Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9117 del 01/04/2021

Cassazione civile sez. lav., 01/04/2021, (ud. 19/01/2021, dep. 01/04/2021), n.9117

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19087/2017 proposto da:

MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI E DELLA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE, in

persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege

dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia

in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;

– ricorrente –

contro

C.S.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

OTTORINO LAZZARINI N. 19, presso lo studio degli avvocati ANDREA

SGUEGLIA, e UGO SGUEGLIA, che la rappresentano e difendono;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5395/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 06/03/2017 R.G.N. 3373/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

19/01/2021 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MUCCI Roberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato UGO SGUEGLIA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Roma ha respinto l’appello proposto dal Ministero degli Affari Esteri avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva accolto il ricorso di C.S.M. ed aveva dichiarato il diritto della ricorrente a percepire, dopo il collocamento a riposo, il trattamento di quiescenza e previdenza calcolato sulla base dell’intera anzianità di servizio maturata a far tempo dal 1 luglio 1982.

2. La Corte territoriale ha premesso che l’appellata dalla data sopra indicata aveva prestato servizio, senza soluzione di continuità, sulla base di contratti regolati dalla legge locale sino a quando aveva ottenuto, a decorrere dal 1 gennaio 1996, la conversione del rapporto ai sensi della L. n. 462 del 1980, art. 4, con conseguente assoggettamento del rapporto medesimo alla legge italiana ed alla disciplina dettata dal D.P.R. n. 18 del 1967.

3. Il giudice d’appello ha respinto l’eccezione di prescrizione reiterata con l’atto di gravame, rilevando che il diritto a percepire il trattamento di quiescenza sorge alla cessazione definitiva del rapporto e, pertanto, fermo l’interesse del lavoratore a richiedere una pronuncia di accertamento già in pendenza del rapporto medesimo, si può prescrivere solo se l’inerzia si colloca dopo la risoluzione del contratto.

4. Nel merito la Corte ha fondato la decisione sul contenuto del contratto originario intercorso fra le parti ed ha evidenziato che quest’ultimo prevedeva, all’art. 10, l’esclusione del trattamento di fine rapporto nel caso in cui fosse stato stipulato immediatamente un nuovo contratto “connesso con un reddito”. Ha ritenuto che con la clausola in parola le parti non avessero inteso escludere il diritto a percepire le competenze connesse alla cessazione del contratto, bensì solo differirne la liquidazione alla data della cessazione del rapporto successivo. Ne ha desunto l’irrilevanza della questione, prospettata dal Ministero, circa gli effetti prodotti dal contratto a tempo indeterminato del 1 gennaio 1996 perchè evidentemente anche quest’ultimo contratto rientrava nell’ambito di operatività della clausola 10 del negozio originario.

5. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il Ministero degli Affari Esteri sulla base di quattro motivi, ai quali C.S.M. ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il Ministero denuncia ex art. 360 c.p.c., n. 3, “travisamento degli atti di causa; violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1” e rileva che la clausola 10 cui fa riferimento la sentenza impugnata non è contenuta nei contratti di impiego stipulati con la C.. Aggiunge che la Corte territoriale ha riprodotto la motivazione di altra decisione pronunciata in un giudizio nel quale erano state proposte domande analoghe, ma sulla base di presupposti di fatto diversi.

2. La seconda critica, formulata sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2935 e 2948 c.c., perchè il diritto poteva essere esercitato già dalla data di conversione del rapporto, ossia dal 1 gennaio 1996, in quanto l’amministrazione aveva provveduto a liquidare all’originaria ricorrente tutte le competenze inerenti i contratti ormai risolti. Il Ministero aggiunge, invocando giurisprudenza di questa Corte, che qualora fra le parti si succedano più contratti di lavoro a termine, ognuno legittimo ed efficace, la prescrizione inizia a decorrere dalla cessazione di ciascun contratto. Precisa, infine, che la stessa C.S. aveva richiesto la corresponsione del TFR per i contratti di impiego regolati dalla legge locale e la richiesta era stata respinta perchè nulla era dovuto a tale titolo, sulla base della legislazione argentina e del regolamento contrattuale.

3. Con il terzo motivo il Ministero si duole della violazione degli artt. 1372 e 1230 c.c., nonchè del D.P.R. n. 18 del 1967, art. 154, u.c., come modificato dalla L. n. 482 del 1980, art. 4 e rileva che il giudice d’appello non ha valutato il contratto a tempo indeterminato sottoscritto dalle parti e regolato dalla legge italiana, che prevedeva espressamente che l’anzianità decorreva dal 1 gennaio 1996. Aggiunge che al momento della conversione si verifica il passaggio ad un diverso regime giuridico che non implica la configurabilità di “un unico ibrido rapporto di lavoro con inammissibile applicazione retroattiva di istituti propri soltanto del sopravvenuto rapporto a legislazione italiana”. Rileva, infine, che il D.P.R. n. 18 del 1967, art. 154, prevede un tipico caso di novazione oggettiva con la creazione di un nuovo rapporto lavorativo, fondato su un titolo differente.

4. La quarta censura addebita alla Corte territoriale di avere violato la disciplina speciale dettata dal D.P.R. n. 18 del 1967, nell’affermare che il trattamento di fine servizio ha natura di retribuzione differita e va necessariamente commisurato all’intera anzianità. Sostiene che, qualora il rapporto sia regolato dalla legge locale, non spetta l’indennità di buonuscita prevista dall’ordinamento italiano e, quindi, occorre accertare se la legislazione straniera preveda un’analoga indennità, circostanza, questa, da escludere in relazione alla disciplina del rapporto di lavoro dettata dalla legge argentina. Deduce, inoltre, il ricorrente che il D.Lgs. n. 103 del 2000 ha riformato l’intera materia ed ha soppresso del D.P.R. n. 18 del 1967, art. 166, u.c., facendo salvo solo il diritto all’indennità di fine rapporto nella misura prevista dai contratti individuali per gli impiegati in servizio alla data di entrata in vigore della legge.

5. E’ infondata l’eccezione di improcedibilità del ricorso, sollevata dalla controricorrente nella memoria ex art. 378 c.p.c..

Risulta dagli atti che il Ministero, dopo aver notificato un primo ricorso in data 13 luglio 2017, ha notificato il 26 luglio 2017 altro ricorso, datato 24 luglio, ed ha poi provveduto al deposito ed all’iscrizione a ruolo di quest’ultimo atto il 4 agosto 2017.

Il deposito non può essere ritenuto tardivo, come sostenuto dalla controricorrente, perchè nella specie non si è verificata la rinnovazione della notifica del medesimo atto, rispetto alla quale, ai fini di cui all’art. 369 c.p.c., rileva solo la prima notifica se non affetta da nullità (Cass. n. 23264/2017).

Al contrario il Ministero ha notificato un ricorso che, seppure di analogo contenuto, è autonomo rispetto al precedente (ed infatti è datato 24 luglio 2017) sicchè opera il diverso principio, affermato da questa Corte, secondo cui qualora la sentenza sia stata impugnata con due successivi ricorsi per cassazione, il primo dei quali non sia stato depositato dal ricorrente, è ammissibile la proposizione del secondo, purchè la notificazione dello stesso abbia avuto luogo nel rispetto del termine breve decorrente dalla notificazione del primo, e l’improcedibilità di quest’ultimo non sia stata ancora dichiarata, non comportando la mera notificazione del primo ricorso la consumazione del potere d’impugnazione (Cass. n. 11513/2018 e la giurisprudenza ivi richiamata).

6. E’ invece fondata l’eccezione di inammissibilità del primo motivo, sia perchè formulato senza il necessario rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione di cui all’art. 366 c.p.c. n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4, sia in quanto la censura prospetta un errore revocatorio nel quale sarebbe incorsa la Corte territoriale, errore che non può essere fatto valere in questa sede.

La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare che l’errore rilevante ex art. 395 c.p.c., n. 4, consiste nell’erronea percezione dei fatti di causa che abbia indotto la supposizione dell’esistenza o dell’inesistenza di un fatto la cui verità è incontestabilmente esclusa o accertata dagli atti di causa, a condizione che il fatto oggetto dell’asserito errore non abbia costituito materia del dibattito processuale su cui la pronuncia contestata abbia statuito (cfr. in motivazione Cass. n. 28143/2018 e la giurisprudenza ivi richiamata).

Si è precisato al riguardo che si è in presenza di un errore di fatto allorquando vi sia contrasto tra “due diverse rappresentazioni dello stesso oggetto, una delle quali emergente dalla sentenza, l’altra dagli atti e documenti processuali, purchè la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione, e non di valutazione o di giudizio” (Cass. n. 442/2018) e si è aggiunto che l’assunzione acritica di un fatto, decisivo ai fini della pronuncia adottata, integra un travisamento, rilevante ex art. 395 c.p.c. e non denunciabile con il ricorso per cassazione, perchè il vizio di sussunzione e quello motivazionale presuppongono che il giudice del merito abbia errato nella valutazione e nell’interpretazione degli atti del processo e del comportamento delle parti (Cass. n. 4893/2016).

Nella fattispecie la ratio decidendi della sentenza gravata è tutta incentrata sull’interpretazione della clausola 10 del primo contratto intercorso fra le parti, il cui contenuto nei termini trascritti è dato per presupposto dalla Corte territoriale, sicchè la censura, con la quale si assume che, in realtà, quella clausola, così come indicata, pacificamente non esisteva, perchè inserita in un contratto stipulato da parti diverse, fra le quali si era svolto altro giudizio, finisce per addebitare al giudice d’appello un errore che non è di valutazione bensì di percezione, e che, pertanto, doveva essere fatto valere con il mezzo straordinario di impugnazione disciplinato dagli artt. 395 c.p.c. e segg..

6.1. Alle considerazioni che precedono, già assorbenti, si deve aggiungere che il Ministero non ha trascritto nel ricorso il contenuto del contratto originario e di quelli successivi e si è limitato ad indicare, nell’esposizione sommaria dei fatti di causa (pag. 1 del ricorso), la sede di allocazione dei documenti, prodotti in allegato alla memoria di costituzione nel giudizio di riassunzione.

Nel giudizio di cassazione, a critica vincolata ed essenzialmente basato su atti scritti, essendo ormai solo eventuale la possibilità di illustrazione orale delle difese, i requisiti di completezza e di specificità imposti dall’art. 366 c.p.c., perseguono la finalità di consentire al giudice di legittimità di avere la completa cognizione della controversia, senza necessità di accedere a fonti esterne, e, pertanto, qualora la censura si fondi su atti o documenti è necessario che di quegli atti il ricorrente riporti il contenuto, mediante la trascrizione delle parti rilevanti, precisando, inoltre, in quale sede e con quali modalità gli stessi siano stati acquisiti al processo.

Occorre poi che la parte assolva al distinto onere previsto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 c.p.c., n. 4, perchè l’art. 366 c.p.c., come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 5, riguarda le condizioni di ammissibilità del ricorso mentre la produzione è finalizzata a permettere l’agevole reperibilità del documento, sempre che lo stesso sia stato specificamente indicato nell’impugnazione (Cass. n. 19048/2016).

I richiamati principi sono stati ribaditi dalle Sezioni Unite in recente decisione con la quale si è affermato che “in tema di ricorso per cassazione, sono inammissibili, per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità” (Cass. S.U. n. 34469/2019).

7. Una volta dichiarato inammissibile il primo motivo, resta cristallizzata la decisione nella parte in cui ha ritenuto che la clausola contrattuale attribuiva di per sè il diritto alla liquidazione dell’indennità, differita alla cessazione definitiva del rapporto ma commisurata all’intera anzianità di servizio, e ciò comporta l’inammissibilità anche delle ulteriori censure, tutte formulate sul presupposto che quella clausola non esistesse nei termini indicati e che pertanto la controversia richiedesse l’esame di questioni neppure valutate dalla Corte territoriale.

La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare che l’oggetto del giudizio di legittimità è il controllo sulla legalità e logicità della decisione e quindi il giudizio deve svolgersi entro detti limiti, che non consentono di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa. I motivi, pertanto, devono avere i caratteri della specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, il che comporta l’esatta individuazione del capo di pronunzia impugnata e l’esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le ragioni per le quali quel capo è affetto dal vizio denunciato. Se ne è tratta la conseguenza che la proposizione di censure prive di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi, richiesta dall’art. 366 c.p.c., n. 4 e determina l’inammissibilità, in tutto o in parte del ricorso, rilevabile anche d’ufficio (cfr. fra le tante Cass. n. 20910/2017, Cass. n. 17125/2007, Cass. S.U. n. 14385/2007).

7.1. Quanto, poi, al secondo motivo, che censura il capo della sentenza impugnata che ha rigettato l’eccezione di prescrizione, l’inammissibilità discende, oltre che dalla stretta correlazione con il primo motivo, anche dalla mancata trascrizione, nelle parti rilevanti, dei contratti succedutisi nel tempo, sui quali il Ministero fa leva per sostenere che la prescrizione doveva decorrere dalla scadenza dei singoli rapporti in successione.

8. In via conclusiva il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

Non sussistono le condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, perchè la norma non può trovare applicazione nei confronti di quelle parti che, come le Amministrazioni dello Stato, mediante il meccanismo della prenotazione a debito siano istituzionalmente esonerate, per valutazione normativa della loro qualità soggettiva, dal materiale versamento del contributo (Cass. S.U. n. 4315/2020; Cass. S.U. n. 9938/2014; Cass. n. 1778/2016; Cass. n. 28250/2017).

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 19 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 1 aprile 2021

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