Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 905 del 17/01/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 905 Anno 2014
Presidente: ROSELLI FEDERICO
Relatore: NOBILE VITTORIO

SENTENZA

sul ricorso 21131-2008 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona
del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo studio
dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e
difende giusta delega in atti;
– ricorrente –

2013
3351

contro

ALUNNI MIRKO, elettivamente domiciliato in ROMA,
VIALE LIBIA 58, presso lo studio dell’avvocato FERRI
DOMENICO, rappresentato e difeso dall’avvocato

Data pubblicazione: 17/01/2014

SIMONETTI PATRIZIA, giusta delega in atti;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 352/2007 della CORTE D’APPELLO
di PERUGIA, depositata il 24/08/2007 R.G.N. 944/2005;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica

NOBILE;
udito l’Avvocato BUTTAFOCO ANNA per delega PESSI
ROBERTO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARCELLO MATERA l che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

udienza del 21/11/2013 dal Consigliere Dott. VITTORIO

R.G. 21131/2008
FATTO E DIRITTO
Con sentenza del 27-10-2004 il Giudice del lavoro del Tribunale di
Perugia respingeva la domanda proposta da Mirko Alunni nei confronti della

apposto ai contratti di lavoro intercorsi tra le parti per “esigenze eccezionali”
ex art. 8 ceni 1994 come integrato dall’acc. 25-9-97 e succ., per i periodi 2-21998/30-5-1998 e 1-4-1999/31-5-1999.
L’Alunni proponeva appello avverso la detta sentenza chiedendone la
riforma con l’accoglimento della domanda.
La società si costituiva e resisteva al gravame.
La Corte d’Appello di Perugia, con sentenza depositata il 24-8-2007, in
riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava la nullità del termine
apposto al secondo contratto con la conseguente sussistenza di un rapporto a
tempo indeterminato dal 1-4-1999 e condannava la società alla riammissione in
servizio dell’Alurmi e al pagamento in suo favore, a titolo di risarcimento
danni, delle retribuzioni a decorrere dalla messa in mora del 7-7-2003, oltre
interessi e rivalutazione.
Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con quattro
motivi.
L’Alunni ha resistito con controricorso.
La società ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Infine il Collegio ha autorizzato la motivazione semplificata.
Ciò posto, va rilevato che con il primo motivo la società censura (sotto i
profili della violazione di legge e del vizio di motivazione) la sentenza

s.p.a. Poste Italiane, diretta ad ottenere la declaratoria di nullità del termine

impugnata nella parte in cui ha ritenuto la nullità del termine apposto al
contratto de quo in quanto stipulato (per “esigenze eccezionali…”) oltre il
termine ultimo fissato dagli accordi collettivi attuativi dell’acc. az. 25-9-1997
ed all’uopo sostiene la insussistenza di tale termine e la natura meramente

Il motivo è infondato in base all’indirizzo ormai consolidato in materia
dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al
ceni del 2001 ed al d.lgs. n. 368 del 2001).
Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato
che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, ex art. 23 della legge n. 56 del
1987, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli
previsti dalla legge n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di
considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato
del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro
diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di
lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo
indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi
specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a
condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare
contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di
procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v.
anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n.
14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei
contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi
vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste

ricognitiva dei detti accordi.

dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale
in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato.” (v., fra le altre,
Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).
In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia

collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione
del termine (v. fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745,
Cass. 14-2-2004 n. 2866).
In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e
come va anche qui ribadito, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti
postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8
del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo,
sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la
sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica
dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli
assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998;
ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine
cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo
derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi
contratti a tempo indeterminato, in forza dell’art. 1 della legge 18 aprile 1962
n. 230” (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608; Cass. 28-11-2008 n. 28450;
Cass. 4-8-2008 n- 21062; Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).
In applicazione di tale principio va quindi respinto il detto primo motivo.
Con il secondo motivo la ricorrente, denunciando violazione di legge e
vizio di motivazione, censura l’impugnata sentenza nella parte in cui ha
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stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto

respinto l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito,
nonostante la mancanza di una qualsiasi manifestazione di interesse alla
funzionalità di fatto del rapporto, per un apprezzabile lasso di tempo anteriore
alla proposizione della domanda e la conseguente presunzione di estinzione del

contrastare tale presunzione.
Anche tale motivo non merita accoglimento.
Come questa Corte ha più volte affermato “nel giudizio instaurato ai fini
del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo
indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un
termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del
rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata — sulla base del
lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine,
nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze
significative — una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre
definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v. Cass. 10-11-2008 n.
26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, nonché da
ultimo Cass. 18-11-2010 n. 23319, Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-8-2011 n.
16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a
termine, quindi, “è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione
del rapporto per mutuo consenso” (v. da ultimo Cass. 15-11-2010 n. 23057,
Cass. 11-3-2011 n. 5887), mentre “grava sul datore di lavoro”, che eccepisca
tale risoluzione, “l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la
volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni

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rapporto stesso, con onere, in capo al lavoratore, di provare le circostanze atte a

rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass.
1-2-2010 n. 2279).
Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli art. 1372 e 1321
c.c., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo prevalente

comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara
manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del
rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e
neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto.
Orbene nella fattispecie la Corte di merito, dopo aver richiamato la
giurisprudenza di legittimità al riguardo, ha rilevato che “nel caso in esame non
vi è stato alcun comportamento che possa far presumere una acquiescenza del
ricorrente alla risoluzione del rapporto; e invero il lasso di tempo intercorso tra
la cessazione di esso ed il tentativo di conciliazione, non particolarmente
significativo, non ha di per sé significato univoco e certamente non può
interpretarsi come volontà di accettazione della risoluzione per mutuo
consenso”, mentre “la società convenuta, oltre all’intervallo temporale, non ha
allegato fatti o circostanze significative in tal senso”.
Tale accertamento di fatto, conforme ai principi sopra richiamati, risulta
altresì congruamente motivato e resiste alla censura della ricorrente.
Con il terzo motivo la ricorrente lamenta in modo assolutamente generico
e quindi inammissibile che la Corte territoriale avrebbe errato nel disattendere
l’eccezione sull’aliunde perceptum, censurando la sentenza per non avere
tenuto conto che “l’aliunde perceptum… non può che essere genericamente
dedotto dall’istante. Dovrebbe essere invece onere del lavoratore dimostrare
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ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei

di non essere stato occupato nel periodo in questione, per esempio a mezzo
delle dichiarazioni dei redditi relative ai periodi successivi alla scadenza del
contratto a termine eventualmente dichiarato illegittimo e di altra eventuale
documentazione (libretti di lavoro, buste paga)”.

ex art. 366-bis c.p.c.:
“Dica la Suprema Corte se, nel caso di oggettiva difficoltà della parte ad
acquisire precisa conoscenza degli elementi sui quali fondare la prova a
supporto delle proprie domande ed eccezioni — e segnatamente per la prova
dell’aliunde perceptum — il giudice debba valutare le richieste probatorie con
minor rigore rispetto all’ordinario, ammettendole ogni volta che le stesse
possano comunque raggiungere un risultato utile ai fini della certezza
processuale”.
A parte la assoluta genericità e inidoneità ex art. 366 bis c.p.c. (che va
applicato nella specie ratione temporis) del detto quesito (vedi Cass. 10-1-2011
n. 325 e numerose successive), osserva il Collegio che anche la censura risulta
assolutamente generica e inammissibile.
La ricorrente, infatti – a fronte del decisum basato sul rilievo che nella
specie la società “non ha neppure allegato alcunché al riguardo” – non
specifica come e in quali termini abbia allegato davanti ai giudici di merito un
aliunde perceptum (in relazione al quale è pur sempre necessaria una rituale
acquisizione della allegazione e della prova, pur non necessariamente
proveniente dal datore di lavoro in quanto oggetto di eccezione in senso lato cfr.. Cass. 16-5-2005 n. 10155, Cass. 20-6-2006 n. 14131, Cass. 10-8-2007 n.
17606, Cass. S.U. 3-2-1998 n. 1099).
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Il motivo così riassunto conclude con la formulazione del seguente quesito

Né è censurabile in questa sede il mancato accoglimento della richiesta di
esibizione della documentazione avanzata dalla società (libretto di lavoro,
buste paga).
Come è stato più volta precisato da questa Corte, “il rigetto da parte del

acquisire al giudizio documenti ritenuti indispensabili dalla parte non è
sindacabile in cassazione, perché, trattandosi di strumento istruttorio residuale,
utilizzabile soltanto quando la prova del fatto non sia acquisibile aliunde e
l’iniziativa non presenti finalità esplorative, la valutazione della relativa
indispensabilità è rimessa al potere discrezionale del giudice di merito e non
necessita neppure di essere esplicitata nella motivazione, il mancato esercizio
di tale potere non essendo sindacabile neppure sotto il profilo del difetto di
motivazione” (v. fra le altre Cass. 14-7-.2004 n. 12997, Cass. sez. I 17-5-2005
n. 10357, Cass. sez. III 2-2-2006 n. 2262). D’altra parte “l’esibizione di
documenti non può essere chiesta a fini meramente esplorativi, allorquando
neppure la parte istante deduca elementi sulla effettiva esistenza del documento
e sul suo contenuto per verificarne la rilevanza in giudizio” (v. fra le altre Cass.
20-12-2007 n. 26943).
Parimenti inammissibile è il quarto motivo, con il quale la ricorrente dopo
aver richiamato il principio di “corrispettività della prestazione”, lamenta la
erroneità della sentenza della Corte d’Appello la quale, in particolare, “avrebbe
dovuto tutt’al più, riconoscere un risarcimento del danno alla lavoratrice – dalla
data di messa in mora, che non coincide automaticamente con il tentativo
obbligatorio di conciliazione”.

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giudice di merito dell’istanza di disporre l’ordine di esibizione al fine di

La ricorrente formula quindi il seguente quesito: “Dica la Suprema Corte
se, attesa la natura sinallagmatica del rapporto di lavoro ed in applicazione
del principio generale di effettività e di corrispettività delle prestazioni, sia
dovuta o meno l ‘erogazione del trattamento retributivo pur in assenza di

Anche tale quesito risulta del tutto generico e astratto, mancando qualsiasi
riferimento all’errore di diritto pretesamente commesso dai giudici nel caso
concreto esaminato (v. Cass. n.ri 329, 330 e 331 tutte del 10-1-2011, e
successive) ed altresì inconferente rispetto al motivo, in quanto quest’ultimo,
oltre a ribadire genericamente il principio di corrispettività, in sostanza, in
relazione alla sentenza impugnata, lamenta che la stessa avrebbe erroneamente
considerato che la messa in mora coincidesse con la comunicazione della
richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione, e di tale questione non vi è
traccia nel quesito stesso.
Peraltro anche la censura risulta assolutamente generica e priva di
autosufficienza in quanto la ricorrente neppure riporta il contenuto della
comunicazione (della richiesta per il tentativo obbligatorio di conciliazione,
cfr. Cass. Cass. 28-7-2005 n. 15900, Cass. 30-8-2006 n. 18710) che secondo il
suo assunto non avrebbe integrato la messa in mora.
Così risultati inammissibili i motivi terzo e quarto, riguardanti le
conseguenze economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere
in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato
dall’art. 32, commi 5 0 , 6° e 7° della legge 4 novembre 2010 n. 183.
Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di
principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di

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attività lavorativa e se tale erogazione abbia natura retributiva o risarcitoria”.

legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva,
una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in
qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso,
in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato

2-2004 n. 4070).
In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe,
anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad
essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v.
fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80 cit.).
Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.
Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente, in ragione della
soccombenza, va condannata al pagamento delle spese in favore dell’Alunni.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare all’Alunni le
spese, liquidate in euro 100,00 per esborsi e euro 3.500,00 per compensi, oltre
accessori di legge.
Roma 21 novembre 2013
IL CONSIGLIERE ESTENSORE

dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-

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