Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9076 del 01/04/2021

Cassazione civile sez. trib., 01/04/2021, (ud. 17/12/2020, dep. 01/04/2021), n.9076

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – rel. Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 23323/2016 R.G. proposto da:

B.F., rappresentato e difeso giusta delega in atti

dall’avv. Maurizio Rossi (PEC

mauriziorossi1.avvocatinapoli.legalmail.it) e dall’avv. Lorena Di

Fiore (PEC lorenadifiore.avvocatinapoli.legalmail.it);

– ricorrente –

Contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio eletto in Roma, via Dei Portoghesi, n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Campania n. 2335/44/15 depositata l’11/03/2016, non notificata;

Udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del

17/12/2020 dal Consigliere Roberto Succio.

 

Fatto

RILEVATO

che:

– con la sentenza impugnata la CTR ha accolto in parte l’appello dell’Ufficio riformando la sentenza di primo grado laddove dichiara il reddito accertato non imponibile a fini IVA, rigettandolo nel resto;

ricorre a questa Corte il contribuente con atto affidato a cinque motivi; resiste con controricorso l’Amministrazione Finanziaria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– il primo motivo di ricorso denuncia la violazione del Dir. 28 novembre 2006, n. 112, art. 132 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, n. 18, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR ritenuto assoggettati a Iva i compensi percepiti nell’esercizio di attività odontoiatrica ancorchè la stessa fosse stata esercitata abusivamente, da soggetto non iscritto all’albo;

– il motivo è infondato;

– come questa Corte ha ripetutamente stabilito, con orientamento che si intende qui confermare e ribadire (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 4987 del 01/04/2003; Sez. 5, Sentenza n. 19007 del 28/09/2005; Sez. 5, Sentenza n. 21703 del 22/10/2010) in tema di IVA, le prestazioni per cure mediche e paramediche rese alla persona nell’esercizio delle professioni ed arti sanitarie in virtù del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, n. 18, sono esenti dall’imposta solo se effettuate da soggetti abilitati al rispettivo esercizio, trattandosi di requisito espressamente contemplato dalla norma, in mancanza del quale la prestazione non assume, sul piano normativo, carattere sanitario. Deve inoltre escludersi che siffatta norma sia in contrasto con la Dir. CE n. 388 del 1977, in quanto la normativa comunitaria in tema di neutralità dell’IVA e l’interpretazione offertane dalla Corte di giustizia della Comunità Europea non impongono di riconoscere l’esenzione dalla succitata imposta per le prestazioni che, secondo la legge nazionale, possono essere effettuate soltanto da soggetti titolari di determinati requisiti di idoneità professionale;

– il secondo motivo deduce violazione e falsa applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, artt. 41,47 e 48, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR erroneamente ritenuto legittimo l’avviso di accertamento – notificato a seguito della redazione del PVC – ancorchè non preceduto dal contraddittorio preventivo previsto dalla normativa Europea;

– il motivo è infondato;

– va premesso che parte ricorrente non deduce (nè può rilevarsi dalla sentenza) che si tratti di un caso in cui non risulta esser stato rispettato il disposto della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7; anzi il motivo stesso chiarisce (pag. 14 del ricorso) come il vizio del procedimento denunciato consiste nel fatto che “tra l’emissione del PVC e la notifica dell’avviso di accertamento non vi è stato alcun invito rivolto al signor B. al contraddittorio preventivo obbligatorio”;

– come è noto, la L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, prevede che “nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza”;

– ne deriva che il contraddittorio, quanto al diritto interno, è garantito dall’esistenza di uno spatium deliberandi tra la notifica del PVC e la notifica dell’avviso di accertamento, che consente al contribuente di far valere in tal sede e con quelle modalità le proprie ragioni esercitando il diritto di esser sentito; non è previsto da alcuna disposizione vigente ratione temporis, come sostiene il ricorrente, che sia l’Ufficio a dover invitare con atto formale il soggetto verificato a contraddire sui rilievi;

– invero, è solo con il D.Lgs. n. 218 del 1997, art. 5 ter, come Modificato dal D.L. 30 aprile 2019, n. 34, n. 34, al suo art. 4 octies, e in vigore dall’1 luglio 2020 che si è previsto che “l’ufficio, fuori dei casi in cui sia stata rilasciata copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, prima di emettere un avviso di accertamento, notifica l’invito a comparire di cui all’art. 5 per l’avvio del procedimento di definizione dell’accertamento”;

– detta previsione non va qui applicata non solo in quanto successiva ai fatti di causa e non retroattiva, ma anche alla luce del suo dato testuale che ne limita la portata ai casi in cui non sia stata rilasciata copia del PVC, che qui risulta correttamente redatto e reso noto al contribuente;

– nè parte ricorrente qui deduce o ha dedotto nei gradi di merito, come già rilevato, l’inosservanza del termine di 60 giorni di cui alla L. 212 del 2000, art. 12, comma 7;

– venendo in ogni caso all’esame del quadro offerto dal diritto unionale, in cui la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE) tutela espressamente il diritto al contraddittorio nel modo molto più ampio, non solo in sede di processo giurisdizionale, nota la Corte come l’art. 47, nel contesto del rispetto del diritto ad un ricorso effettivo e ad un giudice imparziale, ma anche nella fase anteriore del procedimento amministrativo, debba esser correttamente interpretato;

– la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha applicato il diritto al contraddittorio, coerentemente con la sua natura di diritto fondamentale, affrontando il caso in cui il diritto comunitario non disciplini espressamente le modalità di esercizio di tale fondamentale diritto di difesa. E’ stato così statuito, dalla sentenza Kamino, che: “quando il diritto dell’Unione non fissa nè le condizioni alle quali deve essere garantito il rispetto dei diritti della difesa nè le conseguenze della violazione di tali diritti, tali condizioni e tali conseguenze rientrano nella sfera del diritto nazionale, purchè i provvedimenti adottati in tal senso siano dello stesso genere di quelli di cui beneficiano i singoli in situazioni di diritto nazionale comparabili (principio di equivalenza) e non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (principio di effettività) (v. sentenza G. e R., EU:C:2013:533, punto 35 nonchè giurisprudenza ivi citata)” (CGUE 3 luglio 2014, C-129 e 130/13, Kamino International Logistics BV e Datema Hellmann Worldwide Logistics BV contro Staatssecretaris van Financièn, p. 75). Orbene, siffatta decisione è stata resa in relazione ad una disciplina nazionale, quella olandese, che non prevedeva ai fini del contraddittorio un termine, e si è affermata in tal caso la necessità di una “prova di resistenza”, secondo un pragmatico canone che ricorre spesso nella giurisprudenza unionale. Infatti, la violazione del principio del rispetto dei diritti della difesa, ha proseguito la Corte, “comporta l’annullamento della decisione di cui trattasi soltanto quando, senza tale violazione, il procedimento avrebbe potuto con- durre ad un risultato differente” (CGUE, sent. ult. cit., p. 80). 15. Più simile alla previsione del termine dilatorio di cui allo Statuto del contribuente, art. 12, comma 7, che qui peraltro non trova applicazione in quanto non ve ne sono i presupposti di fatto, è la disciplina nazionale portoghese, la quale ha originato il rinvio pregiudiziale deciso da CGUE il 18 dicembre 2008, nella causa C-349/07, Sopropè – Organizagtes de Calgado Lda contro Fazenda Pública. In quel caso, il diritto interno prevedeva un termine per osservazioni, e si discuteva in particolare del diverso profilo, qui non rilevante, della congruità del termine per il contraddittorio, compreso in una forbice tra 8 e 15 giorni. Orbene, la Corte di Giustizia ha affermato al proposito: “(…) i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la sua decisione. A tal fine essi devono beneficiare di un termine sufficiente (v., in particolare, sentenze citate Commissione/Lisrestal e a., punto 21, e Mediocurso/Commissione, punto 36)” (CGUE, sent. ult. cit., p. 37). Il paragrafo successivo della medesima decisione sviluppa la linea di ragionamento della Corte ed è fondamentale per chiarire le condizioni alle quali il diritto nazionale possa essere ritenuto rispettoso del diritto comunitario, nel disciplinare condizioni ed effetti del contraddittorio endoprocedimentale: “tale obbligo incombe sulle amministrazioni degli Stati membri ogniqualvolta esse adottano decisioni che rientrano nella sfera d’applicazione del diritto comunitario, quand’anche la normativa comunitaria applicabile non preveda espressamente siffatta formalità. Trattandosi dell’attuazione del principio in parola e, più in particolare, dei termini per esercitare i diritti della difesa, si deve precisare che, qualora non siano fissati dal diritto comunitario, come nella causa principale, essi rientrano nella sfera del diritto nazionale purchè, da un lato, siano dello stesso genere di quelli di cui beneficiano i singoli o le imprese in situazioni di diritto nazionale comparabili, e, dall’altro, non rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti della difesa conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario.”. (CGUE, ibid., p. 38). L’insegnamento è riaffermato anche di recente da diverse decisioni della Corte di Giustizia che, per brevità, è sufficiente qui richiamare a campione: CGUE 8 marzo 2017, C-14/16, Euro Park Service, p. 36, in materia di rimborsi; CGUE 20 dicembre 2017, C276/16, Preqù Italia srl, p. 45 sul diritto al contraddittorio in materia doganale;

– quanto poi specificamente riguardo ai profili in materia di IVA, va ricordata la sentenza della Corte del Lussemburgo Ispas, la quale ha affermato che, in mancanza di una disciplina specifica del diritto unionale in materia di garanzie procedimentali, spetta all’ordinamento giuridico interno degli Stati membri, in virtù del principio di autonomia di cui ciascuno di essi dispone in tale materia, stabilire le modalità procedurali intese a garantire la tutela dei diritti riconosciuti ai contribuenti in forza dei principi generali del diritto dell’Unione, primo tra tutti il diritto di difesa, nel rispetto dei principi di equivalenza e di effettività (CGUE 9 novembre 2017, C-298/16, Ispas, p.p. 26, 28 e 29 e ss..);

– ne deriva quindi che sono due i principi cardine del diritto comunitario che regolano il diritto fondamentale al contraddittorio endoprocedimentale: o 1) il principio di equivalenza, ossia le modalità previste per l’applicazione del tributo armonizzato non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano analoghi procedimenti amministrativi per tributi di natura esclusivamente interna; 2) il principio di effettività, ovvero la disciplina nazionale non deve rendere in concreto impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione, e quindi il contribuente dev’essere posto nelle condizioni di esercitare il contraddittorio;

– quindi, in via generale, nel triplice caso di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, è già stata operata dal legislatore una valutazione ex ante in merito al rispetto del contraddittorio, attraverso la comminatoria di nullità dell’atto impositivo nel caso di violazione del termine dilatorio di 60 giorni per consentire al contribuente l’interlocuzione con l’Amministrazione finanziaria, a far data dalla conclusione delle operazioni di controllo. Questa è una disciplina nazionale che, già a monte, assorbe la “prova di resistenza”, nel pieno rispetto della giurisprudenza della CGUE (cfr. sentt. Kamino, cit., p. 80 e Sopropè, cit., p. 37). Così interpretato, la L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, che qui peraltro come detto non si applica difettandone i requisiti fattuali di violazione del termine dei 60 giorni ivi indicato, garantisce pienamente sia il principio di equivalenza (il quale, anzi, risulterebbe violato se la norma fosse applicabile ai soli tributi non armonizzati), sia quello di effettività. La norma, nel prevedere la deroga alla regola generale del rispetto del termine dilatorio nel caso di esistenza di ragioni di urgenza, opera un bilanciamento degli interessi coinvolti, escludendo che siano compromessi gli effetti della normativa unionale in tema di riscossione dell’IVA (cfr. sent. Kamino, cit., p. 77). Siffatta interpretazione è al tempo stesso rispettosa anche dei principi generali dell’ordinamento giuridico nazionale civile, amministrativo e tributario, secondo cui la regola della strumentalità delle forme, ai fini del rispetto del contraddittorio, viene meno in presenza di un’espressa sanzione di nullità comminata dalla legge per la violazione in questione. Non pare potersi dubitare che tali principi generali valgano anche ai fini del contraddittorio endoprocedimentale tributario; e a maggior ragione se ne deve fare applicazione nel presente caso, nel quale il rispetto (non risultando ex actis alcuna violazione) del termine di 60 giorni in parola adeguato presidio e tutela del diritto al contraddittorio e adeguata attuazione nell’ordinamento interno dei principi sovranazionali richiamati;

– il terzo motivo censura la gravata sentenza per non aver la stessa tenuto conto del giudicato interno sull’annullamento della sanzione irrogata a fini IVA e in subordine per violazione della L. n. 212 del 2000, art. 10, commi 2 e 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 per avere la CTR in primo luogo erroneamente ritenuto applicabili le sanzioni irrogate dall’Ufficio mentre tal irrogazione era stata annullata dalla CTP e in quanto non esplicitamente impugnata dall’Agenzia delle Entrate nel proprio atto di appello su tal statuizione della CTP era intervenuto il giudicato; in secondo luogo violato la previsione statutaria sopra richiamata, sempre quanto alle sanzioni, in quanto l’orientamento della prassi amministrativa legittimava sul piano interpretativo l’esenzione iva invocata dal contribuente;

– ambedue i profili posti dal motivo sono infondati;

– quanto al primo, questa Corte ritiene, con orientamento che il Collegio condivide ed al quale aderisce (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 12631 del 19/05/2017) che in tema di contenzioso tributario, l’appello dell’Ufficio nel giudizio riguardante l’impugnazione di un avviso di accertamento non necessita di uno specifico ed autonomo motivo sulle sanzioni, costituendo queste un’obbligazione accessoria a quella principale, direttamente discendente da essa, ed in cui, quindi è compresa, sicchè deve escludersi che sia affetta dal vizio di ultrapetizione, ex art. 112 c.p.c., la sentenza della commissione tributaria regionale che, in assenza del predetto autonomo e specifico motivo, confermi “in toto” l’avviso di accertamento, anche con riguardo alle sanzioni;

– quanto al secondo profilo, parte ricorrente invoca una circolare del 1999 favorevole alla sua tesi, poi smentita da una successiva circolare del 2002; poichè però il periodo d’imposta qui accertato è il 2009, è chiaro che all’epoca (nel 2009) questa Corte aveva già sancito risultando a questo punto irrilevante ogni considerazione quanto ai documenti di prassi dell’Amministrazione – l’assoggettamento (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 4987 del 01/04/2003; Sez. 5, Sentenza n. 19007 del 28/09/2005) ad iva delle prestazioni dedotti di guisa che nessuna incertezza poteva sussistere sul punto;

– comunque, questa Corte ha chiarito (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 23309 del 09/11/2011) come in tema di legittimo affidamento del contribuente di fronte all’azione dell’Amministrazione finanziaria, ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 10, commi 1 e 2, (cd. Statuto del contribuente), costituisce situazione tutelabile quella caratterizzata: a) da un’apparente legittimità e coerenza dell’attività dell’Amministrazione finanziaria in senso favorevole al contribuente; b) dalla buona fede del contribuente, rilevabile dalla sua condotta, in quanto connotata dall’assenza di qualsiasi violazione del dovere di correttezza gravante sul medesimo; c) dall’eventuale esistenza di circostanze specifiche e rilevanti, idonee ad indicare la sussistenza dei due presupposti che precedono;

– nel presente caso, l’esercizio del tutto irregolare e in violazione anche di disposizioni penali dell’attività di odontoiatra consente di escludere ogni buona fede da parte del contribuente meritevole di tutelarne un legittimo affidamento comunque insussistente per le ragioni appena sopra dette;

– il quarto motivo denuncia la violazione del principio del “ne bis in idem” ai sensi del prot. n. 7 CEDU, art. 4, come interpretato dalla sentenza CEDU del 4 marzo 2014, in relazione all’art. 117 Cost., nonchè all’art. 50 CDFUE, in quanto il sig. B. con decreto penale di condanna del 7 aprile 2010 è stato condannato per esercizio abusivo della professione di odontoiatra;

– il motivo è infondato;

– va dapprima precisato, quanto ai tributi oggetto del presente giudizio, che questa Corte ha già chiarito come (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 24470 del 05/10/2018) il divieto del ” bis in idem” non operi rispetto agli atti impositivi in quanto postula, anche in virtù dei principi enunciati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo e dalla Corte costituzionale, che un soggetto sia stato sottoposto a processo penale e che, per conseguire effetti deterrenti, gli sia stata irrogata un’ulteriore misura, finalizzata alla punizione del medesimo fatto, che, al di là dalla qualificazione giuridica operata dalla legislazione nazionale, sia da ritenere di natura penale per la gravità delle conseguenze da essa derivanti: detti caratteri non sono ascrivibili alla pretesa impositiva, atteso che con la stessa l’Amministrazione finanziaria si limita a recuperare l’imposta non versata;

– invero, presupposto di base per l’applicazione dei principi richiamati dal ricorrente e delle disposizioni sovranazionali invocate è quello della applicazione alla medesima condotta di sanzioni penali e amministrative o tributarie;

– riguardo le sanzioni, valgono poi le considerazioni che seguono;

– va premesso come nel presente caso, la sanzione penale di cui al decreto penale di condanna prodotto da parte ricorrente (doc. n. 7) è irrogata non in forza di violazioni riguardanti comportamenti rilevanti ai fini del prelievo tributario, ma per altre ragioni e a presidio di diversi interessi pubblici meritevoli di tutela;

– infatti, quanto viene addebitato nel decreto penale di condanna al sig. B., come si evince dal contenuto dello stesso trascritto in ricorso per cassazione a pag. 21 dell’atto, è l’aver esercitato abusivamente la professione di odontoiatra, per la quale è richiesta una speciale abilitazione da parte dello Stato, non l’aver adottato un comportamento fraudolento diretto a violare obblighi tributari;

– i due procedimenti al quali lo stesso è stato sottoposto (quello penale e quello tributario) perseguono finalità diverse nella politica dello Stato diretta a reprimere condotte non consentite; il primo tutela l’interesse pubblico allo svolgimento delle professioni da parte di soggetti adeguatamente formati, il secondo l’interesse pubblico alla corretta apprensione dei tributi dovuti;

– vi è stata poi collaborazione fra gli organi pubblici in ogni fase dei due procedimenti e, in particolare, una stretta connessione fra i due giudizi finali; tanto che l’avviso di accertamento è stato notificato in data 12 febbraio 2013 mentre il decreto penale è stato notificato in data 7 aprile 2010; vi è quindi una vicinanza temporale tra i due procedimenti assai netta e rilevante;

– in argomento, la Corte EDU, nella sentenza A. e B. c. Norvegia, 15 novembre 2016, ha sul punto ben precisato le questioni già poste con la nota pronuncia Grande Stevens c. Italia in tema di violazione del principio del ne bis in idem (art. 4, Prot. 7 alla CEDU), alla quale si fa riferimento in ricorso;

– la sentenza chiarisce che il principio del ne bis in idem sancito dal Prot. 7, art. 4, non impedisce, di per sè, agli Stati Contraenti di configurare un “doppio binario sanzionatorio” (amministrativo e penale) con riferimento agli illeciti fiscali: “(…) the object of Artide 4 of Protocol No. 7 is to prevent the injustice of a person’s being prosecuted or punished twice for the same criminalised conduct. It does not, however, outlaw legai systems which take an “integrated” approach to the social wrongdoing in question, and in particular an approach involving parallel stages of legai response to the wrongdoing by different authorities and for different purposes” (par. 123) – “(…) il Prot. n. 7, art. 4, ha lo scopo di prevenire l’ingiustizia che una persona sia perseguita o punita due volte per la stessa condotta penalmente rilevante. Esso non vieta tuttavia i sistemi giuridici che adottano un approccio “integrato” all’illecito sociale in questione, e in particolare un approccio che prevede fasi parallele di risposta giuridica all’illecito da parte di autorità diverse e per scopi diversi” (par. 123);

– nondimeno, come emerge dal corpo della motivazione, tale “doppio binario sanzionatorio” deve essere valutato alla luce dei criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte (in particolare nei casi R.T. c. Svizzera, Nilsson v. Svezia e Nyknen c. Finlandia), che costituiscono una guida “for situating the fair balance to be struck between duly safeguarding the interests of the individuai protected by the ne bis in idem principle, on the one hand, and accommodating the particular interest of the community in being able to take a calibrated regulatory approach in the area concerned, on the other” (par. 124); ovvero “per individuare il giusto equilibrio da raggiungere tra la debita salvaguardia degli interessi dell’individuo tutelati dal principio del ne bis in idem, da un lato, e dall’altro la soddisfazione dell’interesse particolare della collettività ad adottare un approccio normativo calibrato nel settore interessato”;

– in particolare, a giudizio della Corte, al fine di escludere la violazione del ne bis in idem occorre verificare se i due procedimenti – quello amministrativo e quello penale – siano sufficientemente connessi nella sostanza e nel tempo (“sufficiently connected in substance and in time” par. 131). A tal proposito, la pronuncia fornisce un elenco esemplificativo di criteri, tra i quali quello degli scopi in concreto perseguiti dai due procedimenti, della prevedibilità dello sdoppiamento delle procedure, della presenza di meccanismi di coordinamento procedurale e sostanziale tra le autorità intervenienti (par. 132). Quanto a tale ultimo – fondamentale – aspetto, la Corte sottolinea la necessità che, sul piano procedurale, si eviti una duplicazione nella raccolta e nella valutazione delle prove, e che, sul piano sostanziale, la sanzione imposta dal primo giudice sia presa in debita considerazione dal secondo giudice “so as to prevent that the individuai concerned is in the end made to bear an excessive burden, this latter risk being least likely to be present where there is in piace an offsetting mechanism designed to ensure that the overall amount of any penalties imposed is proportionate” (par. 132) ovvero “in modo da prevenire che l’individuo interessato sia infine costretto a sopportare un onere eccessivo, rischio quest’ultimo che è meno probabile qualora sussista un meccanismo di compensazione destinato a garantire che l’importo globale delle sanzioni imposte sia proporzionato”;

– nel presente caso, quanto alla sanzione inflitta con il decreto penale la stessa è davvero modesta e in concreto risulta tale da risultare graduata in moda da tenere nel debito conto la pena già inflitta anche se invero non ancora definitivamente irrogata nel presente procedimento;

– la risposta sanzionatoria complessiva dello Stato rispetta pertanto il principio di proporzionalità ed è prevedibile da parte dei contribuenti;

– inoltre, non pare esservi alcuna duplicazione nella raccolta e valutazione delle prove, poichè il decreto penale nell’ordinamento italiano, ex art. 459 e ss. c.p.p. trova applicazione quando per i reati in contestazione è possibile applicare una sanzione finale costituita dalla sola pena pecuniaria, anche se inflitta in sostituzione di quella detentiva viene emesso dal Giudice per le indagini preliminari su richiesta del Pubblico Ministero sulla base delle risultanze delle indagini preliminari senza alcuna ulteriore istruttoria; esso prevede come misura premiale per l’imputato la riduzione della pena fino alla metà rispetto al minimo edittale; non comporta il pagamento delle spese del procedimento, nè l’applicazione di pene accessorie e, anche se divenuto esecutivo, non ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo;

– il reato, in questi casi, è estinto se nel termine di cinque anni, quando il decreto concerne un delitto, ovvero di due anni, quando il decreto concerne una contravvenzione, se l’imputato non commette un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole. In questo caso si estingue ogni effetto penale, come previsto dall’art. 460 c.p.p., comma 5; è prevista la non menzione della condanna nel certificato penale richiesto dalla parte;

– in ultimo, va ribadito come in ogni caso la sanzione penale in questo caso non solo è astrattamente prevista nell’ordinamento interno solo per la punizione di fatti di evasione consistenti in una condotta fraudolenta; nel presente caso è prevista a tutela di altro diverso interesse autonomo rispetto a quello tributario;

– il quinto motivo deduce la violazione del principio del favor rei in considerazione del mutato regime sanzionatorio di cui al d. Lgs. n. 158 del 2015, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;

– il motivo è infondato;

– parte ricorrente, pur producendo in questa sede l’avviso di accertamento impugnato, dal quale possono evincersi le sanzioni in concreto irrogate, non ridetermina l’entità di queste ultime alla luce della disciplina introdotta dallo ius superveniens;

– va quindi applicata la giurisprudenza di questa Corte in forza della quale (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 31062 del 30/11/2018) in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, le modifiche apportate dal D.Lgs. n. 158 del 2015 non operano in maniera generalizzata in favor rei, rendendo la sanzione irrogata illegale, sicchè deve escludersi che la mera deduzione, in sede di legittimità, di uno ius superveniens” più favorevole, senza specifiche allegazioni rispetto al caso concreto idonee ad influire sui parametri di commisurazione della sanzione, imponga la cassazione con rinvio della sentenza impugnata;

– conclusivamente, il ricorso va rigettato;

– la soccombenza regola le spese;

– sussistono i requisiti per il c.d. “raddoppio” del contributo unificato per atti giudiziari.

PQM

rigetta il ricorso; liquida le spese in Euro 2.200,00 oltre a spese prenotate a debito che pone a carico di parte soccombente.

Ai seni del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il, il 17 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 1 aprile 2021

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA