Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9070 del 07/04/2017


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Cassazione civile, sez. I, 07/04/2017, (ud. 23/02/2017, dep.07/04/2017),  n. 9070

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMBROSIO Annamaria – Presidente –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 376/2013 proposto da:

M.A., (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato in Roma,

Corso Trieste n. 87, presso l’avvocato Antonucci Arturo, che lo

rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Intesa Sanpaolo S.p.a., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Viale delle Milizie n.

1, presso l’avvocato Brugnatelli Enrico, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato Grassi Manuela Maria, giusta procura

in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1109/2012 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 06/09/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/02/2017 dal Cons. Dott. FALABELLA MASSIMO;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato Antonucci che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso;

udito, per la controricorrente, l’Avvocato Federico Ghera, con delega

avv. Brugnatelli, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale CERONI

Francesca, che ha concluso per l’inammissibilità in subordine

rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1 – M.A. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Arezzo Banca Intesa s.p.a. – oggi Intesa Sanpaolo s.p.a. – esponendo di aver costituito in pegno, a favore della banca, dei titoli obbligazionari, e ciò al fine di ottenere finanziamenti in valuta estera per 201.000.000,00 yen giapponesi, corrispondenti, alla data dell’11 ottobre 2001, a un ammontare di Euro 1.652.338,37, oltre che allo scopo di far ottenere alla propria partecipata GM Catene s.p.a. finanziamenti in valuta estera per 70.000.000,00 yen giapponesi, il cui controvalore alla predetta data dell’11 ottobre 2001, ammontava a Euro 574.816,53. Deduceva, inoltre, di aver prestato fideiussione nei confronti della banca per la concessione di un finanziamento in favore di Capital s.p.a. fino alla concorrenza di Euro 206.582,76 e che analoga garanzia era stata prestata da GM Catene. Assumeva che il 19 luglio 2002 la banca aveva revocato i fidi a quest’ultima società, poi dichiarata fallita, e intimato il pagamento della stessa somma ad esso attore e a GM Catene in forza delle garanzie fideiussorie prestate. La banca aveva inoltre assunto analoga iniziativa con riferimento a tutti gli affidamenti concessi a M. e aveva successivamente provveduto alla vendita dei titoli in portafoglio di proprietà dell’attore per un totale di Euro 2.313.220,86: ciò, nonostante fosse insussistente il rischio del mancato soddisfacimento delle proprie ragioni creditorie. Sosteneva essere vessatorie, a norma dell’art. 1469 bis c.c. e segg., le clausole del contratto di apertura di credito che derogavano alla normativa codicistica e lamentava che la banca avrebbe dovuto azionare in primo luogo le garanzie fideiussorie prestate in favore di Capital, conseguendo quanto necessario per far venir meno lo scoperto di Euro 96.330,00, che concerneva quest’ultima società. Chiedeva dunque che fosse accertata l’illegittimità della vendita dei titoli in pegno effettuata dalla banca e che quest’ultima fosse condannata al ripristino allo status quo ante, ovvero, in subordine, al pagamento della somma corrispondente al minor valore di realizzo dei titoli venduti rispetto a quello corrente alla scadenza, nonchè al risarcimento degli ulteriori danni.

Si costituiva in giudizio Banca Intesa, che resisteva alle domande contro di essa proposte.

Esperita consulenza tecnica d’ufficio, il Tribunale riteneva sussistente l’illegittimità della vendita dei titoli obbligazionari oggetto del pegno, posta in atto dalla banca, e condannava la medesima al risarcimento del danno: danno che era liquidato, sulla scorta delle risultanze peritali, in Euro 519.751,49.

2. – La pronuncia era impugnata da Banca Intesa e la Corte di appello di Firenze, con sentenza depositata il 6 settembre 2012, ne operava la riforma, rigettando le pretese azionate da M.A..

3. – Quest’ultimo ricorre per cassazione, facendo valere quattro motivi di impugnazione. Resiste con controricorso Intesa Sanpaolo. Le parti hanno depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo di ricorso è denunciata violazione degli artt. 342 e 329 c.p.c., nonchè dell’art. 2909 c.c.. La sentenza di primo grado – è dedotto – aveva affermato che la banca, per giustificare la vendita dei titoli costituiti in pegno, avrebbe dovuto dimostrare l’inadempimento di esso ricorrente quanto alle obbligazioni garantite; la pronuncia stessa aveva invece dato atto che di tale inadempimento non era stato fornito riscontro. Rileva l’istante che la banca, nel suo atto d’appello, non aveva formulato alcuna impugnazione con riguardo al capo della pronuncia concernente la dimostrazione del proprio inadempimento alle obbligazioni garantite dal pegno. La Corte di appello, per parte sua, aveva affermato che la sussistenza dell’inadempimento delle obbligazioni garantite costituiva il presupposto implicito, ma inequivoco, dell’intero gravame. In tal modo, ad avviso del ricorrente, la Corte territoriale aveva però mancato di considerare che i motivi di appello, a norma dell’art. 342 c.p.c., devono presentare il carattere della specificità.

1.1 – Il motivo non ha fondamento.

Nella citazione in appello (pag. 29) la banca ha puntualmente fatto valere l’inadempimento del ricorrente all’obbligazione garantita dal pegno. Rammentato, infatti, che questo garantiva l’obbligazione avente ad oggetto il rimborso del finanziamento in valuta estera (yen giapponesi), è agevole constatare che Banca Intesa rilevò, nel proprio atto di impugnazione, che dall’asserita illegittimità del recesso dal fido “l’impugnata pentenza ha fatto derivare l’illegittimità del realizzo del pegno”: poichè, secondo l’appellante, il recesso dal fido e il correlativo preavviso “con invito a rimborso rimasto senza esito” erano legittimi, anche la successiva vendita dei titoli dati in pegno doveva considerarsi lecita; onde – ha concluso – l’operazione avvenne “in piena conformità con quanto previsto nell’atto costitutivo del pegno medesimo”.

Emerge, così, che l’odierna controricorrente trattò, nel proprio atto di impugnazione, proprio dell’inadempimento di M. all’obbligazione concernente la restituzione degli importi a lui erogati in forza del contratto di finanziamento in valuta estera: e ciò nell’ambito del primo motivo di appello, vertente sulla “legittimità della chiusura del fido al sig. M.A. e del realizzo del relativo pegno”: realizzo che, in buona sintesi, l’appellante reputò lecito proprio in quanto, a seguito della revoca del finanziamento, l’appellato aveva mancato di ottemperare alla richiesta di rimborso a lui indirizzata.

Si osserva, comunque, che il giudizio di appello, pur limitato all’esame delle sole questioni oggetto di specifici motivi di gravame, si estende ai punti della sentenza di primo grado che siano, anche implicitamente, connessi a quelli censurati, sicchè non viola il principio del tantum devolutum quantum appellatum il giudice di secondo grado che fondi la propria decisione su ragioni diverse da quelle svolte dall’appellante nei suoi motivi, ovvero esamini questioni non specificamente da lui proposte o sviluppate, le quali, però, appaiano in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi e, come tali, comprese nel thema decidendum del giudizio (Cass. 16 gennaio 2016, n. 1377; cfr. pure, ad es.: Cass. 11 gennaio 2011, n. 443; Cass. 10 febbraio 2006, n. 2973).

2. – Il secondo mezzo lamenta violazione degli artt. 1175 e 1375 c.c.. Rammenta il ricorrente che il giudice distrettuale aveva considerato legittima la revoca degli affidamenti: in particolare, aveva ritenuto che tale revoca fosse conforme alle norme contrattuali e che, inoltre, esso istante si trovasse in una condizione di difficoltà nel far fronte alle obbligazioni assunte verso l’istituto di credito; la Corte toscana aveva quindi affermato la legittimità del recesso e, conseguentemente, della vendita dei titoli obbligazionari detenuti in pegno. Di contro, la condotta della banca, avendo riguardo sia alla revoca degli affidamenti, sia alla vendita dei titoli oggetto del pegno, non risultava essere conforme all’obbligo di comportarsi secondo buona fede e costituiva, piuttosto, espressione dell’abuso del diritto. Infatti, la banca, a fronte di un inadempimento di soli Euro 92.643,83, ne aveva “artificiosamente creato” uno di oltre Euro 2.000.000,00, importo, questo, interamente coperto dalla nominata garanzia. L’anomalia, come già evidenziato dalla sentenza di prime cure, era rappresentata non solo dalla tempistica delle iniziative poste in essere dalla controparte, che erano risultate penalizzanti per il ricorrente, ma anche dal fatto che il ricavato della vendita era stato impiegato per assicurare il soddisfacimento di un credito diverso rispetto a quello garantito: infatti, la documentazione prodotta dimostrava che Banca Intesa aveva trattenuto sul totale ricavato anche la somma che si assumeva dovuta da esso M. per la fideiussione prestata con riguardo all’obbligazione contratta da Capital. L’abuso del diritto da parte della banca era, poi, ulteriormente aggravato dal comportamento dalla stessa tenuto dopo la revoca degli affidamenti: infatti la controricorrente non aveva ritenuto di attendere che M. portasse a termine le trattative avviate per il trasferimento della sua posizione presso altro istituto di credito.

2.1 – La complessa censura va disattesa.

La Corte di merito ha evidenziato che Banca Intesa aveva richiesto all’odierno ricorrente, quale fideiussore, il rimborso della somma di Euro 92.643,83 dovuta da Capital e che, poichè lo stesso M. non aveva provveduto al pagamento – essendosi limitato a proporre un accordo “a stralcio”, basato sulla corresponsione del 20% dell’intero importo dovuto -, aveva deciso la revoca degli affidamenti a suo tempo concessi, intimando all’odierno istante il rimborso della somma di Euro 1.652.338,37. Il giudice distrettuale ha quindi concluso precisando che la vendita dei titoli era stata finalizzata al soddisfacimento delle obbligazioni garantite dal pegno, e non di obbligazioni diverse. A fondamento della legittimità del recesso ha posto, poi, le seguenti circostanze: l’inadempimento, da parte di M., dell’obbligazione fideiussoria; la presenza di perdite per complessivi Euro 843.926,00 nell’esercizio 2001 maturata dalla società GM Catene, di cui il ricorrente era socio; l’emissione di un decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo, richiesto da altro istituto di credito, per l’importo di Euro 306.990,54 nei confronti di Capital; la non tranquillizzante posizione personale dello stesso M., il quale, oltre ad avere un reddito personale non elevato, aveva prestato fideiussione in favore di società da lui amministrate e partecipate.

Può dirsi, quindi, che sul tema che qui interessa la Corte di appello abbia reso ampia e congrua motivazione.

Ora, la deduzione del ricorrente – secondo cui la banca avrebbe violato il principio di buona fede nella revoca degli affidamenti e nella vendita dei titoli costituiti in pegno, posto che una parte della somma ricavata da quest’ultima operazione sarebbe stata destinata alla copertura dell’esposizione debitoria derivante dalla fideiussione (che i titoli non garantivano) e posto, altresì, che la stessa controricorrente non aveva consentito ad esso M. di trasferire la sua posizione presso Citinbank – non vale a dar conto della censurata violazione degli artt. 1175 e 1375 c.c.: e ciò in quanto il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. Sez. U. 5 maggio 2006, n. 10313; in senso conforme, ad es.: Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26110; Cass. 4 aprile 2013, n. 8315). Nel caso in esame, il ricorrente si sofferma su alcune risultanze di causa che la Corte di Firenze avrebbe erroneamente apprezzato (documentazione contabile relativa alla destinazione del ricavato della vendita dei titoli, lettera di Citibank concernente il tema della negoziazione di un nuovo contratto di finanziamento): la censura non è quindi riconducibile nell’alveo dell’art. 360 c.p.c., n. 3.

3. – Il terzo mezzo denuncia omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Secondo il ricorrente la sentenza del giudice del gravame aveva omesso di esaminare la rilevanza o meno di una lettera prodotta in primo grado: corrispondenza proveniente dall’Istituto Citibank con cui si era inteso dimostrare che il ricorrente, a seguito dell’imprevisto recesso di Banca Intesa, si era prontamente attivato per reperire un altro istituto di credito cui “trasferire la posizione”, consentendo così a Banca Intesa di ottenere il soddisfacimento delle proprie pretese senza che si procedesse alla vendita dei titoli costituiti in pegno. Il Tribunale di Arezzo – ricorda il ricorrente – aveva riconosciuto che attraverso la predetta lettera era stata fornita la prova contraria della giusta causa del recesso; la Corte di merito aveva omesso ogni motivazione al riguardo, mancando pure di considerare che il consulente tecnico d’ufficio, nominato in primo grado, aveva evidenziato che lo stesso M. godeva di ampio credito sul mercato bancario, che ciò non era ignoto all’odierna controricorrente e che, infine, l’odierno istante non avrebbe avuto difficoltà a “riposizionare” il finanziamento ove Banca Intesa non avesse inteso continuare ad assicurargli la liquidità necessaria.

3.1 – Il motivo non ha fondamento.

La Corte di Firenze ha diffusamente argomentato quanto al recesso dal finanziamento e, sulla base di valutazioni che non sono censurabili in questa sede, ha ritenuto che la revoca della linea di credito fosse legittima. Il fatto che la predetta Corte non abbia specificamente preso in considerazione, nel provvedimento, il profilo afferente la trattativa avviata da M. con Citibank non vale ad inficiare il ragionamento esposto nella sentenza impugnata ove si consideri che per poter configurare il vizio di motivazione è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza (per tutte: Cass. 24 ottobre 2013, n. 24092; Cass. 29 settembre 2006, n. 21249; Cass. 28 giugno 2006, n. 14973). In particolare, in base alla previsione dell’art. 360, n. 5, nella versione applicabile alla fattispecie, successiva alla modificazione della norma apportata con D.Lgs. n. 40 del 2006, l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione deve riguardare un fatto “controverso e decisivo per il giudizio” e ciò implica che la motivazione della quaestio facti sia affetta non da una mera contraddittorietà, insufficienza o mancata considerazione, ma che sia tale da determinare la logica insostenibilità della motivazione (così Cass. 20 agosto 2015, n. 17037).

4. – E’ oggetto del quarto motivo la censura di violazione di legge in relazione all’art. 1341 c.c., art. 1342 c.c., comma 2 e art. 1469 bis c.c.. Rileva l’istante che la sentenza di primo grado aveva chiaramente individuato, tra i motivi di illegittimità dell’operato della banca, la vessatorietà della clausola relativa al recesso, con particolare riferimento al termine di preavviso, in quanto non era stata oggetto di specifica trattativa. La Corte di appello si era limitata ad affermare l’inapplicabilità alla fattispecie della disciplina consumeristica, stante la qualità di imprenditore rivestita da M.. Di contro – si sostiene – la qualifica di consumatore ben potrebbe riferirsi all’imprenditore che stipuli un contratto il cui oggetto risulti estraneo all’esercizio dell’impresa. Nel caso di specie, la parte più consistente dell’esposizione debitoria di M. non era collegata allo svolgimento di un’attività imprenditoriale, inerendo alla gestione del risparmio dello stesso ricorrente. Si spiega, inoltre, con specifico riferimento alla disciplina posta dall’art. 1342 c.c., che la clausola risultava inserita nel contratto di conto corrente e che essa non risultava richiamata in quello di apertura di credito.

4.1 – Nemmeno sul punto la sentenza merita cassazione.

Il motivo cumula, al suo interno, e in modo per la verità poco chiaro, censure che interessano sia, la disciplina delle clausole vessatorie di cui all’art. 1341 c.c., comma 2 e art. 1342 c.c., comma 2, sia la normativa di tutela del consumatore in tema di clausole abusive, contenuta, all’epoca dei fatti di causa, negli artt. 1469 bis c.c. e segg..

La prima delle due censure (a pag. 33 del ricorso) è inammissibile, in quanto non risulta che la Corte di appello ne fosse stata specificamente investita: del tutto incidentalmente il giudice distrettuale ha infatti dato atto della specifica approvazione della clausola contrattuale che qui interessa.

Con riferimento al tema della disciplina in materia di clausole abusive, la Corte territoriale ha invece osservato che M. aveva concluso i contratti per cui è causa “nell’ambito della sua attività di imprenditore (e non certo per far fronte ad occasionali esigenze della vita quotidiana)”: ha pertanto ritenuto che tali contratti dovessero ritenersi “sottratti all’applicazione della normativa sopra richiamata” (quella, cioè, di tutela del consumatore).

Tale affermazione è corretta in punto diritto, dal momento che la qualifica di “consumatore” spetta solo alle persone fisiche e la stessa persona fisica che svolga attività imprenditoriale o professionale potrà essere considerata alla stregua del semplice “consumatore” soltanto allorchè concluda un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’esercizio di dette attività (per tutte: Cass. 23 settembre 2013, n. 21763; Cass. 15 maggio 2013, n. 11773; Cass. 14 luglio 2011, n. 15531).

Il medesimo dictum non può essere poi censurato in punto di fatto, assumendosi che la parte più rilevante dell’esposizione debitoria del ricorrente non aveva attinenza con l’esercizio dell’attività imprenditoriale: una tale deduzione, – oltre a non misurarsi con la pronuncia impugnata (la quale ha giustamente valorizzato la veste con cui M. concluse i negozi, disinteressandosi delle vicende successive) è evidentemente preordinata a un riesame delle risultanze processuali: attività, questa, riservata, in via esclusiva, al giudice del merito.

5. – Il ricorso va dunque respinto.

6. – Le spese di giudizio seguono la soccombenza.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi, liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 23 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 7 aprile 2017

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