Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9083 del 18/05/2020

Cassazione civile sez. lav., 18/05/2020, (ud. 25/09/2019, dep. 18/05/2020), n.9083

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16800/2016 proposto da:

M.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ORAZIO, 31,

presso lo studio degli avvocati DANILO PATERNITI e COSTANTINO

TONELLI CONTI, che lo rappresentano e difendono;

– ricorrente –

contro

BANCA NAZIONALE DEL LAVORO S.P.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

PO 25-B, presso lo studio degli avvocati ROBERTO PESSI e FRANCESCO

GIAMMARIA, che la rappresentano e difendono;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 576/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 16/05/2016 R.G.N. 7551/2011.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Premesso:

che con sentenza n. 576/2016, pubblicata il 16 maggio 2016, la Corte d’appello di Roma, pronunciando nella causa proposta da M.S. nei confronti di Banca Nazionale del Lavoro S.p.A., in parziale riforma della sentenza del Tribunale della stessa sede, ha rideterminato il danno spettante al ricorrente in Euro 25.160,25 di cui Euro 20.160,25 a titolo di danno biologico permanente ed Euro 5.000,00 a titolo di danno morale, escluso, pertanto, il risarcimento del danno alla professionalità e il danno da inabilità temporanea totale e parziale invece riconosciuti dal giudice di primo grado;

– che avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il M., affidato a cinque motivi, cui ha resistito la Banca con controricorso;

– che entrambe le parti hanno depositato memoria;

rilevato:

che con il primo, il secondo e il terzo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere la Corte di appello considerato, da un lato, accertata la “protratta inattività del dipendente” e la inadeguatezza della sua “postazione lavorativa per un certo periodo”, là dove aveva ritenuto esistente, come già il giudice di primo grado, il diritto del lavoratore al risarcimento del danno biologico; dall’altro, per avere escluso la configurabilità di un danno alla professionalità, nonostante che, di per sè, i fatti accertati ne legittimassero il riconoscimento: in tal modo rendendo una motivazione gravemente contraddittoria e non conforme alle risultanze del materiale di prova acquisito al giudizio, in violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 1226 e 2103 c.c. (1 motivo); nonchè priva, nella palese illogicità del suo percorso argomentativo, dei requisiti minimi stabiliti per la motivazione giudiziale, così da poter essere censurata ex art. 360, n. 4, per motivazione apparente (2 motivo) e da incorrere altresì nel vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (3 motivo);

– che con il quarto, deducendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 324 c.p.c. e dell’art. 2909 c.c., nonchè vizio di motivazione, il ricorrente censura la sentenza impugnata in quanto la Corte territoriale, pur avendo riconosciuto la fondatezza della eccezione di inammissibilità della questione relativa alla limitazione del risarcimento al danno differenziale per essere stata sollevata dalla Banca solo con il ricorso in appello, aveva poi proceduto, sebbene vi si fosse formato il giudicato, ad esaminarla nel merito;

– che con il quinto, deducendo la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 10 e del D.Lgs. n. 38 del 2000, il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere erroneamente ritenuto che il riconoscimento delle voci di risarcimento del danno relative alla inabilità temporanea totale e parziale fosse incompatibile con l’assenza giustificata dalle medesime patologie;

osservato:

che i primi tre motivi, da esaminarsi congiuntamente per la loro stretta connessione, non possono trovare accoglimento, risolvendosi in considerazioni di merito, estranee alla sede del giudizio di legittimità;

– che, al riguardo, deve innanzitutto osservarsi (Cass. n. 13395/2018, fra le numerose conformi) che “la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del “nuovo” art. 360 c.p.c., n. 5)”; e che, come ripetutamente precisato, “in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito, con modif., dalla L. n. 134 del 2012” (Cass. n. 23940/2017, fra le molte conformi);

– che, d’altra parte, là dove (con il 3 motivo) il ricorrente ha espressamente denunciato il vizio di cui all’art. 360, n. 5, la censura si sostanzia nel rilievo di un difetto di coerenza e di logicità del percorso argomentativo seguito dalla Corte di merito per fondare le proprie conclusioni, sicchè essa non risulta conforme al modello legale del vizio “motivazionale”, quale risultante dalle riforme introdotte nel 2012 e dalle precisazioni rese da questa Corte a Sezioni Unite con riferimento al perimetro applicativo della norma nella sua nuova formulazione e alle condizioni di deduzioni del vizio (sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014 e successive conformi); nè può sostenersi (2 motivo) che la motivazione in esame non abbia superato la soglia del “minimo costituzionale”, come definito dalla giurisprudenza richiamata, e che in particolare debba considerarsi meramente “apparente”, essendo tale solo la motivazione che, sebbene graficamente esistente, “non renda tuttavia percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture” (Sez. U. n. 22232/2016);

– che, in ogni caso, la Corte di appello, nell’escludere la configurabilità di un necessario collegamento tra inattività e produzione di danno professionale, si è uniformata alla costante giurisprudenza di legittimità, secondo la quale il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento di tale voce di danno non ricorre automaticamente in tutte le ipotesi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione circa la natura e le caratteristiche del pregiudizio lamentato (cfr., fra le più recenti, Cass. n. 29206/2019);

– che il quarto motivo di ricorso non può egualmente essere accolto, essendo da ritenere che la Corte, non facendo luogo ad una pronuncia di inammissibilità, pur a fronte di rilevata proposizione soltanto in sede di gravame della questione relativa alla limitazione del risarcimento, e svolgendo considerazioni di merito, incompatibili con una decisione in rito, abbia, in realtà, implicitamente respinto la relativa eccezione della parte appellata;

– che è invece fondato e deve conseguentemente essere accolto il quinto motivo;

– che la sentenza, escludendo il diritto del M. al risarcimento del danno per inabilità temporanea, non si è invero uniformata al procedimento determinativo, di cui a Cass. n. 9112/2019, secondo la quale “in tema di danno c.d. differenziale, la diversità strutturale e funzionale tra l’erogazione Inail del D.Lgs. n. 38 del 2000, ex art. 13, ed il risarcimento del danno secondo i criteri civilistici non consente di ritenere che le somme versate dall’Istituto assicuratore possano considerarsi integralmente satisfattive del pregiudizio subito dal soggetto infortunato o ammalato, con la conseguenza che il giudice di merito, dopo aver liquidato il danno civilistico, deve procedere alla comparazione di tale danno con l’indennizzo erogato dall’Inail secondo il criterio delle poste omogenee, tenendo presente che detto indennizzo ristora unicamente il danno biologico permanente e non gli altri pregiudizi che compongono la nozione pur unitaria di danno non patrimoniale; pertanto, occorre dapprima distinguere il danno non patrimoniale dal danno patrimoniale, comparando quest’ultimo alla quota Inail rapportata alla retribuzione e alla capacità lavorativa specifica dell’assicurato; successivamente, con riferimento al danno non patrimoniale, dall’importo liquidato a titolo di danno civilistico vanno espunte le voci escluse dalla copertura assicurativa (danno morale e danno biologico temporaneo) per poi detrarre dall’importo così ricavato il valore capitale della sola quota della rendita Inail destinata a ristorare il danno biologico permanente”;

ritenuto:

conclusivamente che in accoglimento del quinto motivo, rigettati gli altri, la impugnata sentenza n. 576/2016 della Corte di appello di Roma deve essere cassata e la causa rinviata, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio, alla medesima Corte in diversa composizione, la quale si atterrà al principio di diritto sopra richiamato.

P.Q.M.

La Corte accoglie il quinto motivo, rigettati gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 25 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 18 maggio 2020

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