Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9108 del 01/04/2021

Cassazione civile sez. lav., 01/04/2021, (ud. 07/10/2020, dep. 01/04/2021), n.9108

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11483/2018 proposto da:

G.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GABRIELE

CAMOZZI, 9, presso lo studio dell’avvocato STEFANO ROSSI, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ADELAIDE MANGANARO;

– ricorrente –

contro

HAIR STORE DUOMO S.R.L., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TUSCOLANA 16, presso

lo studio dell’avvocato LORENZO CARAVELLA, rappresentata e difesa

dall’avvocato LUCA CARAVELLA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 315/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 16/02/2018 R.G.N. 1339/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/10/2020 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato STEFANO ROSSI e ADELAIDE MANGANARO;

udito l’Avvocato PIERLUIGI MILITE, per delega verbale Avvocato LUCA

CARAVELLA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza resa pubblica il 16/10/2018 la Corte d’Appello di Milano confermava la pronuncia resa dal Tribunale della stessa sede che aveva respinto la domanda proposta da G.A. nei confronti della s.r.l. Hair Store Duomo volta a conseguire l’accertamento della intercorrenza fra le parti di un rapporto di lavoro subordinato – anche ai sensi del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 1 – in qualità di addetto di I livello ccnl di settore con decorrenza 1/11/2013 nonchè della nullità/illegittimità del licenziamento intimato il 13/9/2016 in forma orale e per ragioni ritorsive rispetto al diniego del ricorrente di aderire ad un modello contrattuale imposto dal datore e non gradito.

Nel pervenire a tale convincimento la Corte distrettuale condivideva l’iter argomentativo percorso dal giudice di prima istanza il quale, omessa ogni indagine sulla natura del rapporto inter partes, aveva ritenuto non allegate nè dimostrate circostanze atte a comprovare una estromissione del ricorrente dal contesto lavorativo nel cui ambito sino ad allora aveva operato.

Le acquisizioni probatorie oggetto di vaglio (segnatamente la interlocuzione fra il ricorrente ed il legale rappresentante della società tracciata dai messaggi acquisiti agli atti) avevano imposto l’evidenza del verificarsi di uno stato di sospensione di ogni determinazione da parte societaria, in ordine alla continuazione ovvero alla cessazione del rapporto di lavoro in essere, nella attesa che il G. esprimesse la propria opzione in relazione al rinnovamento del pregresso assetto lavorativo, entro i termini prospettati dalla controparte.

Nell’ottica descritta di una assoluta mancanza di dati idonei ad attestare lo scioglimento del rapporto di lavoro per iniziativa aziendale, ultronea si palesava ogni ulteriore indagine in ordine alla natura del rapporto di lavoro intercorso fra le parti.

Avverso tale decisione G.A. interpone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi ai quali resiste con controricorso la società intimata.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si denuncia violazione della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 47, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si deduce che dal tenore e dalla ratio della disposizione è chiaramente evincibile che la soluzione delle questioni inerenti alla qualificazione del rapporto di lavoro in termini di autonomia o di subordinazione debba precedere qualsiasi valutazione circa la legittimità del licenziamento, al rito speciale essendo assoggettata anche la ricognizione in via incidentale, della natura del rapporto di lavoro.

Si ribadisce, facendo leva sulle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69 bis, ed al D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1, che nello specifico, il rapporto intercorso fra le parti era certamente ascrivibile all’ambito della locatio operarum.

2. Il motivo non è fondato.

La disposizione richiamata a fondamento della critica, attiene solo al profilo del rito applicabile alla fattispecie scrutinata che, nello specifico, ha investito nella sua integralità il petitum della domanda attorea.

Il tenore letterale della L. L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 47 – nella parte – in cui estende l’applicazione del rito speciale per l’impugnativa dei licenziamenti alle ipotesi in cui debbano essere “risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro” – depone chiaramente nel senso di ricomprendere anche le controversie che presuppongono la necessità di accertamento della natura subordinata del rapporto senza che rilevi l’eventuale mancanza di “copertura contrattuale” (vedi ex aliis Cass. 8/1/2019 n. 186), essendo il rito in questione funzionale alla certezza, in tempi ragionevolmente brevi, dei rapporti giuridici di lavoro.

L’accertamento preliminare in ordine alla natura del rapporto costituisce, quindi, in linea di principio, questione attratta, ai sensi dell’ultima parte del medesimo comma 47, all’ambito delle controversie disciplinate dallo speciale rito Fornero.

In tale prospettiva, la violazione della disciplina relativa all’introduzione della causa mediante il rito c.d. Fornero sarebbe stata utilmente dedotta come motivo di impugnazione solo se la parte avesse indicato il concreto pregiudizio alle prerogative processuali derivatole dalla mancata adozione del predetto rito, con conseguente interesse alla relativa rimozione.

Tuttavia, la scelta della Corte di merito di non procedere all’accertamento in concreto della natura del rapporto di lavoro inter partes, non involve il profilo del rito applicabile (ed in concreto applicato dai giudici del gravame), ma attiene alla, opzione adottata dalla Corte di ritenere logicamente assorbito l’accertamento pregiudiziale richiesto da parte ricorrente circa la natura del rapporto di lavoro intercorso fra le parti, dalla carenza di prova in ordine alla risoluzione del rapporto per iniziativa della società.

E detta statuizione non appare essere validamente attinta dalla formulata censura che solleva una questione di violazione di norme attinenti al rito non conferente rispetto al decisum, essendosi la Corte di merito conformata, nel proprio incedere argomentativo, al principio della cd. ragione più liquida, in base a tale principio omettendo di procedere all’accertamento della natura del rapporto di lavoro intercorso fra le parti.

Il giudice del gravame ha, infatti, mostrato di conoscere e condividere i consolidati approdi ai quali è pervenuta la giurisprudenza di questa Corte secondo cui detto principio processuale, desumibile dagli artt. 24 e 111 Cost., comporta che la causa può essere decisa sulla base della questione ritenuta di più agevole soluzione, anche se logicamente subordinata, senza che sia necessario esaminare previamente le altre, imponendosi, a tutela di esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, un approccio interpretativo che comporti la verifica delle soluzioni sul piano dell’impatto operativo piuttosto che su quello della coerenza logico sistematica e sostituisca il profilo dell’evidenza a quello dell’ordine delle questioni da trattare ai sensi dell’art. 276 c.p.c. (così Cass. 28/5/2014 n. 12002, cui adde Cass. 11/5/2018 n. 11458, Cass. 9/1/2019 n. 363).

In tal senso la pronunzia, congrua e conforme a diritto per quanto sinora detto, resiste alla censura all’esame.

3. Il secondo motivo prospetta omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti.

Ci si duole che la Corte di merito non abbia ritenuto incontroversa – come invece desumibile dai messaggi scambiati fra le parti – la circostanza che il G. fosse stato estromesso dal rapporto per iniziativa della società, in ragione del rifiuto del ricorrente di accettare le nuove modalità di svolgimento del rapporto prospettate.

4. Il motivo palesa profili di inammissibilità.

Esso denuncia un vizio di motivazione concernente la ricostruzione della vicenda storica operata dalla Corte, nonostante la sentenza impugnata sia stata pubblicata nel vigore dell’art. 360 c.p.c., comma 1, punto n. 5), nella versione di testo introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), conv. con modificazioni in L. n. 134 del 2012, la quale consente il ricorso per cassazione solo per “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.

Le Sezioni unite di questa Corte hanno espresso su tale norma i seguenti principi di diritto (Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 7/4/2014, costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite, v. sent. n. 19881 del 22/9/2014, Cass. n. 417 del 14/12/2015, Cass. n. 27415 del 29/10/2018): a) la disposizione deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”; b) il nuovo testo introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto- storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia); c) l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie; d) la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso.

Pertanto, dopo la ricordata riforma è impossibile ogni rivalutazione delle questioni di fatto in ipotesi di c.d. doppia conforme sul punto, come stabilisce l’art. 348 ter c.p.c., comma 4: a mente del quale, “quando l’inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione di cui al comma precedente può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui all’art. 360, comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4)” (cfr. Cass. 11/12/2014 n. 26097).

E questo è in particolare, quanto verificatosi nel caso di specie, in cui la Corte distrettuale, nel confermare la pronuncia di primo grado, ha ripercorso, condividendole, le motivazioni espresse dal giudice di prima istanza in ordine alla ricostruzione del fatto storico ed alla attribuzione alla parte datoriale dell’iniziativa nella risoluzione del rapporto di lavoro intercorso fra le parti.

Poichè il motivo in esame risulta largamente irrispettoso di tali enunciati, esso si traduce, nella sostanza, in un diverso convincimento rispetto a quello espresso dai giudici del merito nella valutazione del materiale probatorio attinente alle prospettate modalità di risoluzione del rapporto, per cui sollecita un sindacato non ammissibile innanzi ai giudici di legittimità.

5. La terza censura attiene alla violazione dell’art. 115 c.p.c., nella versione di testo pro tempore vigente in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si enuncia una serie di circostanze di fatto (durata complessiva della collaborazione con il medesimo committente superiore agli otto mesi annui nell’arco di due anni solari consecutivi, ammontare del fatturato derivante da tale collaborazione superiore all’80% dei corrispettivi annui percepiti dal lavoratore nell’arco di due anni consecutivi…) ritenute incontestate ed attinenti alle concrete modalità in cui il rapporto di lavoro si era atteggiato, dalle quali si sarebbe dovuta evincere la conversione del rapporto ai sensi del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69 bis, comma 1.

6. Anche tale doglianza non si sottrae allo stigma del giudizio di inammissibilità.

Secondo l’insegnamento di questa Corte, in tema di ricorso per cassazione, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (ex plurimis, vedi Cass. 17/1/2019 n. 1229).

E, indubbiamente, nella specie, non si verte in alcuna delle ipotesi considerate, impingendo la critica, oltretutto, in una materia (attinente all’inquadramento giuridico della vicenda lavorativa intercorsa fra le parti) che, per ragioni di economia processuale alle quali si è innanzi fatto richiamo, non è stata specificamente scrutinata dal giudice del gravame.

7. Con il quarto motivo è denunciata violazione dell’art. 2697 c.c., ex all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Con specifico riferimento all’ipotesi in cui sia controverso il quomodo della risoluzione del rapporto di lavoro, si richiama l’orientamento invalso nella consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo cui la prova gravante sul lavoratore è limitata alla sua estromissione dal rapporto mentre la controdeduzione del datore di lavoro relativa alla sussistenza di dimissioni del lavoratore, assume la valenza di un’eccezione in senso stretto il cui onere probatorio ricade sull’eccipiente ai sensi dell’art. 2697 c.c..

Si deduce che la Corte di merito avrebbe erroneamente trascurato i dati documentali acquisiti e rimasti non oggetto di alcuna contestazione ex adverso, dai quali era desumibile l’intervenuta risoluzione del rapporto.

8. Il motivo va disatteso per le ragioni di seguito esposte.

Come fatto cenno nello storico di lite, la Corte distrettuale ha proceduto allo scrutinio delle acquisizioni probatorie, pervenendo al convincimento che non erano dalle stesse evincibili i tratti di una manifestazione di volontà indirizzata ad una risoluzione del rapporto “lavorativo-professionale in essere” giacchè l’unico esito verificatosi era quello della sospensione di ogni determinazione in ordine alla continuazione del rapporto.

La censura attinge sia la ricostruzione in fatto della vicenda solutoria del rapporto inter partes, sia la sussunzione di tale vicenda nell’archetipo normativo di riferimento.

Essa innanzitutto, suggerisce una inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione e traligna dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360 c.p.c., perchè pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti (vedi Cass. S.U. 27/12/2019 n. 34476).

Sotto altro versante, non è idonea a scalfire la statuizione impugnata che, vagliato il tenore dei messaggi che il ricorrente aveva scambiato con C.A.E., non ha riscontrato alcun indice significativo dell’esistenza di un negozio giuridico unilaterale e recettizio di parte datoriale, esplicativo della propria volontà di risolvere il rapporto in essere, con definitiva estromissione del prestatore dal posto di lavoro. Era emerso per contro, dall’accurato scrutinio delle acquisizioni probatorie in atti, che “l’unico esito verificatosi era stato quello della sospensione di ogni determinazione sulla continuazione o sulla fine del rapporto sino al momento di quella che sarebbe stata la scelta del G., in merito alla adesione o meno al predetto accordo”; sospensione che dal tempo di quella conversazione in poi secondo quanto annunciato dal C., avrebbe però dovuto temporaneamente interessare la funzionalità pratico-operativa della relazione lavor,ativa in essere “destinandola ad uno stato di temporanea quiescenza”.

Soggiungeva, quindi, il giudice del gravame, che non risultavano allegati elementi idonei ad attestare l’esistenza di una condotta volta a realizzare la materiale estromissione del professionista dal suo assetto operativo anche solo per dare la stura a quella temporanea sospensione richiesta dal C..

Orbene, la statuizione censurata è congrua e conforme a diritto, non risultando scalfita dalla formulata censura.

Ed invero, come ha sottolineato la giurisprudenza di questa Corte “il lavoratore, che agisca in giudizio per la dichiarazione dell’illegittimità di un licenziamento, ha l’onere,di provare l’esistenza del licenziamento medesimo” (Cass. civ., 21/9/2000 n. 12520; nello stesso senso Cass. 12/4/2000, n. 4717; Cass. 25/10/2004, n. 20700, Cass. 16/10/2007 n. 21607), e a questo fine “non può ritenersi sufficiente la prova della cessazione di fatto delle prestazioni lavorative” (Cass. 16/5/2001 n. 6727). Questo orientamento ha soppesato gli oneri probatori gravanti in via prioritaria sul lavoratore, e concernenti l’estromissione dal rapporto, rimarcando come questa si risolva in una condotta che allude ad una nozione più ampia della semplice constatazione di una cessazione di fatto dell’attuazione del rapporto stesso (vedi in motivazione Cass. 16/5/2001 n. 6727, Cass. 5/12/2018 n. 31501).

Il lavoratore il quale deduca che il rapporto di lavoro abbia avuto conclusione a causa del licenziamento intimatogli dal datore di lavoro e impugni l’allegato licenziamento, ha, dunque, l’onere di provare il licenziamento stesso, quale fatto costitutivo dei diritti fatti valere (cfr. Cass. 27/7/2000 n. 9843), laddove la controdeduzione del datore di lavoro attinente alle rassegnate dimissioni, assume la valenza di un’eccezione in senso stretto il cui onere probatorio ricade sull’eccipiente ai sensi dell’art. 2697 c.c., comma 2 (vedi ex allis, Cass. 17/6/2016 n. 12586).

Il giudice di merito, a fronte di contrapposte tesi circa la causa di cessazione del rapporto, è quindi tenuto ad indagare, sulla base delle evidenze istruttorie, il comportamento tenuto dalle parti da cui sia desumibile l’intento consapevole di voler porre fine al rapporto; e tale indagine – avente ad oggetto le contrapposte tesi circa la causa di cessazione del rapporto in assenza di atti formali di licenziamento o di dimissioni – deve essere particolarmente accurata, tenendo conto della circostanza che l’estromissione dal rapporto non può ricondursi tout court alla constatazione della cessazione di fatto dell’attuazione del rapporto, giacchè si introdurrebbe in tal modo, in assenza di una specifica previsione di legge, una sorta di esonero del lavoratore dall’onere della prova riguardo alla effettiva esistenza di un licenziamento.

E’ bene rammentare che dal punto di vista strutturale il licenziamento è atto unilaterale con cui il datore di lavoro dichiara al lavoratore la volontà di estinguere il rapporto di lavoro, esercitando il potere di recesso.

Chi impugna un licenziamento deducendo che esso si è realizzato senza il rispetto della forma prescritta ha l’onere di provare, oltre la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, il fatto costitutivo della sua domanda rappresentato dalla manifestazione di detta volontà datoriale, anche se realizzata con comportamenti concludenti.

E tale identificazione del fatto costitutivo della domanda del lavoratore prescinde dalle difese del convenuto datore di lavoro, anche perchè questi può risultare contumace, ed il conseguente onere probatorio è ripartito sulla base del fondamentale canone dettato dall’art. 2697 c.c., comma 1, secondo cui “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”.

In definitiva, al lume dei condivisi dicta di questa Corte, ai quali va data continuità, il lavoratore che impugni il licenziamento allegandone l’intimazione senza l’osservanza della forma scritta ha l’onere di provare, quale fatto costitutivo della domanda, che la risoluzione del rapporto è ascrivibile alla volontà datoriale, seppure manifestata con comportamenti concludenti, non essendo sufficiente la prova della mera cessazione dell’esecuzione della prestazigne lavorativa (vedi Cass. 8/2/2019 n. 3822, Cass. 16/5/2019 n. 13195).

In tale prospettiva, deve ritenersi che la pronuncia impugnata abbia correttamente sussunto la fattispecie esaminata nell’ambito del paradigma normativo di riferimento, conformandosi ai principi innanzi enunciati e si sottragga, pertanto, alla critica al riguardo formulata.

Le sinora esposte considerazioni inducono, dunque, al rigetto del ricorso. Le spese seguono la soccombenza, liquidate come da dispositivo.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.250,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 7 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 1 aprile 2021

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA