Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9039 del 06/05/2015


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Civile Sent. Sez. 5 Num. 9039 Anno 2015
Presidente: CAPPABIANCA AURELIO
Relatore: DI IASI CAMILLA

SENTENZA

sul ricorso 4605-2011 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro
tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI
PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO
STATO, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente contro

2014
4116

PRISMA CART SUD DI MARTINO ANTONIO & C. SAS,
elettivamente domiciliato in ROMA VIA CRESCENZIO 58,
presso lo studio dell’avvocato STEFANO PANICCIA,
rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO MOSETTI
giusta procura in atti;

Data pubblicazione: 06/05/2015

- resistente

avverso

la

sentenza

n.

829/2009

della

COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. di LATINA, depositata il
21/12/2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica

DI IASI;
udito per il ricorrente l’Avvocato MELONCELLI che si
riporta;
udito per il resistente l’Avvocato MOSETTI che si
riporta, l’avvocato deposita prima della trattazione
della causa procura notarile di costituzione della
parte in giudizio del Notaio Dr. ANNAMARIA ORTOLAN in
FROSINONE rep. n. 233681 del 15/12/2014;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. FEDERICO SORRENTINO che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

udienza del 18/12/2014 dal Consigliere Dott. CAMILLA

RGN 4605/11

Ritenuto in fatto
L’Agenzia delle Entrate ricorre (successivamente illustrando il ricorso con
memoria), nei confronti di Prisma Cart Sud s.a.s. (che non ha resistito con
controricorso ma ha rilasciato procura speciale a difensore per la partecipazione
all’udienza) per la cassazione della sentenza n. 829/39/09 con la quale -in
controversia concernente impugnazione di avviso di accertamento per IVA, Irpeg

Latina) ha rigettato l’impugnazione dell’Agenzia. In particolare, i giudici
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d’appello, innanzitutto rilevato che per un errore materiale a pagina 4 della rettifica
Irpef l’Ufficio aveva determinato in aumento la perdita fiscale indicata nella
contabilità della società ed avevano applicato una percentuale di ricarico abnorme
del 25% a fronte di quella, rispondente alla realtà aziendale ed applicata dalla
società, dell’ 8%. Inoltre, premesso che, alla luce della disciplina dei reati tributari
introdotta dal d.lgs. n 74 del 2000, la mera detenzione o contabilizzazione di
fatture o altri documenti relativi a operazioni inesistenti non comporta il reato di
frode fiscale, integrato solo dalla successiva presentazione della dichiarazione, i
suddetti giudici hanno rilevato che nella specie non erano state emesse fatture
false relative ad operazioni inesistenti ma solo ricevute bancarie, da utilizzare
unicamente dinanzi agli istituti di credito ai quali venivano richiesti prestiti o
anticipazioni.
Ritenuto in diritto
Col primo motivo, deducendo vizio di motivazione, l’Agenzia ricorrente si duole
del fatto che i giudici d’appello non abbiano considerato che le fatture erano state
emesse non solo per presentarle agli istituti di credito al fine di ottenere prestiti o
anticipazioni, ma anche a fini fiscali, come accertato nel p.v.c. della G.d.F. e
ritenuto dai giudici di primo grado, avuto riguardo, in particolare, alle fatture
emesse nei confronti della società collegata Carind (creata dagli stessi
amministratori della Prisma e avente ad oggetto la medesima attività), fatture che
risultavano contabilizzate dalla Prisma ma non riconosciute dagli addetti alla
contabilità di entrambe le società sia per l’anomalia degli importi, sia per il
formato e le firme apposte sui relativi documenti di trasporto.
La censura è fondata.
Nella sentenza impugnata si afferma che non sono mai state emesse fatture false
relative ad operazioni inesistenti ma solo ricevute bancarie, da utilizzare

e Irap in relazione all’anno di imposta 1998- la C.T.R. Lazio (sezione distaccata di

unicamente dinanzi agli istituti di credito ai quali venivano richiesti prestiti o
anticipazioni e tanto si desume dal fatto che le ricevute bancarie sono state
ritrovate solo presso le banche e non presso i clienti, dalla citata sentenza non
risulta pertanto in alcun modo che i giudici d’appello abbiano considerato e
valutato alcune circostanze emergenti dal p.v.c. della G.d.F. siccome riportato nel
ricorso dell’Agenzia delle Entrate, la quale in ricorso ha evidenziato che presso
alcuni istituti di credito erano state acquisite oltre alle ricevute di credito anche le

e quelle riportate nella contabilità ufficiale risultavano in vari casi diversi il nome
del debitore e/o, che erano state riscontrate fatture anomale emesse nei confronti
della Carind s.r.l. (società fondata dagli stessi amministratori della Prisma,
svolgente la medesima attività della suddetta società e condividente con
quest’ultima la sede legale ed amministrativa).
Col secondo motivo, deducendo violazione dell’art. 21 comma 7 d.p.r. 633/1972,
la ricorrente si duole del fatto che i giudici d’appello, avendo rilevato che, alla
luce della disciplina dei reati tributari di cui al d.lgs. 74/2000, la mera detenzione
o contabilizzazione di fatture o altri documenti relativi a fatture inesistenti non
integra il reato di frode fiscale, abbiano in realtà fondato la decisione non sulla
norma fiscale bensì su quella penale.
La censura è inammissibile per difetto di interesse, posto che la lunga digressione
sulla disciplina penalistica della frode fiscale costituisce soltanto un obiter, in
quanto da essa non sono state tratte in maniera diretta ed immediata conseguenze
sul piano fiscale e la decisione assunta risulta sostenuta da altre autonome
rationes decidendi, peraltro individuate e censurate in questa sede dall’Agenzia
ricorrente.
Col terzo motivo, deducendo ulteriore vizio di motivazione, la ricorrente si duole
del fatto che i giudici d’appello abbiano condiviso l’eccezione della società
secondo la quale l’accertamento conteneva un errore di calcolo in relazione alla
rettifica Irpef, senza considerare che nessun errore era ravvisabile semplicemente
perché il reddito accertato era costituito dalla somma dei ricavi accertati al netto
della perdita dichiarata, nonché del fatto che i suddetti giudici non abbiano
considerato che la percentuale di ricarico del 25% era quella che risultava
effettivamente praticata dall’impresa siccome scaturente dai prezzi di acquisto e di
vendita dei prodotti, mentre quella dell’8% doveva ritenersi basata su dati

relative fatture, che dal riscontro tra le fatture acquisite presso gli sportelli bancari

infedeli, in quanto calcolata prendendo in considerazione anche i dati relativi alle
evasioni accertate.
La censura è fondata.
I giudici d’appello hanno aderito acriticamente alle deduzioni della società circa
l’errore materiale in cui sarebbe incorsa l’Agenzia nella rettifica Irpeg e circa
l’utilizzazione di una percentuale di ricarico abnorme del 25% rispetto a quella
dell’8% rispondente alla realtà aziendale e si sono attestati in maniera apodittica

per assumerne l’inconsistenza- gli elementi in proposito evidenziati dall’Agenzia
delle Entrate sulla base dei dati di fatto emergenti dal p.v.c. della G.d.F. e
dall’accertamento opposto.
Il secondo motivo di ricorso deve essere pertanto dichiarato inammissibile mentre
il primo e il terzo devono essere accolti. La sentenza impugnata deve essere
cassata in relazione ai motivi accolti con rinvio ad altro giudice che provvederà
anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo e il terzo motivo di ricorso, dichiarato inammissibile il
secondo. Cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia
anche per le spese alla CTR Lazio in diversa composizione.
Così deciso in Roma il 18.12.2014

su tali affermazioni senza in alcun modo prendere in considerazione -nemmeno

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