Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9101 del 01/04/2021

Cassazione civile sez. lav., 01/04/2021, (ud. 23/09/2020, dep. 01/04/2021), n.9101

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16738/2017 proposto da:

M.M.A., B.G., S.M.,

SE.EL., MA.NI., P.A., BR.GI.,

b.f., C.S., G.M.,

bo.ro., ST.PI., tutti elettivamente domiciliati in ROMA,

VIALE BRUNO BUOZZI 51, presso lo studio dell’avvocato MARCELLO

CARDI, rappresentati e difesi dall’avvocato CARLO CALVIERI;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA,

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, MINISTERO DELLA SALUTE;

– intimati –

e contro

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del Ministro pro

tempore, rappresentato, e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, ALLA VIA DEI PORTOGHESI

12;

– resistente con mandato –

avverso la sentenza n. 41/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 04/01/2017 R.G.N. 6781/2012;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

23/09/2020 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. I medici indicati in epigrafe proposero ricorso per cassazione avverso la sentenza del 15 gennaio 2010 con la quale la Corte d’Appello di Roma aveva rigettato l’appello da essi proposto, nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dei Ministeri della Salute, dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica e dell’Economia, avverso la sentenza resa in primo grado dal Tribunale di Roma che aveva rigettato, per intervenuta prescrizione del diritto azionato, le domande (proposte nell’aprile 2001) dirette ad ottenere il trattamento economico previsto dal D.Lgs. n. 257 del 1991 e il risarcimento del danno, sul presupposto di avere frequentato a tempo pieno corsi di specializzazione presso varie Università, anteriormente all’anno accademico 1991/1992, conseguendo i relativi diplomi di specializzazione, senza percepire alcun importo.

2. A sostegno delle domande i ricorrenti, che conseguirono la specializzazione precisamente nel periodo compreso tra il 1983 e il 1991, avevano dedotto che il D.Lgs. n. 257 del 1991, nel recepire (tardivamente) le direttive comunitarie 75/362/CEE e 82/76/CEE, rimaste inadempiute a far tempo dal 31 dicembre 1982, aveva illegittimamente riconosciuto la remunerazione (di Lire 21.500.000 annui) ai soli medici ammessi ai corsi di specializzazione successivamente al 1991.

3. Questa Corte, con sentenza n. 12725/12, accolse i primi tre motivi di ricorso, assorbiti i restanti, disponendo il rinvio alla Corte di appello di Roma per l’esame del merito: il primo motivo verteva sulla prova documentale della frequenza dei corsi presso le scuole di specializzazione e del conseguimento dei diplomi rilasciati dalle competenti autorità accademiche; il secondo e il terzo motivo vertevano sulla natura del diritto azionato e sulla decorrenza del termine decennale di prescrizione.

4. Riassunto il giudizio dai medici, la Corte di appello di Roma, pronunciando in sede rescissoria, con sentenza n. 41/2017, dichiarava che la prescrizione non era maturata e che i corsi di specializzazione erano documentati in atti. Passando ad esaminare la domanda nel merito e identificato nella Presidenza del Consiglio dei Ministri il soggetto legittimato passivo, la Corte rilevava che i profili da considerare, mai prima discussi, riguardavano la sussistenza del diritto da ciascuno azionato in considerazione del periodo di iscrizione e frequentazione dei corsi, nonchè la riconducibilità o meno delle singole posizioni alle specializzazioni contemplate dalle direttive. In proposito, osservava:

a) che il diritto alla remunerazione non poteva competere a tutti i ricorrenti, seppure iscritti a corsi di specializzazione nel periodo compreso tra l’anno accademico 1983/1984 e quello 1990/1991, ma esclusivamente a coloro che avessero frequentato un corso di specializzazione comune a tutti gli Stati membri – e quindi, rientrante nell’elenco dell’art. 5, n. 2 – o ad almeno a due o più fra essi – e quindi rientrante nell’elenco di cui all’art. 7, n. 2 della direttiva 75/362/CEE;

b) che era onere dei ricorrenti dimostrare tali presupposti, poichè tanto il mancato inserimento nell’elenco della direttiva comunitaria, quanto la mancata prova che si tratti di specializzazione del tutto analoga a quelle istituite in almeno altri due Stati membri determina il rigetto della domanda;

c) che a tale esito occorreva giungere per i ricorrenti indicati a pag. 10 della sentenza, mentre la domanda andava accolta per i restanti ricorrenti indicati alle pagg. 11-13.

5. Per la cassazione di tale sentenza i nominati in epigrafe, soccombenti nel giudizio di rinvio, hanno proposto ricorso per cassazione articolando due motivi di impugnazione e istanza di rinvio pregiudiziale alla CGUE.

6. La Presidenza del Consiglio dei Ministri ha depositato atto di costituzione al solo fine dell’eventuale partecipazione alla discussione orale.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

7. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano violazione degli artt. 24 e 111 Cost., e dell’art. 101 c.p.c., per violazione del contraddittorio e nullità della sentenza (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4) per avere la Corte di appello deciso sulla base di una questione rilevata d’ufficio (c.d. sentenza della terza via), in violazione del principio del contraddittorio e in relazione ad una questione mai sollevata in giudizio dalle Amministrazioni convenute.

8. Con il secondo motivo, i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 5, 7 e 9 della direttiva 75/362/CEE, degli artt. 4 e 5 della direttiva 75/363/CEE come riproposte dalla direttiva 82/76/CEE, degli artt. 5, 6 e 7 della direttiva 93/16/CEE (artt. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) per avere i giudici di merito omesso di valutare l’equipollenza, ossia se i diplomi di specializzazione conseguiti (clinica pediatrica, medicina del lavoro, medicina preventiva, oncologia, medicina nucleare, medicina dello sport) fossero assimilabili a quelli inclusi negli elenchi delle direttive.

Sostengono che spettava al giudice di merito valutare detta corrispondenza o comunque l’analogia con quelle esistenti all’interno di altri Paese membri. Il ricorso propone una lettura comparativa con le specializzazioni riconosciute. Lamentano altresì che il D.P.R. n. 162 del 1982, art. 3, imponeva al Ministero della Pubblica Istruzione di provvedere con propri decreti a stabilire per singoli tipi di diploma la denominazione, i requisiti di ammissione, la frequenza dei corsi, ecc., per i diplomi delle scuole di specializzazione, allorchè fosse necessario adeguare il nostro ordinamento alle direttive CEE in materia. Se ciò non è avvenuto o è avvenuto solo con tardivi decreti ministeriali (nei quali comunque figurano tutte le specializzazioni in questione) ben dopo lo spirare del termine del 31 dicembre 1982, ciò non può riflettersi in danno degli specializzandi.

9. Con istanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ex art. 267 TFUE si chiede di verificare se le direttive 75/362/CEE e 75/363/CEE ostino o meno al riconoscimento dei diritti azionati dai ricorrenti, i quali ritengono che i loro titoli possano essere ascritti tra quelli presenti nelle direttive anzidette, nonostante la diversità nominale del corso di specializzazione frequentato rispetto a quelli iscritti negli elenchi.

10. Il ricorso è infondato.

11. La direttiva 82/76/CEE venne approvata dal Consiglio il 26.1.1982; venne notificata agli Stati membri (e quindi entrò in vigore) il 29.1.1982; l’art. 16 della medesima direttiva imponeva agli Stati membri di conformarvisi “entro e non oltre il 31 dicembre 1982”. Pertanto: (a) l’ordinamento comunitario attribuì ai medici specializzandi il diritto alla retribuzione a far data dal 29.1.1982; (b) gli Stati membri avevano tempo sino al 31.12.1982 dello stesso anno per dare attuazione al precetto comunitario. Ne consegue che “qualsiasi formazione a tempo pieno come medico specialista iniziata nel corso dell’anno 1982 deve essere oggetto di una remunerazione adeguata”, così come stabilito dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea, con sentenza 24 gennaio 2018, in causa C-616/16, Presidenza del Consiglio c. Pantuso.

12. Tanto premesso, osserva il Collegio che, stante il rigetto della domanda in primo e in secondo grado per il rilievo preliminare della prescrizione (statuizione poi cassata da questa Corte in sede rescindente) nè il giudice di primo grado, nè il giudice di appello erano tenuti a prendere in esame la sussistenza dei requisiti necessari per ottenere il risarcimento, che perciò restarono impregiudicati nell’originario giudizio di merito. La questione della equipollenza dei titoli era rimasta assorbita. Legittimamente, pertanto, la Corte d’appello potè rilevarla per la prima volta nel giudizio di rinvio, ossia nel momento in cui, escluse preclusioni processuali e ritenuta infondata l’eccezione preliminare di merito, era venuto in rilievo l’esame del fondamento nel merito della domanda.

13. Correttamente la Corte d’appello, una volta ritenuto sussistente il requisito della frequentazione della scuola di specializzazione e preso atto della documentazione prodotta, poteva e doveva, anche d’ufficio, verificare la sussistenza degli altri presupposti in fatto della domanda, tra cui la corrispondenza tra la specializzazione conseguita a quelle di cui all’elenco delle direttive comunitarie e a quelle previste da almeno altri due Paesi dell’UE (cfr. su fattispecie analoghe, Cass. nn. 458 e 20303 del 2019), sulla base delle allegazioni e documentazioni offerte dalle parti.

14. I ricorrenti lamentano che il giudice di rinvio non avrebbe potuto rilevare d’ufficio la situazione di “non equipollenza”, in quanto non “specificamente contestata dalle amministrazioni convenute” (art. 115 c.p.c.) e che, in ogni caso, il giudice di rinvio si sarebbe pronunciato sulla questione della “non equipollenza” senza previamente sottoporre alle parti la relativa questione, in violazione del principio del contraddittorio (art. 101 c.p.c.).

15. Entrambe le censure sono infondate.

16. E’ principio generale del nostro ordinamento processuale che siano rilevabili d’ufficio tutte le eccezioni che la legge non riservi espressamente all’iniziativa di parte (principio ribadito di recente da Cass. Sezioni Unite, n. 10531 del 07/05/2013). A questo principio non sfugge la questione relativa alla dimostrazione della “equipollenza” tra il diploma di specializzazione conseguito in Italia dagli odierni ricorrenti e quelli previsti da almeno altri due Stati dell’Unione Europea. Nè, come già detto, si erano verificate preclusioni processuali. Legittimamente, pertanto, la Corte d’appello potè rilevarla per la prima volta nel giudizio di rinvio.

17. In ordine al principio di non contestazione, va osservato che il tenore delle allegazioni originarie – per come la vicenda processuale è riportata nel ricorso per cassazione ex art. 366 c.p.c., n. 3 – non consente di ritenere che gli odierni ricorrenti, nell’atto introduttivo del giudizio, assolsero in modo analitico ed esaustivo l’onere di indicare se, e per quali ragioni di fatto, le specializzazioni da essi rispettivamente conseguite fossero da ritenersi equipollenti a quelle previste da almeno due Stati membri dell’Unione Europea. Come risulta (non solo dalla sentenza impugnata, ma anche) dal ricorso per cassazione, nell’atto originario i medici si limitarono a indicare la specializzazione conseguita e il periodo di frequentazione del corso.

18. Le specializzazioni conseguite non coincidevano formalmente con alcuna di quelle previste dalle direttive comunitarie n. 75/362/CEE e 75/363/CEE, così come modificate dalla direttiva 82/76/CEE. In tale ipotesi (non coincidenza tra specializzazione conseguita e discipline previste dalle suddette direttive comunitarie), questa Corte ha già da tempo stabilito che l’onere di allegazione dei fatti da parte di chi domandi il risarcimento del danno derivato dalla tardiva attuazione in Italia delle suddette direttive deve essere assolto in modo preciso e dettagliato, e solo quando sia stato assolto tale onere, sorge per l’amministrazione convenuta l’onere di contestazione della equipollenza tra la specializzazione conseguita in Italia e quelle comuni ad almeno due Stati membri.

19. Sin da Cass. n. 23199 del 2016 (da ultimo, Cass. n. 8376 del 2020), in materia di responsabilità dello Stato italiano per mancata tempestiva attuazione di direttive comunitarie, a fronte della pretesa risarcitoria azionata deducendo l’inadempimento statuale alle direttive nn. 75/362, 75/363 e 82/76, per avere un medico frequentato un corso di specializzazione non indicato nell’art. 5 della direttiva 75/363 fra quelli comuni a tutti gli stati membri dell’Unione Europea, ma assunto come equivalente ad un corso comune solo a due (o più) Stati, e come tale indicato nell’art. 7 della direttiva, il giudice italiano è tenuto a verificare in concreto se quella equivalenza si configuri o meno; tale accertamento implica anche riscontri fattuali che deve compiere il giudice di merito, sicchè, in mancanza di indicazioni della parte circa la sede dei gradi di merito in cui detto accertamento sia stato effettuato ed il modo in cui si sia formato, la relativa questione è inammissibile nel giudizio di cassazione, non configurandosi come una mera quaestio iuris riconducibile all’art. 382 c.p.c., comma 3.

20. I ricorrenti lamentano inoltre la violazione del principio del contraddittorio (art. 101 c.p.c.) per non avere la Corte d’appello segnalato alle parti la questione sulla quale ha poi fondato la propria sentenza. Innanzitutto, il presente giudizio è iniziato nel 2001; ad esso non si applica dell’art. 101 c.p.c., comma 2, il quale è stato introdotto dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 13 e per espressa previsione dell’art. 58, comma 1, della suddetta Legge, si applica ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore, e quindi dopo il 4 luglio 2009. Inoltre, per quanto detto precedentemente, non vi sono i presupposti per ritenere operante il principio di non contestazione, a causa della genericità delle allegazioni attoree sul punto della equipollenza tra i diplomi di specializzazione conseguiti dagli odierni ricorrenti e quelli previsti da almeno due Stati membri dell’Unione Europea. Ne consegue che l’onere di provare i fatti dimostrativi della pretesa, a causa del mancato operare del principio di non contestazione, restava a carico degli originari attori. Tuttavia, non avendo costoro assolto a quell’onere, come emerge dalla sentenza impugnata, restava preclusa la possibilità di allegare e provare successivamente, tanto meno nel giudizio di rinvio, fatti non provati in primo grado (cfr. pure Cass. n. 8376 del 2020).

21. In ordine alla questione oggetto del secondo motivo, questa Corte si è già pronunciata in fattispecie analoga con la sentenza n. 20303 del 2019, così massimata: “Non spetta il diritto al risarcimento in favore dei medici specializzandi per inadempimento della direttiva 26 gennaio 1982, n. 82/76/CEE, riassuntiva delle direttive 16 giugno 1975, n. 75/362/CEE e n. 75/363/CEE, a coloro che abbiano frequentato corsi di specializzazione non comuni ad almeno due Stati dell’UE in base agli elenchi di dette direttive e li abbiano conclusi prima dei decreti ministeriali di conformità delle specializzazioni conseguite a quelle elencate, non potendosi ravvisare un illecito comunitario nel mancato ampliamento del novero delle specializzazioni equipollenti, il quale costituiva una facoltà per gli Stati membri e non già un obbligo imposto dalla normativa comunitaria”.

22. Nella parte motiva della sentenza n. 20303 del 2019 si affrontano questioni del tutto analoghe a quello oggetto del ricorso in esame. Ritiene quindi il Collegio di richiamare tale soluzione, qui del tutto condivisa.

23. In particolare, sulla questione delle specializzazioni riconosciute, va osservato che l’art. 5, comma 3, della direttiva 75/362/CEE elenca le seguenti specializzazioni comuni a tutti gli Stati membri: anestesia e rianimazione; chirurgia generale; nEurochirurgia; ostetricia e ginecologia; medicina interna; oculistica; otorinolaringoiatria; pediatria; tisiologia e malattie dell’apparato respiratorio; urologia; ortopedia e traumatologia.

24. Il successivo art. 7, comma 2, della medesima direttiva stabilisce l’equipollenza in almeno due Stati membri tra le seguenti ulteriori specializzazioni: biologia clinica; ematologia biologica; microbiologia – batteriologia; anatomia patologica; biochimica; immunologia; chirurgia plastica; chirurgia toracica; chirurgia pediatrica; chirurgia vascolare; cardiologia; gastroenterologia; reumatologia ematologia generale; endocrinologia; fisioterapia; stomatologia; neurologia; psichiatria; nEuropsichiatria; dermatologia e venereologia; radiologia; radio diagnostica; radioterapia; medicina tropicale; psichiatria infantile; geriatria; malattie renali; malattie infettive; community medicine; farmacologia; occupational medicine; allergologia; chirurgia dell’apparato digerente.

25. Le medesime specializzazioni sono previste dagli artt. 4 e 5 della direttiva 75/363/CEE. Per contro, il II Considerando della direttiva 75/363 stabiliva che per il reciproco riconoscimento dei diplomi di specializzazione tra gli Stati membri “e per mettere tutti i professionisti cittadini degli Stati membri su una certa base di parità all’interno della Comunità, è apparso necessario un certo coordinamento delle condizioni di formazione del medico specialista”, soggiungendo però che tale “coordinamento” “riguarda soltanto le specializzazioni comuni a tutti gli Stati membri nonchè quelle comuni a due o più Stati membri”.

26. Nel 1982, pertanto, delle due l’una: o una specializzazione era comune ad almeno due Stati dell’UE, ed allora l’Italia aveva l’obbligo di prevedere per legge una remunerazione in favore di chi la frequentava (giusta la previsione dell’Allegato “A” alla direttiva 1975/363, aggiunto dalla direttiva 1982/76); oppure quella specializzazione non era comune, ed allora non vi era l’obbligo comunitario di prevedere una remunerazione per chi l’avesse frequentata (cfr. sent. cit.).

27. Il giudice di merito ha accertato che non era stato assolto, con le dovute allegazioni di fatto e la documentazione esaminata, l’onere di dimostrare di avere frequentato un corso di specializzazione del tutto analogo a quelle (specializzazioni) istituite in almeno due Stati membri.

28. E’ ben vero che questa Corte ha affermato che la mera comparazione effettuata su base meramente nominale dei titoli conseguiti dai medici e di quelli inseriti nell’elenco allegato alla direttiva, non è sufficiente ad escludere il “riconoscimento” del primo. Difatti, da tempo ha statuito che il mancato inserimento di una scuola di specializzazione in medicina e chirurgia, attivata presso un’Università, nell’elenco delle specializzazioni di tipologia e durata conformi alle norme comunitarie, previsto dal D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257, art. 1, comma 2, non è di ostacolo al riconoscimento in favore dello specializzando del diritto alla borsa di studio prevista dello stesso D.Lgs. n. 257, art. 6, quando si tratti di specializzazione del tutto analoga a quelle istituite in almeno altri due Stati membri. Tuttavia, onde verificare se sussista effettivamente tale corrispondenza, il Giudice di merito dovrà ricorrere alla valutazione di plurimi elementi di indagine, ove ritualmente allegati e provati dalle parti sia di carattere formale che di natura sostanziale.

29. Come si è detto, nella specie, il ricorso per cassazione non indica (art. 366 c.p.c., nn. 3 e 6) quali sarebbero gli elementi che, ritualmente allegati e provati in primo grado, ma trascurati dal giudice di merito (rectius, di rinvio), avrebbero dovuto condurre a ritenere sussistente la coincidenza, sotto il profilo sostanziale, degli insegnamenti e degli obiettivi formativi dei rispettivi corsi

accademici.

30. Va ulteriormente osservato che nel periodo compreso tra la scadenza del termine per lo Stato italiano di dare attuazione alle direttive comunitarie (1982), e il completamento del corso di specializzazione da parte degli odierni ricorrenti, non esisteva alcuna delle norme sulla “equipollenza” delle specializzazioni invocate dagli odierni ricorrenti. E’ pertanto giuridicamente insostenibile pretendere che i corsi di specializzazione frequentati dagli odierni ricorrenti debbano ritenersi equipollenti a quelli previsti in almeno altri due Stati membri in virtù di norme che non esistevano all’epoca in cui quel corso venne frequentato (cfr. in tal senso, Cass. n. 20303 del 2019, in motivazione).

31. L’istanza di rinvio alla CGUE sulla questione pregiudiziale interpretativa inerente alla portata degli artt. 5 e 7 della direttiva 75/363/CEE è stata formulata “in relazione alla interpretazione sostenuta dalla sentenza impugnata”, onde verificare se detta direttiva osti al “riconoscimento dei diritti azionati dai ricorrenti, i quali ritengono che i loro titoli possano essere ascritti tra quelli presenti nelle direttive così come riconosciuti dalle regole di diritto pubblico comune a tutti i Paesi membri all’epoca partecipi della comunità”.

32. E’ noto (Cass. Sez. Un. 20701 del 2013; v. pure Cass. 6862 del 2014) che il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia non costituisce un rimedio giuridico esperibile automaticamente a semplice richiesta delle parti, spettando solo al giudice stabilirne la necessità (Corte giust. 21 luglio 2011, Kelly, in C-104/10; 22 giugno 2010, Melki in C-188 e 189/10): infatti, esso ha la funzione di verificare la legittimità di una legge nazionale rispetto al diritto dell’Unione Europea e se la normativa interna sia pienamente rispettosa dei diritti fondamentali della persona, quali risultanti dall’evoluzione giurisprudenziale della Corte di Strasburgo e recepiti dal Trattato sull’Unione Europea, mentre non è finalizzato ad ottenere un parere su questioni generali o ipotetiche; il giudice, effettuato tale riscontro, non è obbligato a disporre il rinvio solo perchè proveniente da istanza di parte (cfr. Cass. 21 giugno 2011, n. 13603). D’altra parte (v. Cass. 5 luglio 2013, n. 16886), la Corte di Giustizia Europea, nell’esercizio del potere di interpretazione di cui all’art. 234 del Trattato istitutivo della Comunità economica Europea, non opera come giudice del caso concreto, bensì come interprete di disposizioni ritenute rilevanti ai fini del decidere da parte del giudice nazionale, in capo al quale permane in via esclusiva la funzione giurisdizionale. Pertanto, il giudice nazionale di ultima istanza non è soggetto all’obbligo di rimettere alla Corte di giustizia la questione di interpretazione di una norma comunitaria quando non la ritenga rilevante ai fini della decisione o quando ritenga di essere in presenza di un acte claire che, in ragione dell’esistenza di precedenti pronunce della Corte ovvero dell’evidenza dell’interpretazione, rende inutile (o non obbligato) il rinvio pregiudiziale (tra le altre: Cass., Sez. Un., 24 maggio 2007, n. 12067; Cass., ord. 22 ottobre 2007, n. 22103; Cass. 26 marzo 2012, n. 4776; Cass. 29 novembre 2013, n. 26924).

33. Nella specie, è evidente che non si richiede la verifica della compatibilità di una normativa interna – del resto neppure indicata – con il diritto dell’Unione, ma – a fronte di norme chiare della direttiva – ci si duole delle ricadute applicative nella fattispecie concreta derivanti dall’interpretazione della direttiva fornita dalla Corte territoriale. Ci si duole, in particolare, del fatto che la Corte di appello avrebbe negato il diritto al risarcimento per avere dato una interpretazione “nominalistica” dei corsi di specializzazione frequentati dai ricorrenti rispetto a quelli scritti negli elenchi, “pur essendo identici o comunque comparabili”.

34. Orbene, in disparte ogni altra considerazione, è assorbente rilevare che la prospettata questione interpretativa muove da un presupposto di fatto erroneo, quello per cui il giudice di merito avrebbe dato rilevanza ad un mero dato “nominalistico”, interpretando formalisticamente il tenore testuale del contenuto degli elenchi. Al contrario, il giudice di merito ha escluso, in ragione dello sviluppo processuale e del difetto di allegazione e prova di un elemento costitutivo del diritto azionato, che vi fosse identità o comunque piena comparabilità tra corsi di specializzazione seguiti dagli odierni ricorrenti e quelli contemplati dalla direttiva, come previsti da due o più Stati membri.

35. In conclusione, il ricorso va rigettato e tuttavia le peculiarità della controversia, definita sulla base di interpretazioni consolidatesi soltanto durante il suo sviluppo, integrano – ad avviso del Collegio – un giusto motivo di integrale compensazione, giusta la previsione dell’art. 92 c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis.

36. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali (nella specie, rigetto del ricorso) per il versamento, da parte dei ricorrenti, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto (v. Cass. S.U. n. 23535 del 2019 e n. 4315 del 2020).

PQM

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 1 aprile 2021

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