locuzione ambigua della norma, spiegabile con la sua origine, in quanto tesa a tutelare i terzi per le obbligazioni di natura negoziale, non impedisce l’applicazione della stessa anche alle obbligazioni tributarie, di natura legale, che sorgono ex lege al verificarsi del relativo presupposto (Cass., 22 gennaio 2019, n. 1602). Anche in questa ipotesi (obbligazioni fiscali) i soggetti chiamati a rispondere di tali obbligazioni sono quelli che, in forza del “ruolo rivestito”, hanno diretto la “complessiva gestione associativa nel periodo di comporto” (Cass., sez. 5., 12 marzo 2007, n. 5746). Si è precisato, però, che in tali casi, il richiamo all’effettività dell’ingerenza vale a circoscrivere la responsabilità personale del soggetto investito di cariche sociali alle sole obbligazioni sorte nel periodo di relativa investitura (Cass., sez. 5, 15 ottobre 2018, n. 25650).

Pertanto, con riferimento alla responsabilità solidale per le obbligazioni tributarie di chi svolge compiti di amministrazione e gestione nell’ambito dell’associazione, deve ritenersi sussistere un principio di presunzione idoneo a far supporre che i predetti soggetti concorrano nelle decisioni volte alla creazione di rapporti obbligatori di natura tributario per conto dell’associazione (Cass., sez’-5, 22 gennaio 2019, n. 1602). Pertanto, per i soggetti che hanno svolto il ruolo di amministratore ed incaricato ad operare sul conto corrente dell’associazione, può presumersi che gli stessi abbiano gestito anche gli aspetti relativi alle obbligazioni tributarie dell’associazione (Cass., sez.C-5, n. 1602/2019 cit.).

Resta fermo che è necessario accertare, ai fini della responsabilità per i debiti tributari, non tanto la carica rivestita dal soggetto, ma se e in che misura un oggetto abbia svolto concretamente l’attività di amministrazione (Cass., sez. 5, 15 ottobre 2018, n. 25650; Cass., sez. 6-5, 24 febbraio 2020, n. 4747).

Chi invoca in giudizio la responsabilità ex lege per le obbligazioni tributarie ai sensi dell’art. 38 c.c., deve provare la “concreta attività” svolta in nome e nell’interesse dell’associazione, non essendo sufficiente la sola prova in ordine alla carica rivestita all’interno dell’ente (Cass., sez. 5, 10 settembre 2009, n. 19486).

2.4. Nel precedente specifico di legittimità tra le stesse parti (Cass., sez. 6-5, 17 giugno 2015, n. 12473), relativo ad annualità diversa, e che quindi non ha l’autorità del giudicato in questa sede, questa Corte ha respinto il primo motivo del ricorso per cassazione predisposto dalla Agenzia delle entrate, in quanto muoveva “dal presupposto – errato -…che la responsabilità del legale rappresentante dell’associazione scaturirebbe dalla stessa carica ricoperta all’interno dell’associazione”.

2.5. Pertanto, la sentenza del giudice di appello non è incorsa nella violazione o falsa applicazione dell’art. 22 c.c., avendo fatto corretta applicazione dei principi di diritto sopra indicati. La Commissione regionale, infatti, ha ritenuto che ai sensi dell’art. 38 c.c., la responsabilità solidale grava sui soggetti che in concreto abbiano gestito l’ente e che tale norma trova applicazione anche per le obbligazioni tributarie.

3. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “violazione degli artt. 115 c.p.c., comma 1, seconda parte; degli artt. 2733 e 2735 c.c. e, ancora, dell’art. 38 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4”, in quanto era pacifico che il R. all’interno della associazione aveva sottoscritto il rendiconto, si era occupato di riscuotere gli incassi delle serate, aveva curato le utenze ricevendo e pagando le bollette, aveva curato l’affitto del locale pagando con proprio bonifico il relativo canone, si era occupato delle forniture necessarie al funzionamento del bar. Tutte queste circostanze risultavano dal processo verbale di constatazione, come pure dalle dichiarazioni rese dal R., ma non sono state poste a base della decisione.

3.1. Tale motivo è inammissibile.

Invero, la censura è stata formulata sotto il profilo della violazione del principio di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c., ma in realtà la ricorrente chiede una diversa valutazione dei fatti o, comunque, deduce l’omesso esame di fatti decisivi, sicchè avrebbe dovuto formulare un motivo di impugnazione per vizio di motivazione.

Peraltro, la ricorrente non ha riprodotto nel ricorso gli elementi da cui sarebbe stato possibile verificare l’avvenuta non contestazione da parte della controparte in sede di giudizio di merito.

4. Con il quarto motivo di impugnazione la ricorrente deduce il vizio di “omesso esame di punti di fatto decisivi per il giudizio, discussi tra le parti, e comunque omessa o insufficiente motivazione su punti di fatto decisivi, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”, in quanto il fatto decisivo è rappresentato dalla condotta svolta in concreto dal R. nell’ambito del suo ruolo formale di Presidente dell’Associazione, al fine di stabilire la sussistenza o meno della sua responsabilità personale ai sensi dell’art. 38 c.c.. Il giudice di appello ha escluso tale responsabilità in quanto il R. è stato solo un semplice barista, mentre il C. era il vero gestore della complessiva attività dell’associazione.

4.1. Il quarto motivo è fondato.

Invero, la Commissione regionale ha omesso di considerare i “fatti decisivi” indicati con precisione dalla Agenzia delle entrate. In particolare, il giudice di appello non ha tenuto conto delle seguenti circostanze di fatto: il R. all’interno della associazione ha sottoscritto il rendiconto; ha dichiarato di essersi occupato di riscuotere gli incassi delle serate; ha curato le utenze ricevendo e pagando le bollette; ha curato l’affitto del locale pagando con proprio bonifico il relativo canone: si è occupato delle forniture necessarie al funzionamento del bar.

Tali “fatti” che assumono valenza “decisiva” sono stati del tutto trascurati dalla Commissione regionale.

La sentenza del giudice di appello è stata depositata il 14 maggio 2013, sicchè va applicata la versione del vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come modulato dal D.L. n. 83 del 2012, che governa le sentenze depositate a decorrere dall’11 settembre 2012. Non è più possibile, dunque, denunciare la insufficiente motivazione ma, come fatto correttamente dalla ricorrente, l’omesso esame di fatti decisivi e controversi tra le parti.

5. Con il quinto motivo di impugnazione la ricorrente deduce la “violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4”, in quanto la motivazione della sentenza di primo grado, dopo avere escluso la responsabilità del R., in assenza di atti di gestione dell’ente, ha ritenuto errato il recupero a tassazione a titolo di Ires a carico dell’associazione, qualificata come ente svolgente attività commerciale, in quanto doveva applicarsi la tassazione per trasparenza in capo ai soci persone fisiche ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5. L’Ufficio aveva proposto appello anche per questo autonomo capo della sentenza di prime cure, ma il giudice di appello ha ritenuto assorbite tutte le ulteriori censure avanzate dal R. e dalla Associazione. In tal modo, però, la Commissione regionale è incorsa nel vizio di infrapetizione, in violazione dell’art. 112 c.p.c..

6. Con il sesto motivo di impugnazione la ricorrente deduce la “violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., e del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 18 e 21, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4”, in quanto è evidente che l’Associazione non ha mai dedotto che l’imposta dovuta non era l’Ires a carico della stessa, ma l’Irpef pro quota in capo agli associati. Il giudice di merito non poteva annullare l’avviso di accertamento per un motivo non proposto dalla contribuente. Pertanto, può essere deciso direttamente il merito del ricorso, per essere incorsa la Commissione tributaria nel vizio di ultrapetizione, come in analoga violazione è incorso il giudice di appello che ha confermato la sentenza di primo grado.

7. Con il settimo motivo di impugnazione la ricorrente deduce, in estremo subordine, la “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5, art. 73, comma 1, lett. B e C, degli artt. 143, 148 e 149, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, in quanto ha errato il giudice di merito nel ritenere che una associazione non riconosciuta, cui venga attribuita attività commerciale, non possa essere assoggettata a tassazione in riferimento all’Ires, ma debba applicarsi la tassazione sull’Irpef delle persone fisiche degli associati. In realtà, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5, è norma di stretta interpretazione che non ricomprende le associazioni non riconosciute. Il mero fatto che una associazione non riconosciuta svolga attività commerciale non rende applicabili le norme della società di fatto o irregolare. Sono necessari, infatti, per tale configurazione l’elemento interno costituito dall’accordo tra i soci per il conferimento di apporti ad un capitale comune ed un elemento esterno costituito dalla apparentia iuris. Fino a quando, pur svolgendo una attività commerciale, il soggette resta invece qualificabile come associazione non riconosciuta ai sensi dell’art. 36 c.c., la fattispecie di cui al D.P.R., art. 5, non diviene quindi applicabile.

8. Il quinto motivo è fondato.

Invero, non v’è dubbio che la sentenza di primo grado abbia fornito una autonoma motivazione rispetto alla associazione, affermando che l’Associazione non poteva essere assoggettata a tassazione per l’Ires, ma si sarebbe dovuto procedere a tassare l’Irpef delle persone fisiche degli associati per il principio di trasparenza di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5. Tuttavia, è evidente che non vi era un motivo di impugnazione dell’avviso da parte della Associazione su tale questione, sicchè v’è stata la violazione dell’art. 112 c.p.c., per vizio di ultrapetizione.

Il giudice di appello, poi, non ha risposto sul motivo di appello articolato dall’Ufficio per dedurre il vizio di ultrapetizione, sicchè è incorso nel vizio di infrapetizione di cui all’art. 112 c.p.c., avendo ritenuto assorbite le altre questioni, dopo aver escluso la responsabilità solidale del R.. In realtà, la questione della responsabilità del R. era del tutto indipendente dalla questione relativa al reddito della associazione da assoggettare a tassazione. Pertanto, il giudice di appello non poteva ritenere assorbita tale questione.

Pertanto, effettivamente il giudice di prime cure ha accolto un motivo di impugnazione dell’avviso di accertamento (assoggettabilità a tassazione solo dell’Irpef delle persone fisiche dell’associazione D.P.R. n. 917 del 1986, ex art 5), non presentato dalla contribuente.

9. Il sesto ed il settimo motivo sono assorbiti.

10. La sentenza impugnata deve essere cassata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Veneto, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

PQM

Accoglie il quarto ed il quinto motivo; rigetta il primo ed il secondo; dichiara inammissibile il terzo; dichiara assorbiti il sesto ed il settimo; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Veneto, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 20 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 aprile 2021

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