Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9098 del 18/05/2020

Cassazione civile sez. lav., 18/05/2020, (ud. 26/02/2020, dep. 18/05/2020), n.9098

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TORRICE Amelia – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13870-2015 proposto da:

M.C., domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato DOMENICO SORACE;

– ricorrente –

contro

REGIONE CALABRIA, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SABOTINO 12, presso lo studio

dell’avvocato GRAZIANO PUNGI’, rappresentata e difesa dagli avvocati

FRANCESCHINA TALARICO, DOMENICO GULLO;

– controricorrente –

nonchè contro

D.T.A., A.S.L. n. (OMISSIS) di LAMEZIA TERME;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1562/2014 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 21/01/2015 R.G.N. 830/2011.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

che:

1. la Corte di appello di Catanzaro confermava la decisione del Tribunale di Lamezia Terme che aveva respinto la domanda proposta da M.C. nei confronti della ASL n. (OMISSIS) di Lamezia Terme nonchè della Regione Calabria e di D.T.A. per ottenere la declaratoria di illegittimità degli atti dichiarativi di decadenza adottati dalla Regione e la statuizione del suo diritto all’esercizio delle funzioni di Direttore Generale con effetto dall’8/11/2011;

2. per quanto si evince dallo svolgimento dei fatti come riportato nel ricorso per cassazione e nella sentenza impugnata la vicenda si è sviluppata nei seguenti termini:

– la M. era stata nominata Direttore Generale dell’ASL n. (OMISSIS) di Lamezia Terme con Delib. di G.R. n. 148 del 23/3/2004 e successivo D.P.G.R. n. 48 del 30/3/2004;

– a tanto aveva fatto seguito il contratto individuale prevedente la durata di tre anni dell’incarico;

– con successiva delibera di G.R. n. 723 dell’8/8/2005 l’efficacia del D.P.G.R. n. 48 del 2004 era stata sospesa, ai sensi della L. n 241 del 1990, art. 21 quater, fino all’espletamento della verifica ordinaria e disposto l’affidamento della gestione temporanea ad un commissario straordinario (l’efficacia della sospensione era stata indicata in 90 giorni);

– l’atto di sospensione dell’efficacia del D.P.G.R. era stato impugnato in sede cautelare d’urgenza innanzi al Tribunale di Lamezia Terme ove la M. aveva ottenuto provvedimento favorevole, confermato nel giudizio di merito (ricorso iscritto al n. 1386/2006 R.G.) con sentenza n. 324/2009 del 7/5/2009 che aveva dichiarato l’illegittimità dell’atto, con conseguente disapplicazione dello stesso;

– con Delib. di G.R. n. 9372 del 7/11/2005 e relativo D.P.G.R., previa contestazione alla M. dei “risultati gestionali ASL n. (OMISSIS)”, la predetta era stata dichiara decaduta dallo stato di Direttore Generale;

– con delib. di G.R. n. 1074 del 28/11/2005, e conseguente D.P.G.R. in pari data, era stata nominata, quale nuovo Direttore Generale, D.T.A.;

– anche l’atto dichiarativo della decadenza era stato impugnato innanzi al Tribunale di Lamezia Terme (ricorso iscritto al n. 570/2010 R.G);

– il Tribunale, assumendo trattarsi di giudizio uguale a quello già deciso con sentenza n. 324/2009, aveva respinto il ricorso per violazione del principio del ‘ne bis in idem’ (sentenza n. 83/2011);

– nel frattempo la sentenza n. 324/2009 era stata impugnata dalla Regione Calabria e la Corte d’appello, rilevando che alla delibera di sospensione, adottata per la presenza di gravi inadempienze relative alla gestione dell’Azienda Sanitaria, aveva fatto seguito la successiva delibera dichiarativa della decadenza della M. dall’incarico di Direttore generale con la conseguenza che la prima aveva perso ogni rilevanza a tutti gli effetti, ed anche a quelli risarcitori erroneamente riconosciuti dal Tribunale (si veda sul punto la ricostruzione contenuta nella sentenza di questa Corte n. 10363/2014 di cui infra), aveva accolto l’impugnazione e respinto l’originaria domanda della M. (sentenza n. 536/2011);

– il ricorso per cassazione proposto avverso tale decisione era stato dichiarato improcedibile, per mancato deposito dello stesso nei termini di cui all’art. 369 c.p.c., con sentenza n. 10363/2014;

– anche la pronuncia del Tribunale n. 83/2011 era stata impugnata (questa volta dalla M.) innanzi alla Corte d’appello di Catanzaro;

3. la Corte territoriale, con la decisione oggetto del presente ricorso, confermava la statuizione di prime cure circa l’avvenuta violazione del principio del ne bis in idem;

riteneva che risultasse evidente che gli atti assunti come illegittimi erano sia la delibera di sospensione che quella successiva di decadenza e che i motivi che avevano indotto la Regione ad adottare la prima erano pienamente coincidenti con quelli dei successivi provvedimenti di decadenza dall’incarico;

sosteneva che, tanto con riferimento al presupposto della domanda risarcitoria azionata con il giudizio avente ad oggetto la delibera che aveva disposto la decadenza quanto in relazione al vaglio di legittimità degli atti che avevano condotto alla rimozione dell’appellante dall’incarico di Direttore Generale, risultasse ormai intervenuto il giudicato;

4. per la cassazione di tale sentenza M.C. ha proposto ricorso affidato a quattro motivi;

5. ha resistito con controricorso la Regione Calabria;

6. le altre parti intimate non hanno svolto attività difensiva;

7. la ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

RILEVATO IN DIRITTO

che:

1. con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c.;

assume che a fronte di censure avverso la decisione del Tribunale “adottata con piena postergazione dei contenuti del ricorso n 570/2010” la sentenza impugnata non aveva esternato alcuna valutazione;

sostiene che le indicate norme impongono al Giudice di attenersi, nella formulazione del “decisum”, alla “causa petendi” ed al “petitum”, senza alcuna opportunità di mutarne il senso, secondo il principio dispositivo;

evidenzia che per contrastare il vincolo del “ne bis in idem” essa appellante aveva richiamato: – la testualità delle conclusioni di cui al ricorso originario; – la circostanza che il giudice dell’altro e precedente giudizio non poteva pronunciarsi sulla decadenza essendo il suo esame circoscritto alla sospensione; – la richiesta di risarcimento proposta in quel giudizio riguardava solo il periodo di sospensione mentre quella oggetto del procedimento avente ad oggetto il provvedimento di decadenza era basata su ben altri presupposti;

2. con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., degli artt. 324 e 2909 c.c., degli artt. 24 e 111 Cost., nonchè omessa insufficiente contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia;

critica la sentenza impugnata per aver ancorato le sue ragioni alla sentenza n. 536/2011, assumendone tuttavia un contenuto diametralmente opposto e per aver preso le mosse da una situazione di fatto e processualmente del tutto inesistente;

sostiene che l’indicata sentenza n. 536/2011 avrebbe, al contrario, conclamato non solo l’ammissibilità dell’odierno giudizio ma addirittura la necessità di affidarvi tutte le domande concernenti i vari titoli risarcitori rivendicati dalla ricorrente, con la conseguenza che alcun “bis in idem” si era generato nel caso di specie;

rileva che l’argomentare della Corte territoriale avrebbe di fatto escluso la ricorrente da ogni tutela giudiziaria, in palese violazione dei principi costituzionali posti a presidio delle garanzie per tutti di agire in giudizio e di ottenere un giusto processo;

3. con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 324 e 2909 c.c., degli artt. 24 e 111 Cost., nonchè omessa insufficiente contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia;

sostiene che la Corte territoriale sarebbe incorsa in un abnorme convincimento (e cioè che al momento della proposizione del giudizio culminato nella sentenza n. 324/2009 fosse già intervenuta la delibera di decadenza e che i motivi che avevano indotto la Regione ad adottare la delibera di sospensione fossero pienamente coincidenti con quelli della successiva decadenza) sulla base di un errore di lettura della sentenza n. 324/2009 dalla quale non era dato evincere alcun elemento in tal senso;

4. con il quarto motivo la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 324 e 2909 c.c., degli artt. 24 e 111 Cost., l’omessa insufficiente contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia, la violazione degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c.;

lamenta che l’impostazione della Corte di Catanzaro sarebbe priva di aderenza al “thema decidendum” ed agli atti che ne sono il presupposto o il riferimento ed inoltre violerebbe i principi in materia di efficacia del giudicato e di implicazioni sulle posizioni soggettive incise;

sostiene che sarebbe spettato alla Corte territoriale inglobare, nel corpo del processo al suo vaglio, l’indirizzo contenuto nella sentenza n. 536/2001, secondo cui “l’insorgenza di eventuale pregiudizio potrebbe essere riconnessa unicamente all’esito del giudizio instaurato dalla Dott.ssa M. avverso la dichiarazione di decadenza dall’incarico”;

evidenzia che, invece, la ricostruzione della sentenza impugnata sarebbe del tutto disancorata dalla realtà processuale e dalla stessa sentenza n. 324/2009 che aveva affermato l’illegittimità del provvedimento di sospensione e riconosciuto i titoli risarcitori e restitutori nei limiti del periodo di sospensione, e cioè dall’8/8/2005 al 7/11/2005;

5. il primo motivo è infondato;

non ricorre il vizio di omessa pronuncia di una sentenza di appello quando, pur non essendovi un’espressa statuizione da parte del giudice in ordine ad un motivo di impugnazione, tuttavia la decisione adottata comporti necessariamente la reiezione di tale motivo, dovendosi ritenere che tale vizio sussista solo nel caso in cui sia stata completamente omessa una decisione su di un punto che si palesi indispensabile per la soluzione del caso concreto (v. Cass. 4 giugno 2019, n. 15255; Cass. 13 agosto 2018, n. 20718; Cass. 6 dicembre 2017, n. 29191);

nella specie, dalla complessiva motivazione della sentenza impugnata si evince che è stata accolta la tesi dell’appellata secondo la quale sugli atti che avevano condotto alla rimozione dell’appellante dall’incarico di Direttore generale dell’ASL, presupposto della domanda risarcitoria avanzata, fosse ormai intervenuto il giudicato per effetto della sentenza n. 536/2011, e cioè una tesi incompatibile con quella prospettata dall’appellante nel motivo asseritamente pretermesso (di una domanda di risarcimento del danno contenuta in seno al giudizio n. 570/2010, costituente petitum nuovo rispetto a quello della sentenza n. 324/2009, riformata con l’indicata decisione n. 536/2011), implicandone il rigetto;

5. gli altri motivi, da trattarsi congiuntamente in ragione della intrinseca connessione, sono inammissibili per plurime concorrenti ragioni;

5.1. sono innanzitutto denunciate promiscuamente sia violazioni di norme di diritto (sostanziale e processuale) sia vizi motivazionali (peraltro, in questo caso, evocandosi una formula – “omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione” – che non è più quella propria dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo applicabile “ratione temporis” alla presente causa e che è ora limitato dalla legge all’omesso esame di un fatto decisivo) senza che sia adeguatamente specificato quale errore, tra quelli dedotti, sia riferibile a vizi di così diversa natura lamentati, in tal modo non consentendo una sufficiente identificazione del {“devolutum” e dando luogo alla convivenza, in seno ai medesimi motivi di ricorso, “di censure caratterizzate da… irredimibile eterogeneità’ (v. Cass., Sez. Un., 24 luglio 2013, n. 17931; Cass., Sez. Un., 12 dicembre 2014, n. 26242; Cass. 13 luglio 2016, n. 14317; Cass. 7 maggio 2018, n. 10862);

infatti il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ricorre o non ricorre per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto così come accertato dai giudici del merito, la norma, della cui esatta interpretazione non si controverte, non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata “male” applicata, e cioè applicata a fattispecie non esattamente sussumibile nella norma (v. Cass. 15 dicembre 2014, n. 26307; Cass. 24 ottobre 2007, n. 22348), sicchè il sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata; al contrario del sindacato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 che invece postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti;

nei motivi in esame mal si comprende in quali sensi convivano i differenti vizi denunciati, articolati in una intricata commistione di elementi di fatto, riscontri di risultanze di causa, argomentazioni giuridiche, frammenti di sentenza impugnata e di altre richiamate, rendendo i motivi medesimi inammissibili per difetto di sufficiente specificità;

5.2. i motivi sono anche inammissibili perchè formulati senza il necessario rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4;

la Corte territoriale, al fine di ritenere integrato il giudicato, ha interpretato sia la sentenza del Tribunale di Lamezia Terme n. 324/2009 (riproducendo, di questa, la parte relativa allo svolgimento del processo ed alle deduzioni della M. di cui al ricorso depositato in data 2/12/2005) sia la sentenza della Corte d’appello Catanzaro n. 536/2011 (che aveva riformato la prima focalizzando altresì “l’attenzione sulla motivazione della delibera di sospensione, in quanto i motivi che avevano indotto la Regione all’adozione della stessa sono pienamente coincidenti con quelli dei successivi provvedimenti di decadenza dall’incarico”) ed ha ritenuto che gli atti sottoposti al vaglio del precedente giudicante fossero “sia la delibera di sospensione che quella successiva di decadenza – e ciò anche in virtù del fatto che, al momento della proposizione del giudizio culminato nella sentenza n. 324/2009, era già intervenuta la delibera di decadenza”;

per smentire tale passaggio argomentativo la ricorrente avrebbe dovuto riprodurre ovvero allegare non solo la sentenza rispetto alla quale è stato ritenuto il giudicato ma anche gli atti introduttivi dei due giudizi, cosa che non è avvenuta essendosi la predetta limitata a trascrivere, peraltro a diverso fine, solo parte dei motivi di appello che avevano in qualche modo riguardato la pronuncia del Tribunale n. 324/2009, poi riformata dalla sentenza n. 536/2011 (v. pagg. 8 e 9 del ricorso per cassazione) ed a riportare meri stralci di tale ultima sentenza (v. i punti a, b e c di pag. 11 del ricorso);

la giurisprudenza di questa Corte è consolidata nel ritenere che allorquando, come nella fattispecie, si controverta dell’esistenza, della negazione o dell’interpretazione di un giudicato esterno, la sentenza prodotta per dimostrare o per negare l’esistenza del giudicato stesso, rilevante ai fini della decisione, assume rispetto al giudizio la natura di una produzione documentale ed alla stessa, quindi, si estendono i requisiti di ammissibilità e di procedibilità imposti dalle norme sopra richiamate (v. Cass., Sez. Un., 27 gennaio 2004, n. 1416; Cass. 18 ottobre 2011, 21560; Cass. 5 giugno 2014, n. 12658; si vedano anche Cass. 11 febbraio 2015, n. 2617 e Cass. 23 giugno 2017, n. 15737);

l’art. 366 c.p.c., n. 6, come novellato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, oltre a richiedere l’indicazione degli atti, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi posti a fondamento del ricorso, esige che sia specificato in quale sede processuale il documento risulti prodotto e tale prescrizione, da correlarsi con l’ulteriore requisito di procedibilità di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, può essere soddisfatta, qualora il documento sia stato prodotto nelle fasi di merito dallo stesso ricorrente e si trovi nel relativo fascicolo, mediante la produzione di quest’ultimo, ma a condizione che nel ricorso si specifichi che il fascicolo sia stato depositato e la sede in cui, in quel fascicolo, il documento è rinvenibile (v. Cass., Sez. Un., 2 dicembre 2008, n. 28547; Cass., Sez. Un., 25 marzo 2010, n. 7161; Cass., Sez. Un., 3 novembre 2011, n. 22726);

l’obbligo di specifica indicazione deve essere assolto in modo puntuale, nel senso che occorre una precisa “localizzazione” del documento o dell’atto all’interno dei fascicoli dei precedenti gradi del giudizio (cfr. fra le più recenti Cass. 7 marzo 2018, n. 5478 e la giurisprudenza ivi indicata), sicchè non è sufficiente un generico richiamo al fascicolo di parte o d’ufficio, occorrendo, invece, che alla Corte vengano fornite tutte le indicazioni necessarie per l’immediato reperimento dell’atto;

la ricorrente, pur incentrando la propria doglianza sull’erronea interpretazione e valorizzazione della sentenza n. 536/2011, non ha riportato nel ricorso, se non in minima parte, il contenuto di tale decisione, non ha indicato da chi e con quali modalità il documento fosse stato prodotto nel giudizio di merito, non ha depositato lo stesso in questa sede;

nè risultano riprodotti o depositati gli atti sulla base dei quali detta pronuncia è stata resa e che solo avrebbero consentito una corretta lettura della stessa;

tanto evidentemente contrasta con il principio secondo il quale il ricorso per cassazione, anche ove si assuma la omessa o viziata valutazione di documenti, deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità nella condizione di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, nonchè di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo (v. ex multis Cass. 15 luglio 2015, n. 14784; Cass. 27 luglio 2017, n. 18679; Cass. 7 marzo 2018, n. 5478);

6. per tali motivi, va rigettato il primo motivo di ricorso e vanno dichiarati inammissibili gli altri;

7. l’onere delle spese del giudizio di legittimità resta a carico di parte ricorrente, in applicazione della regola generale della soccombenza;

8. sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo di ricorso e dichiara inammissibili gli altri; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.500,00 per compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza Camerale, il 26 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 maggio 2020

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