Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9135 del 16/04/2010

Cassazione civile sez. un., 16/04/2010, (ud. 15/12/2009, dep. 16/04/2010), n.9135

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ELEFANTE Antonino – Primo Presidente f.f. –

Dott. PREDEN Roberto – Presidente di sezione –

Dott. VIDIRI Guido – Consigliere –

Dott. ODDO Massimo – Consigliere –

Dott. D’ALONZO Michele – Consigliere –

Dott. MERONE Antonio – Consigliere –

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere –

Dott. CURCURUTO Filippo – rel. Consigliere –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

REGIONE LOMBARDIA, in persona del Presidente della Giunta Regionale

pro-tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZALE CLODIO 32,

presso lo studio dell’avvocato LIDIA CIABATTINI, rappresentata e

difesa dall’avvocato TOSI PAOLO, per procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

N.D. ((OMISSIS)), C.R.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DELLA VITE 7, presso lo studio

dell’avvocato MASINI MARIA STEFANIA, che li rappresenta e difende

unitamente all’avvocato NESPOR STEFANO, per procura in calce al

controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 629/2008 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 22/05/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/12/2009 dal Consigliere Dott. FILIPPO CURCURUTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MARTONE Antonio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

La Corte d’Appello di Milano, accogliendo l’appello di N. D. e C.R., ex dipendenti della Regione Lombardia, collocati a riposo rispettivamente dal 1^ aprile 2004, il N., e dal 1^ marzo 2003, la C., ha riconosciuto agli appellanti il diritto di percepire l’indennità di anzianità prevista in favore dei dipendenti della Regione Lombardia dalla L. R. 7 luglio 1981, n. 38, artt. 16 e 17, limitatamente alle somme maturate a tale titolo sino al 30 maggio 2000, escludendo invece ogni ulteriore accrescimento dell’indennità per il periodo successivo.

In sintesi, la Corte territoriale ha osservato che l’intera L. R. n. 38 del 1981, era stata abrogata dalla L. R. Lombardia 10 marzo 1995, n. 10, art. 32, ma la portata di tale abrogazione, per quanto riguardava l’indennità in questione, era stata poi regolata dalla L. R. 23 luglio 1996, n. 16, il cui art. 36, comma 5, aveva disposto che: “Gli effetti abrogativi delle disposizioni relative all’omogeneizzazione del trattamento previdenziale del personale regionale decorrono dalla data di modifica delle norme che regolano in campo nazionale l’indennità di fine servizio”.

Ricostruito quindi il quadro della disciplina legale e collettiva della materia, la Corte ha richiamato l’ulteriore intervento normativo regionale, costituito dalla L. 3 agosto 2004, n. 19, il cui art. 7 comma 12, aveva stabilito che la cit. L. R. n. 16 del 1996, art. 36, comma 5, dovesse interpretarsi nel senso che la modifica delle norme regolatrici dell’indennità di fine servizio in ambito nazionale, alla quale erano collegati gli effetti abrogativi disposti dalla L. n. 10 del 1995, era riferita all’approvazione a livello nazionale della nuova disciplina del trattamento di fine servizio, indipendentemente dalla istituzione dei fondi pensione e dall’esercizio delle opzioni da parte dei dipendenti regionali, previsti dalla L. n. 449 del 1997, e che, di conseguenza, il trattamento di previdenza di cui alla L. R. 7 luglio 1981, n. 38, artt. 16, 17 e 18, era abrogato dal 30 maggio 2000, data di entrata in vigore del D.P.C.M. 20 dicembre 1999.

La Corte ha quindi notato che anche dopo tale intervento restavano possibili due alternative interpretative, ed ha optato per la tesi secondo era cui dovuta l’indennità di anzianità maturata sino al 30 maggio 2000, senza possibilità di accrescimento ulteriore, scartando invece la soluzione che negava la corresponsione di qualsiasi emolumento per detto titolo ai dipendenti cessati dal servizio successivamente a tale data.

La sentenza è impugnata dalla Regione Lombardia con ricorso per tre motivi, corredati da quesito ex art. 366 bis c.p.c.. Gli intimati resistono con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Con il primo motivo di ricorso è denunziata “violazione e falsa applicazione del combinato disposto dalla L. R. n. 38 del 1981, art. 16, dalla L. R. n. 16 del 1996, art. 36 e dalla L. R. n. 19 del 2004, art. 7”.

Si addebita alla sentenza impugnata di non aver considerato, anzitutto, che la “ratio” della L. R. n. 38 del 1981, risiede nell’esigenza di omogeneizzare i diversi trattamenti di fine servizio del personale regionale, legati alla varia provenienza dello stesso, e che, emergendo tali differenze solo al momento della cessazione del rapporto, allorquando il trattamento viene erogato, prima di tale momento non è realizzabile lo scopo di integrazione, mentre, una volta raggiunta l’uniformità dei trattamenti di fine servizio per tutto il personale regionale, la necessità di omogeneizzazione mediante integrazione viene meno, qualunque sia il contenuto del nuovo trattamento unitario.

Contro tale conclusione – ad avviso della ricorrente – non varrebbe invocare il criterio, adottato nella normativa sul trattamento di fine rapporto dei dipendenti pubblici, secondo cui la quota iniziale del nuovo t.f.r. va determinata in base alla disciplina previgente (cd. pro-rata). Infatti, per un verso, tale criterio non avrebbe alcuna valenza in relazione ad una norma abrogativa del precedente trattamento e, per altro verso, il legislatore nazionale, nel prevedere che l’indennità di fine servizio maturata prima del vigore del nuovo sistema di calcolo sia computata secondo la normativa previgente (v. D.P.C.M. 20 dicembre 1999, art. 1) non avrebbe richiamato i trattamenti integrativi previsti dalle leggi regionali, perchè facendolo avrebbe leso le competenze regionali e perchè un tale richiamo sarebbe da escludere sulla base della formulazione testuale dell’Accordo Nazionale Quadro del luglio 1999.

Si addebita, poi, alla sentenza impugnata di aver trascurato il contenuto della L. R. n. 38 del 1981, art. 16. Quest’ultima disposizione, infatti, nel determinare il trattamento integrativo fa riferimento all’ultima retribuzione annua lorda e pertanto ad un elemento collegato con il termine del rapporto, distinguendosi significativamente dalla disciplina del t.f.r., nella quale il trattamento è calcolato sulla retribuzione riscossa di anno in anno.

Inoltre, per la sua natura di integrazione, l’indennità di anzianità regionale presuppone un trattamento base, a sua volta calcolato e corrisposto alla cessazione del rapporto.

Contro la maturazione dell’indennità nel corso del rapporto varrebbe anche la mancanza dei corrispondenti accantonamenti periodici, la quale, d’altra parte, rendendo infondata la qualificazione dell’indennità in questione come emolumento di natura soltanto retributiva, consentirebbe di escludere ulteriormente la suddetta modalità di maturazione. In ogni caso, una volta esclusa la sua maturazione giorno per giorno o per singola annualità di servizio, l’indennità, ancorchè di natura retributiva, non costituirebbe oggetto di diritti quesiti anteriormente alla cessazione del rapporto, potendo quindi esser soppressa fin a tale momento.

Pertanto, non avendo la L. n. 38 del 1981, determinato il sorgere di alcun diritto in favore dei dipendenti, l’interpretazione data dalla Corte di merito alle norme che ne avevano sancito l’abrogazione dal 30 maggio 2000 avrebbe violato il principio che vuole siano conservati i soli effetti già prodotti dalla disposizione abrogata.

Con il secondo motivo di ricorso è denunziata “violazione e falsa applicazione dell’art. 134 Cost. e art. 12 preleggi, con riferimento al combinato disposto dalla L. R. n. 38 del 1981, art. 16, dalla L. R. n. 16 del 1996, art. 36 e dalla L. R. n. 19 del 2004, art. 7”.

Si addebita alla sentenza impugnata di aver ricostruito gli effetti abrogativi della L. R. n. 16 del 1996, pervenendo ad una conclusione presentata come costituzionalmente orientata, ma in realtà non raggiungibile in via interpretativa, perchè, in sostanza, manipolativa della portata di tali effetti, e, quindi, preclusa al giudice ordinario.

Con il terzo motivo di ricorso è denunziata “violazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 69, in punto di difetto di giurisdizione dell’adito g.o.” Si sostiene che la natura retributiva dell’indennità e la sua conseguente maturazione nel corso del rapporto comporterebbero difetto di giurisdizione del giudice ordinario in riferimento alla parte dell’indennità maturata sino al 30 giugno 1998.

Il terzo motivo, da esaminare prioritariamente, va rigettato perchè contiene una censura inammissibile.

Premesso che la questione risulta sollevata per la prima volta solo in questa sede, deve richiamarsi ed applicarsi, infatti, l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale in base al quale l’interpretazione dell’art. 37 cod. proc. civ., secondo cui il difetto di giurisdizione “è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo”, deve tenere conto dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo (“asse portante della nuova lettura della norma”), della progressiva forte assimilazione delle questioni di giurisdizione a quelle di competenza e dell’affievolirsi dell’idea di giurisdizione intesa come espressione della sovranità statale, essendo essa un servizio reso alla collettività con effettività e tempestività, per la realizzazione del diritto della parte ad avere una valida decisione nel merito in tempi ragionevoli. Dalla nuova interpretazione della predetta disposizione, volta a delinearne l’ambito applicativo in senso restrittivo e residuale, consegue che: 1) il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti anche dopo la scadenza del termine previsto dall’art. 38 cod. proc. civ. (non oltre la prima udienza di trattazione), fino a quando la causa non sia stata decisa nel merito in primo grado; 2) la sentenza di primo grado di merito può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione; 3) le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito, operando la relativa preclusione anche per il giudice di legittimità; 4) il giudice può rilevare anche d’ufficio il difetto di giurisdizione fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito. In particolare, il giudicato implicito sulla giurisdizione può formarsi tutte le volte che la causa sia stata decisa nel merito, con esclusione per le sole decisioni che non contengano statuizioni che implicano l’affermazione della giurisdizione, come nel caso in cui l’unico tema dibattuto sia stato quello relativo all’ammissibilità della domanda o quando dalla motivazione della sentenza risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione (ad es., per manifesta infondatezza della pretesa) ed abbia indotto il giudice a decidere il merito “per saltum”, non rispettando la progressione logica stabilita dal legislatore per la trattazione delle questioni di rito rispetto a quelle di merito. (Cass. Sez. un. 24833/2008; conf., fra le altre, Cass. Sez. un. 27531/2008; 9661/2009).

Il primo ed il secondo motivo, da trattare congiuntamente perchè connessi, sono infondati.

Il quadro delle disposizioni di legge regionale rilevanti ai fini della decisione può esser così ricostruito.

La L. R. Lombardia 7 luglio 1981, n. 38, recante “Disposizioni sull’ordinamento, sullo stato giuridico e sul trattamento economico dei dipendenti regionali in attuazione dell’accordo relativo al contratto nazionale 1979/81 per il personale delle regioni a statuto ordinario” nell’art. 16, concernente, secondo la rubrica la “Omogeneizzazione del trattamento di previdenza del personale regionale” ha previsto nei primi due commi che:

“In attesa della modifica delle norme che regolano in campo nazionale l’indennità di fine servizio per il personale regionale, la Regione assicura ai propri dipendenti, per ogni anno di servizio, un trattamento previdenziale (indennità di anzianità) pari a un dodicesimo dell’ottanta per cento dell’ultima retribuzione annua lorda, quale allo stesso fine l’ordinamento dell’Inadel – istituto nazionale assistenza dipendenti enti locali – prende a base per il calcolo dell’indennità premio di servizio.

La Regione pone a suo carico la eventuale differenza fra la somma lorda spettante secondo quanto previsto dal comma precedente (assunta a minuendo) e quella lorda (assunta a sottraendo) corrisposta a titolo di indennità premio di servizio, di indennità di buonuscita, di indennità di anzianità, o di altro analogo titolo, dalla stessa regione e dall’ente presso il quale è instaurato il rapporto previdenziale”.

La L. R. Lombardia 10 marzo 1995, n. 10, recante “Revisione dell’ordinamento del personale regionale” all’art. 32, comma 1, ha abrogato, fra le altre, l’intera L. R. 7 luglio 1981, n. 38.

Successivamente, tuttavia, con la L. R. Lombardia 23 luglio 1996, n. 16, art. 36, comma 5, recante “Ordinamento della struttura organizzativa e della dirigenza della Giunta regionale” è stato stabilito che ” Gli effetti abrogativi delle disposizioni relative all’omogeneizzazione del trattamento previdenziale del personale regionale decorrono dalla data di modifica delle norme che regolano in campo nazionale l’indennità di fine servizio”.

Infine, la L. R. Lombardia 3 agosto 2004, n. 19, art. 7, comma 12, ha disposto che: “La L. R. 23 luglio 1996, n. 16, art. 36, comma 5, (Ordinamento della struttura organizzativa e della dirigenza della Giunta regionale), che prevede che gli effetti abrogativi delle disposizioni relative all’omogeneizzazione del trattamento previdenziale del personale decorrono dalla data di modifica delle norme che regolano in campo nazionale l’indennità di fine servizio, si interpreta nel senso che la modifica è riferita all’approvazione a livello nazionale della nuova disciplina del trattamento di fine servizio indipendentemente dalla istituzione dei fondi pensione e dall’esercizio delle opzioni da parte dei dipendenti regionali previsti dalla L. n. 449 del 1997. Il trattamento di previdenza di cui alla L. R. 7 luglio 1981, n. 38, artt. 16, 17 e 18 (Disposizioni sull’ordinamento, sullo stato giuridico e sul trattamento economico dei dipendenti regionali in attuazione dell’accordo relativo al contratto nazionale 1979/81 per il personale delle Regioni a statuto ordinario) è abrogato quindi a far tempo dal 30 maggio 2000, data di entrata in vigore del D.P.C.M. 20 dicembre 1999, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 15 maggio 2000, n. 111″.

La questione posta dal ricorso consiste nello stabilire se tale abrogazione abbia effetto retroattivo, con la conseguenza che i dipendenti regionali cessati dal servizio successivamente al 30 maggio 2000 non abbiano più diritto al trattamento previsto dalla L. R. n. 38 del 1981, o se, invece, la retroattività sia esclusa e i dipendenti conservino il diritto al trattamento già maturato sino alla data anzidetta, senza tuttavia alcun accrescimento dello stesso per il periodo successivo.

La Corte, conformemente a quanto già affermato nella sentenza 18501/2008 della sezione lavoro, ritiene esatta la seconda soluzione, sulla base delle seguenti considerazioni.

La tesi dell’effetto retroattivo dell’abrogazione contrasta anzitutto con il principio stabilito dall’art. 11 preleggi, secondo cui la retroattività avrebbe dovuto formare oggetto di previsione specifica (v. Cass. 680/95; 10400/1996; 6519/2000; 1789/2008; 5210/2009) nel caso di specie del tutto assente.

La L. R. n. 19 del 2004, impone, inoltre, all’interprete di considerare che la modifica delle norme regolatrici dell’indennità di servizio in campo nazionale richiamata nella disposizione interpretata sia da intendere come riferita ” all’approvazione della nuova disciplina del trattamento di fine servizio indipendentemente dalla istituzione dei fondi pensione e dall’esercizio delle opzioni previsti dalla L. n. 449 del 1997″. Questa indicazione potrebbe apparire ambigua, potendo esser controvertibile l’individuazione del momento a partire dal quale deve considerarsi “approvata” la nuova disciplina della materia. L’ambiguità è tuttavia risolta dallo stesso legislatore regionale che ha individuato nel D.P.C.M. 20 dicembre 1999, il testo normativo recante la nuova disciplina del trattamento di fine rapporto in ambito nazionale ed ha conseguentemente stabilito nella data della sua entrata in vigore il momento dal quale deve ritenersi operante l’effetto abrogativo originariamente regolato dalla L. R. n. 16 del 1996.

In una situazione nella quale sarebbe stato possibile ipotizzare un diverso riferimento temporale, la scelta della norma interpretativa è stata quindi netta nel senso di collegare la cessazione degli effetti delle norme in materia di trattamento integrativo al momento in cui, con l’entrata in vigore del DPCM, contemplato già nella L. 8 agosto 1995, n. 335, la riforma del trattamento di fine rapporto è divenuta operante.

In conclusione, la legge in esame non solo non contiene elementi che facciano chiaramente deporre per la sua retroattività ma esibisce elementi di segno palesemente contrario.

L’irretroattività della norma di cui si tratta comporta- come già rilevato – che, per il periodo successivo alla data dalla quale opera l’effetto abrogativo delle disposizioni relative all’omogeneizzazione del trattamento previdenziale, i dipendenti regionali non hanno più diritto al trattamento integrativo accordato dalla L. R. 7 luglio 1981, n. 38, mentre mantengono il diritto al trattamento maturato nel periodo precedente.

Questa conclusione, raggiungibile in base alle chiare indicazioni del legislatore regionale, lette alla luce del principio generale di irretroattività, è peraltro ulteriormente avvalorata da considerazioni di natura sistematica, la comprensione delle quali richiede che vengano richiamate le norme di legge statale rilevanti in materia.

La cit. L. 8 agosto 1995, n. 335 recante “Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare” all’art. 2, la cui rubrica reca “Armonizzazione”, ha così disposto nei commi 5, 6 e 7.

“5. Per i lavoratori assunti dal 1^ gennaio 1996 alle dipendenze delle Amministrazioni pubbliche di cui al D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 1, i trattamenti di fine servizio, comunque denominati, sono regolati in base a quanto previsto dall’art. 2120 c.c., in materia di trattamento di fine rapporto.

6. La contrattazione collettiva nazionale in conformità alle disposizioni del titolo 3^ D.Lgs. febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni ed integrazioni, definisce, nell’ambito dei singoli comparti, entro il 30 novembre 1995, le modalità di attuazione di quanto previsto dal comma 5, con riferimento ai conseguenti adeguamenti della struttura retributiva e contributiva del personale di cui al medesimo comma, anche ai fini di cui al D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, art. 8, comma 4, e successive modificazioni ed integrazioni, disciplinante le forme pensionistiche complementari.

Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per la funzione pubblica, di concerto con il Ministro del tesoro e con il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, entro trenta giorni si provvede a dettare norme di esecuzione di quanto definito ai sensi del primo periodo del presente comma.

7. La contrattazione collettiva nazionale, nell’ambito dei singoli comparti, definisce, altresì, ai sensi del comma 6, le modalità per l’applicazione, nei confronti dei lavoratori già occupati alla data del 31 dicembre 1995, della disciplina in materia di trattamento di fine rapporto. Trova applicazione quanto previsto dal secondo periodo del comma 6 in materia di disposizioni di esecuzione”.

Con la L. 27 dicembre 1997, n. 449, art. 59, comma 56, è stato poi stabilito che:

“Fermo restando quanto previsto dalla L. 8 agosto 1995, n. 335, e successive modificazioni, in materia di applicazione delle disposizioni relative al trattamento di fine rapporto delle pubbliche amministrazioni, al fine di favorire il processo di attuazione per i predetti delle disposizioni in materia di previdenza complementare viene prevista la possibilità di richiedere la trasformazione dell’indennità di fine servizio in trattamento di fine rapporto. Per coloro che optano in tal senso una quota della vigente aliquota contributiva relativa all’indennità di fine servizio prevista dalle gestioni previdenziali di appartenenza, pari all’1,5 per cento, verrà destinata a previdenza complementare nei modi e con la gradualità da definirsi in sede di specifica trattativa con le organizzazioni sindacali dei lavoratori”.

In questo quadro si inserisce quindi il D.P.C.M. 20 dicembre 1999 (“Trattamento di fine rapporto e istituzione dei fondi pensione dei pubblici dipendenti) emanato in base alle previsioni della L. n. 335 del 1995, soprarichiamata.

All’art. 1, comma 1, primo e secondo periodo, di questo decreto si legge infatti che “L’esercizio dell’opzione di cui alla L. n. 449 del 1997, art. 59, comma 56, avviene mediante sottoscrizione del modulo di adesione al fondo pensione e comporta l’applicazione della disciplina prevista dalla L. 29 maggio 1982, n. 297, art. 1. Il computo dell’indennità di fine servizio maturata fino a tale data sarà effettuato secondo le regole della previgente normativa”.

Come previsto dalle disposizioni della cit. L. n. 335 del 1995, in materia è intervenuta anche l’autonomia collettiva.

Infatti, con l’Accordo quadro nazionale in materia di trattamento di fine rapporto e di previdenza complementare per i dipendenti pubblici 29 luglio 1999 – il cui campo di applicazione secondo l’art. 1 dello stesso accordo è costituito da “tutti i dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui al D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 art. 1, comma 2 e successive modificazioni e integrazioni” e perciò anche dai dipendenti delle Regioni – è stato disposto nell’art. 2 (rubricato come “Modalità applicative e decorrenze della disciplina del TFR”) che:

“1. Ai dipendenti assunti a far tempo dalla data di entrata in vigore del DPCM previsto dalla L. n. 335 del 1995, art. 2, commi 6 e 7, e richiamato dalla L. n. 448 del 1998, si applica quanto previsto dall’art. 2120 c.c., in materia di trattamento di fine rapporto.

2. Ai dipendenti assunti a far tempo dal 1^ gennaio 1996 e fino al giorno precedente alla data di entrata in vigore del DPCM di cui al comma 1 si applica la disciplina prevista per i dipendenti già in servizio alla data del 31 dicembre 1995.

3. I dipendenti già in servizio alla data del 31 dicembre 1995 e quelli di cui al comma 2 possono esercitare l’opzione prevista dalla L. n. 449 del 1997, art. 59, comma 56, richiedendo la trasformazione dell’indennità di fine servizio comunque denominata in TFR, con gli effetti di cui all’art. 3. Il termine per l’opzione è fissato in coincidenza con la scadenza del quadriennio contrattuale 1998-2001, salvo ulteriore proroga del termine stesso, che le parti potranno concordare. Per i dipendenti che non eserciteranno l’opzione resterà fermo, con le regole attuali, il vigente trattamento di fine servizio”.

Il successivo art. 3 dell’Accordo, rubricato come ” Effetti sul TFR” e costituito da due commi, per ciò che rileva ha previsto che:

“1. In ottemperanza a quanto stabilito dalla della L. n. 449 del 1997, art. 59, comma 56, l’esercizio dell’opzione per l’iscrizione ai Fondi pensione di cui al successivo Capo 2^ presuppone necessariamente – in quanto condizione imprescindibile per favorire nell’ottica della legge richiamata il finanziamento della previdenza complementare – l’applicazione della disciplina dell’art. 2120 c.c., in materia di TFR. 2. Dalla data di esercizio dell’opzione le quote del TFR saranno calcolate applicando le regole previste dall’art. 2120 c.c.. Il computo dell’indennità di fine servizio già maturata dal dipendente fino alla data di esercizio dell’opzione mediante sottoscrizione del modulo di adesione al Fondo pensione sarà effettuato secondo le regole della previgente normativa”.

Dall’insieme delle disposizioni richiamate si desume quindi che per i dipendenti assunti prima di una certa data è consentita, previa opzione, la trasformazione dell’indennità di fine servizio in t.f.r..

Anche in presenza di tale trasformazione l’indennità già maturata resta assoggettata alle regole previgenti. In caso di mancato esercizio dell’opzione le dette regole si applicano a tutto il trattamento di fine servizio.

Quello contemplato dalla L. R. 7 luglio 1981, n. 38, art. 16, costituisce un trattamento di fine servizio, come è reso palese dallo scopo per il quale è stato istituito, emergente dalla stessa formulazione del cit. art. 16, il quale ha inteso assicurare un trattamento, definito previdenziale, ma al tempo stesso qualificato come indennità di anzianità, “in attesa della modifica delle norme che regolano in campo nazionale l’indennità di fine servizio per il personale regionale”.

E’ quindi coerente con tali premesse la L. R. n. 19 del 2004, art. 7, comma 12, se interpretato nel senso che esso conservi il trattamento in questione fino al vigore del D.P.C.M. 20 dicembre 1999, muovendosi secondo lo stesso principio del “pro-rata” ivi adottato e confermato poi dalle scelte dell’autonomia collettiva.

D’altra parte – come messo in evidenza nella già cit. Cass. 18501/2008 – anticipando l’effetto abrogativo ad un momento anteriore al 30 maggio 2000, quando cioè non era ancora stata realizzata la modifica delle norme regolatrici in campo nazionale del trattamento di fine rapporto dei pubblici dipendenti, verrebbe frustrato proprio lo scopo di omogeneizzazione del trattamento previdenziale del personale regionale, assicurato fino a tale momento dall’integrazione prevista dalla L. R. 7 luglio 1981, n. 38.

La ricorrente contesta che lo scopo di omogeneizzazione possa realizzarsi prima del momento in cui cessa il rapporto e sorge l’obbligo di corresponsione del trattamento, e sostiene che raggiunta l’uniformità dei trattamenti di fine servizio cesserebbe la “ratio” dell’emolumento integrativo.

Ma in senso contrario deve osservarsi che, secondo il già richiamato principio per cui la parte di rapporto svoltasi anteriormente al vigore del D.P.C.M. del 1999 viene regolata in base alle norme previgenti, le prestazioni previdenziali riferite al detto periodo di lavoro, da integrare in conformità della L. R. n. 38 del 1981 mantengono le loro caratteristiche di disomogeneità e non fanno venir meno quindi l’esigenza di omogeneizzazione perseguita dalla legge cit..

La ricorrente critica, poi, il ricorso al criterio del “pro-rata”, sostenendo che esso sarebbe privo di rilievo in relazione ad una norma abrogativa del precedente trattamento e che il legislatore nazionale, nel prevedere che l’indennità di fine servizio maturata prima del vigore del nuovo sistema di calcolo sia computata secondo la normativa previgente (v. D.P.C.M. 20 dicembre 1999, art. 1) non avrebbe inteso richiamare i trattamenti integrativi previsti dalle leggi regionali,sia perchè, così facendo, avrebbe leso le competenze regionali, sia perchè la formulazione testuale dell’Accordo Nazionale Quadro del luglio 1999 porterebbe ad escludere un siffatto richiamo.

Ma la critica non coglie nel segno perchè, anzitutto, il problema è di stabilire entro quali limiti temporali operi la disposta abrogazione, sicchè, in linea di principio per il periodo di riconosciuta vigenza delle norme poi abrogate, il criterio del “pro- rata” potrebbe operare, e perchè, in secondo luogo, il criterio vale quale elemento di interpretazione della L. R. n. 19 del 2004, in modo conforme ad un principio generale, al fine di affermarne la non retroattività, in assenza di indicazioni decisive in tal senso.

La ricorrente addebita ancora alla sentenza impugnata di aver trascurato il contenuto della L. R. n. 38 del 198, art. 16, disposizione che, nel determinare il trattamento integrativo, fa riferimento all’ultima retribuzione annua lorda e pertanto ad un elemento collegato con il termine del rapporto, distinguendosi significativamente dalla disciplina del t.f.r., nel quale il trattamento è calcolato sulla retribuzione riscossa di anno in anno.

Sostiene, inoltre, che per la sua natura di integrazione, l’indennità di anzianità regionale presupporrebbe un trattamento base, a sua volta calcolato e corrisposto alla cessazione del rapporto.

Anche tale censura non è condivisibile, poichè quelle evidenziate dalla ricorrente sono modalità di calcolo che non alterano il carattere della integrazione.

Infine, contro la tesi della maturazione dell’indennità nel corso del rapporto, la ricorrente fa valere la mancanza dei corrispondenti accantonamenti periodici, ed afferma che, una volta esclusa una siffatta modalità di maturazione, l’indennità, non costituendo oggetto di diritti quesiti anteriormente alla cessazione del rapporto, potrebbe fino a tale momento esser soppressa. Quindi, l’abrogazione delle pertinenti disposizioni della L. n. 38 del 1981, dal 30 maggio 2000 non implicherebbe che per il periodo anteriore esse avessero prodotto alcun effetto.

Per rispondere a tale censura vale ricordare, richiamando testualmente la già più volte cit. Cass. che 18501/2008, che “è, proprio, il dato strutturale della erogazione a carico del datore di lavoro (quale, appunto, la regione Lombardia) e la inerenza al rapporto di lavoro – anzichè la erogazione, da parte di un ente previdenziale (o da un Fondo di previdenza integrativa o complementare), in dipendenza di un rapporto parimenti previdenziale (del quale il rapporto di lavoro costituisce soltanto presupposto) – a sorreggere la proposta qualificazione – come retributivo – del trattamento in questione (vedi, con riferimento a casi analoghi rispetto a quello dedotto nel presente giudizio, Cass. n. 7434/91, 8020/2004, cit.; vedi, altresì, Cass., sez. un., n. 11329/2005, 2386/2001, 7965/1997 della sezione lavoro, nonchè Corte cost. n. 91/2004, 434/97, 99 e 243/93)”.

Dalle considerazioni che precedono risulta infine confutato anche il terzo motivo del ricorso. Le conclusioni cui è pervenuta la Corte territoriale, qui condivise, sono frutto di indagine sul significato della norma controversa, condotta alla stregua del criterio letterale e sistematico e non possono in alcun modo considerarsi non raggiungibili in via interpretativa.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato e nel ribadire quanto già statuito da Cass. 18051/2008, va affermato il seguente principio di diritto:

“Il trattamento di fine rapporto dei dipendenti pubblici, di cui al D.P.C.M. 20 dicembre 1999, ha sostituito, a decorrere dalla sua entrata in vigore (30 maggio 2000), l’indennità di anzianità prevista in favore dei dipendenti regionali dalla L. R. Lombardia n. 38 del 1981, artt. da 16 a 18, avendo entrambi gli emolumenti natura retributiva (sia pure con funzione previdenziale), mentre deve escludersi – sulla base, oltre che del generale principio di irretroattività della legge, delle esigenze di omogeneizzazione del trattamento di previdenza del personale regionale perseguite dalla legge reg. disciplinatrice dell’indennità di anzianità, in attesa della modifica delle norme che regolano l’indennità di fine servizio, nonchè della coerenza con il criterio del pro-rata introdotto dalla nuova disciplina in relazione ai diversi trattamenti – che l’abrogazione delle disposizioni relative all’indennità possa operare retroattivamente”. L’obiettiva complessità della questione rende opportuna la compensazione delle spese di lite.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso; compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 16 aprile 2010

 

 

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