Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9133 del 07/04/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 07/04/2017, (ud. 08/03/2017, dep.07/04/2017),  n. 9133

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – rel. Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6789-2016 proposto da:

P.I. SPA C. F. – P.I. 97103880585, in persona del

Responsabile della Funzione Risorse Umane, elettivamente domiciliata

in ROMA, VIA PO 25-B, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO PESSI,

che la rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

BA I FISTELLI MONICA, elettivamente domiciliata a ROMA, VIA

POSTUMIA 3 presso lo studio dell’avvocato GIULIO MICIONI,

rappresentata e difesa dall’avvocato SILVANA BRACHE 1’1’I giusta

procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

POSTE ITALIANE SPA, C.F. – P.I. (OMISSIS), in persona del

Responsabile della Funzione Risorse Umane, elettivamente domiciliata

in ROMA, VIA PO 25-B, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO PESSI,

che la rappresenta e difende;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 207/2015 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 12/03/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata dell’08/03/2017 dal Consigliere Dott. PAOLA GHINOY.

Fatto

RILEVATO

che:

1. la Corte d’appello di L’Aquila, decidendo quale giudice del rinvio disposto da questa Corte di Cassazione con la sentenza n. 24105 del 2012 che aveva cassato la sentenza della Corte d’appello di Ancona demandando al giudice del rinvio di determinare il danno subito da B.M. per l’illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro intercorso con Poste italiane s.p.a. in applicazione dello ius superveniens costituito dalla L. n. 183 del 2010, art. 32 – quantificava l’indennità risarcitoria in n. 4 mensilità dell’ultima retribuzione percepita; decidendo sulla domanda di restituzione di quanto percepito in eccesso formulata da Poste italiane s.p.a., condannava la B. a restituire la somma netta pari al lordo di Euro 34.364,00, detratte le quattro mensilità della retribuzione globale di fatto, comprensiva di interessi e rivalutazione monetaria; compensava tra le parti le spese di tutti i gradi di giudizio, ivi comprese quelle del giudizio di cassazione e di quello di rinvio.

2. Per la cassazione di tale sentenza Poste italiane s.p.a. ha proposto ricorso, affidato ad un unico motivo, cui ha resistito con controricorso B.M., che ha proposto altresì ricorso incidentale affidato a due emotivi, cui ha resistito con controricorso Poste. La B. ha depositato anche memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma 2.

3. Il ricorso principale e quello incidentale sono stati riuniti ex art. 335 c.p.c. in quanto proposti avverso la medesima sentenza.

4. Il Collegio ha autorizzato la redazione della motivazione in forma semplificata.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. a fondamento del ricorso principale, Poste deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 389 e 336 c.p.c. artt. 1173, 1175, 1176, 1218, 1223, 1224 e 1277 c.c., nonchè la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, art. 118 disp. att. c.p.c., comma 1 e dell’art. 111 Cost.; omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti. Lamenta che la Corte d’appello, decidendo sull’obbligazione restitutoria della B., abbia detratto dalla somma lorda di Euro 62.083,26, corrisposta all’esito della sentenza del Tribunale di Pesaro, l’importo di Euro 27.719,00 deducendo erroneamente che sarebbe stato corrisposto a titolo di corrispettivo per la rinuncia alla ricostituzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Sostiene che tale importo in realtà è stato corrisposto a titolo di retribuzioni arretrate e dunque con funzione risarcitoria, come risulterebbe dalla documentazione depositata in atti dalla stessa controparte, ed in particolare dal modello CUD relativo all’anno 2008 e dal cedolino dello stipendio relativo al mese di febbraio 2007, essendo il rapporto cessato per dimissioni in data 24/10/2006 e non essendo stato mai sottoscritto alcun accordo transattivo tra le parti. Sostiene che Poste aveva diritto ad ottenere in restituzione tutte le somme effettivamente percepite in eccesso dalla controparte a titolo risarcitorio e/o retributivo, e quindi tutto quanto erogato, comprensivo della somma erroneamente detratta.

2. Il ricorso principale – contrariamente a quanto eccepito dalla controricorrente – è ammissibile, in quanto rispetta i canoni di allegazione e produzione previsti dagli artt. 366 e 369 c.p.c., contenendo sintetica esposizione dei fatti rilevanti e producendo la documentazione a sostegno delle argomentazioni svolte. Quanto al fatto che il motivo contenga censure plurime, occorre ribadire che l’inammissibilità di cui si discute non può sussistere allorquando, com’è nel caso, il ricorso per cassazione, pur presentando congiuntamente in rubrica plurimi profili di censura, esibisca sufficiente specificità, cioè la caratteristica che principalmente contraddistingue l’impugnazione in sede di legittimità. Pertanto, allorquando il motivo di ricorso evidenzi i profili attinenti la ricostruzione del fatto e passi con distinte argomentazioni alla trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o alla applicazione delle norme appropriate alla fattispecie, non v’è ragione per rilevare vizi del ricorso stesso, dovendosi privilegiare la finalità di consentire al collegio giudicante di cogliere l’impianto della censura (così Cass. n. 9793 del 23/04/2013 e Sez. U, n. 9100 del 06/05/2015).

3. Ritiene però il Collegio che il motivo sia infondato.

Dalla valutazione delle risultanze documentali (ed in specie dal doc. 7 allegato al fascicolo della lavoratrice) la Corte di merito ha tratto il convincimento che l’importo erogato in eccesso a titolo di indennità risarcitoria per l’illegittima apposizione del termine contrattuale fosse quello indicato nello storico di lite.

Laddove il motivo censura tale ricostruzione, esso è inammissibile, considerato che il vizio di motivazione è limitato alle ipotesi in cui vi sia stato da parte del giudice di merito 1′ omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (e cioè che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia) (v. Cass. S.0 07/04/2014, n. 8053 e 8054), mentre nel caso i documenti valorizzati nel ricorso per cassazione (cedolino del febbraio 2007 e modello CUD del 2008) non sono idonei a smentire la soluzione adottata, indicando solo che gli importi complessivamente erogati alla B. sono stati pari ad Euro 62.083,00 lordi, ma non il titolo della loro erogazione. Tale titolo peraltro avrebbe dovuto essere dimostrato da Poste, considerato che nella domanda di ripetizione di indebito oggettivo l’onere della prova grava sul creditore istante, il quale è tenuto a provare i fatti costitutivi della sua pretesa, e dunque sia l’avvenuto pagamento, sia la mancanza di una causa che io giustifichi, ovvero il venir meno di questa (Cass. 13/11/ 2003, n. 1146; Cass. 10/11/2010, n. 22872, Cass. 14/05/2012 n. 7501) sicchè doveva essere Poste a dimostrare l’esatta corrispondenza tra quanto erogato ed indicato nei suddetti documenti e quanto liquidato in esecuzione della sentenza del Tribunale di Pesaro, sì da escludere che la parte pari ad Euro 27.719,00 costituisse adempimento delle diverse voci di credito prospettate dalla controparte.

4. A fondamento del ricorso incidentale, B.M. deduce come primo motivo “violazione e falsa applicazione del principio della valenza erga omnes ed ex tunc delle sentenze pregiudiziali emesse dalla Corte di giustizia europea e, conseguentemente, violazione e falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5 per dichiarato contrasto con la Direttiva 1999/70 CE e violazione del principio di non discriminazione – inapplicabilità la fattispecie per cui è causa del regime risarcitorio introdotto dalla L. n. 183 del 2010 per dichiarato contrasto con la direttiva 1999/70 CE e violazione del principio di non discriminazione – sentenza della Corte di giustizia europea 12 dicembre 2013 n. 361 Carratù”.

5. Come secondo motivo, deduce violazione e falsa applicazione del combinato disposto della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5 e della L. n. 604 del 1966, art. 8 e sostiene che la corretta applicazione dei criteri di legge avrebbe dovuto condurre al riconoscimento dell’indennità in parola nel limite massimo previsto dalla legge di n. 12 mensilità di retribuzione.

4. Il primo motivo del ricorso incidentale non è fondato.

Questa Corte ha già risolto i dubbi di compatibilità della normativa richiamata con i principi costituzionali e sovranazionali. Nella sentenza 09/01/2015 n. 151 ha ribadito, richiamando i precedenti arresti 6/2/2014 n. 2760 e 17/7/2014 n. 16420, che deve escludersi che la norma di portata retroattiva abbia (irragionevolmente) disposto di diritti retributivi e previdenziali, di rilievo costituzionale, già entrati nel patrimonio del lavoratore (essendo tale efficacia retroattiva limitata a quelle situazioni in cui, in ordine ai diritti derivanti al lavoratore dalla nullità della clausola di apposizione del termine – con conseguente conversione del rapporto a tempo indeterminato non si è ancora formato il giudicato).

E’ stato altresì ivi evidenziato che la norma interpretativa non ha inteso realizzare una illecita ingerenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia, allo scopo d’influenzare la risoluzione di controversie, posto che, in realtà, ha fatto propria una soluzione già adottata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (cfr. ex plurimis, Corte cost. n. 257/2011); la stessa norma interpretativa, inoltre, costituisce disposizione di carattere generale, che, al pari di quelle di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5, 6 e 7, non favorisce selettivamente lo Stato o altro ente pubblico (o in mano pubblica), perchè le controversie su cui essa è destinata ad incidere non hanno specificamente ad oggetto i rapporti di lavoro precario alle dipendenze di soggetti pubblici, ma tutti i rapporti di lavoro subordinato a termine.

Si è poi aggiunto (cfr. Cass. 14 ottobre 2014 n. 21701 e 09/01/2015 n. 151, già cit.) che neppure è fondata la questione di verifica della conformità del citato art. 32 (come autenticamente interpretato) alla Direttiva CE n. 70/99 (clausola 4 punto 1 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato e clausola 8 punto 1), in quanto si tratterebbe di norma capace di determinare una drastica riduzione (rispetto alla normativa previgente) dell’indennità risarcitoria nei casi di conversione del rapporto laddove la lettura combinata delle indicate clausole legittimerebbe, per i lavoratori che si trovino in situazioni comparabili, solo la possibilità di introdurre disposizioni più favorevoli. Si è infatti osservato che la Corte di Giustizia, con la sentenza Carratù, richiamata dalla stessa ricorrente incidentale, ha innanzitutto precisato che la scelta dello Stato italiano di prevedere, per l’ipotesi dei contratto a termine illegittimo, un regime risarcitorio diverso e meno favorevole rispetto a quello applicato in caso di licenziamento illegittimo, non contrasta con il diritto comunitario. Inoltre, con l’art. 32, il legislatore non ha stabilito una parametrazione del risarcimento in misura diversa ed inferiore rispetto ad analoga parametrazione del sistema previgente, tale da consentire un raffronto teorico ai fini di una valutazione in termini di drastica riduzione. Prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina, infatti, in relazione alla scadenza del contratto a termine operavano le sanzioni tipiche previste dall’ordinamento che si ricollegano all’applicazione delle regole generali civilistiche collegate alla nullità della clausola appositiva del termine, alla conversione del rapporto ex tunc in rapporto a tempo indeterminato ed alla mora del datore di lavoro. L’introduzione di una indennità comunque dovuta a prescindere da un danno effettivo ed i cui limiti sono stati parametrati dal legislatore tra un minimo ed un massimo (tenendo conto del vantaggio per il lavoratore derivante dal mantenimento della regola di “conversione”), non è, dunque, automaticamente ovvero necessariamente meno favorevole rispetto ad un sistema in cui la liquidazione del risarcimento andava effettuata caso per caso dal giudice, anche mediante il ricorso a presunzioni semplici sull’aliunde perceptum e percipiendum.

Nella successiva sentenza n. 16545 del 05/08/2016, si è poi escluso che la L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, come autenticamente interpretato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 13, contrasti con la giurisprudenza della Corte EDU (e segnatamente con la sentenza 7 giugno 2011, in causa Agrati ed altri contro Italia) in quanto essa è giustificata da ragioni di “pubblica utilità”, suscettibili di legittimare limitazioni al diritto di proprietà, la cui valutazione compete, prioritariamente, alle autorità nazionali, che vantano una posizione migliore rispetto alle autorità giurisdizionali internazionali, tanto più che, riguardando non un diritto già attuale ed esigibile, ma soltanto una “legittima speranza” di ottenere il pagamento delle somme controverse, essa assolve, in linea con quanto affermato da Corte cost. n. 303 del 2011, una finalità perequativa di semplificazione e certezza applicativa di interesse generale.

5. Il secondo motivo del ricorso incidentale è inammissibile.

Questa Corte ha già affermato che la determinazione, tra il minimo e il massimo, della misura dell’indennità prevista dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, – che richiama i criteri indicati dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8 – spetta al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per motivazione assente, illogica o contraddittoria (Cass. 17/03/2014 n. 6122, 31/03/2014 n. 7458).

La Corte territoriale ha motivato la scelta di limitare a n. 4 mensilità di retribuzione l’indennità risarcitoria, valorizzando la durata del contratto a termine (circa quattro mesi) il numero dei dipendenti occupati da Poste in relazione alle dimensioni aziendali, il comportamento delle parti tenendo conto del tempo che la lavoratrice aveva atteso per far valere le proprie ragioni. La motivazione quindi sul punto è esente da vizi e il motivo, pur rubricato come violazione di legge, chiede in sostanza un riesame del merito delle conclusioni cui è giunta la Corte territoriale, in violazione dei limiti che incontra questa Corte di legittimità in relazione alla censura proposta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come individuati da Cass. S.U. 07/04/2014, n. 8053 e 8054.

6. Segue il rigetto di entrambi i ricorsi. Le spese processuali vengono compensate tra le parti, in ragione della reciproca soccombenza.

7. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale e di quella incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

Rigetta il ricorso principale e quello incidentale. Compensa tra le parti le spese del giudizio.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente principale e di quella incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e per quello incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Motivazione semplificata.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 8 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 7 aprile 2017

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