Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 902 del 17/01/2020

Cassazione civile sez. trib., 17/01/2020, (ud. 20/11/2019, dep. 17/01/2020), n.902

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – rel. Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 584/2012 R.G. proposto da:

Tau Metalli S.p.A., in persona del l.r.p.t., rappresentata e difesa

dall’Avv. Domenico D’Arrigo, elettivamente domiciliata in Roma alla

via M. Prestinari n. 13, presso l’avv. Giuseppe Ramadori;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

cui domicilia in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 266/67/11 della Commissione Tributaria

Regionale della Lombardia, sezione staccata di Brescia, pronunciata

in data 3/10/2011, depositata l’11/10/2011 e non notificata.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 20/11/2019 dal

Consigliere Andreina Giudicepietro;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Basile Tommaso, che ha concluso chiedendo dichiararsi

l’inammissibilità del ricorso;

udito l’Avv. Domenico D’Arrigo per la società ricorrente e

l’Avvocato dello Stato Giammario Rocchitta per l’Agenzia delle

Entrate.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Tau Metalli S.p.A. ricorre con sei motivi contro l’Agenzia delle Entrate per la cassazione della sentenza n. 266/67/11 della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, sezione staccata di Brescia (di seguito C.T.R.), pronunciata in data 3/10/2011, depositata l’11/10/2011 e non notificata, che ha rigettato l’appello della società contribuente, in controversia avente ad oggetto l’impugnazione dell’avviso di accertamento per maggiore Irpeg per l’anno di imposta 2003, oltre interessi e sanzioni.

2. Con la sentenza impugnata, la C.T.R., preliminarmente, ha respinto l’eccezione di carenza di legittimazione processuale della Direzione Regionale della Lombardia, alla quale, secondo i giudici di appello, competevano le verifiche e le indagini fiscali, ai sensi del D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 66, comma 3, e del Reg. di amministrazione dell’Agenzia delle Entrate del 30/11/2000, art. 2, comma 4, con il consequenziale provvedimento del 23/2/2001 n. 36122.

Inoltre, la C.T.R. rilevava che, con riferimento alle operazioni di interest rate swap, relative a contratti di scambio a pronti e a termine su tassi d’interesse, di natura sinallagmatica ed a carattere aleatorio, con la previsione del pagamento del differenziale degli interessi, la società ricorrente, aveva costituito accantonamenti per Euro 800.000,00, relativamente all’anno 2003, fiscalmente indeducibili, in base al dettato del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 105,106 e 107, nonchè dello stesso D.P.R., art. 109, essendo tali elementi negativi privi dei requisiti della certezza e determinabilità.

Secondo i giudici di appello alla fattispecie neanche risultava applicabile il disposto del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 112, commi 2 e 5, non avendo la contribuente fornito alcuna prova in merito al limite di deducibilità previsto dalla citata normativa, mentre le sanzioni sarebbero state la conseguenza del comportamento colposo della società.

3. A seguito del ricorso, l’Agenzia delle Entrate si costituisce e resiste con controricorso.

4. Il ricorso è stato fissato alla pubblica udienza del 20/11/2019.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 62, commi 1-3, in relazione allo stesso D.Lgs., art. 66, comma 3, e alla L. 29 ottobre 1991, n. 358, art. 7, commi 1-2-7-10-13, e al D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Secondo la ricorrente, il p.v.c. del 24/10/2007, richiamato nell’avviso di accertamento, era stato redatto dalla Direzione Regionale della Lombardia, cioè da un organo incompetente, poichè nell’anno 2007 non esisteva alcuna norma che consentiva alla direzione Regionale di effettuare verifiche fiscali, e da ciò derivava l’illegittimità dell’avviso di accertamento.

La ricorrente deduce che la C.T.R. avrebbe errato nel richiamare sia il D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 66, comma 3, che non attribuiva alcun potere di verifica alle Direzioni Regionali, introdotto solo con il D.L. n. 185 del 2008, art. 27, a decorrere dal 1/1/2009, per i contribuenti con un volume di affari superiore a cento milioni di Euro, sia il Reg. di amministrazione dell’Agenzia, art. 2, comma 4, in quanto detto comma non era esistente.

1.2. Il motivo è infondato.

1.3. Secondo un orientamento ormai consolidato di questa Corte, “in tema di accertamenti tributari, il D.L. n. 185 del 2008, art. 27, conv. in L. n. 2 del 2009, non ha attribuito alle Direzioni regionali delle entrate una competenza in materia di accertamento fiscale prima inesistente, ma ha inteso fondare su una norma di fonte primaria il riparto delle competenze relative all’attività di verifica fiscale, istituendo una riserva esclusiva di competenza, in relazione alla rilevanza economico fiscale del soggetto accertato, a favore della Direzione regionale, già titolare, per disposizione regolamentare, della competenza a svolgere attività istruttoria, utilizzabile dalle Direzioni provinciali ai fini della emissione degli atti impositivi” (Sez. 5 -, Ordinanza n. 33289 del 21/12/2018; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 20856 del 14/10/2016; Sez. 5, Sentenza n. 24263 del 27/11/2015; Sez. 5, Sentenza n. 20915 del 03/10/2014).

Le citate pronunce hanno chiarito che, in tema di accertamenti tributari, le Direzioni regionali delle Entrate sono munite, in virtù delle previsioni di autorganizzazione dell’Agenzia delle Entrate, adottate in diretta attuazione del D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 66, comma 3, dei poteri di accesso, ispezione e verifica ispettiva, il cui esercizio, peraltro, è stato successivamente riconfigurato del D.L. n. 185 del 2008, art. 27, comma 13, conv., con modif., nella L. n. 2 del 2009, che ha riservato alle medesime Direzioni tali poteri di verifica nei confronti di contribuenti titolari di ingenti volumi di affari.

Dal complesso delle richiamate disposizioni legislative, statutarie ed organizzative, emerge evidente come la DRE della Lombardia, nel caso di specie, fosse indubbiamente competente a svolgere l’attività istruttoria (compendiata nel PVC redatto in data 24/10/2007) destinata a fornire il supporto probatorio della pretesa tributaria oggetto dell’avviso di accertamento emesso dalla Direzione provinciale di Brescia.

L’intervento normativo del 2008 (D.L. n. 185 del 2008 conv. in L. n. 2 del 2009), peraltro applicabile soltanto a far data dall’1.1.2009, non ha dunque attribuito alla DRE una competenza in materia di accertamento prima inesistente, ma ha inteso fondare su una norma di fonte primaria (dunque sottratta tanto ad eventuali modifiche statutarie, quanto a successive modifiche attuate mediante esercizio di potestà regolamentare od organizzativa) il riparto delle competenze relative alla attività di verifica tra le strutture di vertice di livello periferico (DRE; DPE), istituendo una riserva di competenza esclusiva a favore della DRE in relazione alla rilevanza economico-fiscale del soggetto accertato.

2.1. Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 105,106,107,109 e 112, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

L’avviso di accertamento oggetto di impugnazione contestava alla società contribuente l’indeducibilità per l’anno di imposta 2003 dell’accantonamento dei fondi rischi futuri di Euro 800.000,00, perchè sarebbe stato dedotto in violazione dell’art. 107 T.U.I.R. (all’epoca 73), comma 4, e dell’art. 109 T.U.I.R. (all’epoca 75), comma 1.

L’accantonamento era stato effettuato in via prudenziale a fini civilistici, in considerazione dell’andamento futuro dei contratti derivati posti in essere con le banche, della fattispecie IRS “Interest rate Swap”.

La società deduce di essersi avvalsa del Principio Contabile Nazionale del Consiglio dei Dottori Commercialisti n. 19, C VII, secondo il quale, per le operazioni fuori bilancio, relative a contratti derivati su titoli, valute, tassi di interesse ed indici di borsa, devono applicarsi i medesimi criteri di valutazione stabiliti per le corrispondenti attività e passività di bilancio e che le perdite di valore rilevate alla fine dell’esercizio devono essere stanziate a conto economico e rilevate in apposito fondo del passivo di stato patrimoniale.

Secondo la ricorrente, la svalutazione di 800.000,00 Euro, operata con il bilancio al 31 dicembre 2003, era legittima, in quanto di importo inferiore alla differenza tra il valore dei contratti derivati al 31 dicembre 2003 e quello al 31 dicembre 2002, come prescritto dall’art. 103 bis T.U.I.R., comma 5, (ora 112, comma 5), nella versione vigente ratione temporis.

La C.T.R., quindi, escludendo la deduzione dei componenti negativi derivati dalla valutazione di operazioni fuori bilancio, operata nel rispetto dei principi qualitativi e quantitativi imposti da tale ultima norma, avrebbe errato nel non rilevare che l’art. 107 T.U.I.R. ammette la possibilità di dedurre gli accantonamenti previsti dall’art. 112 T.U.I.R..

Con il terzo ed il quarto motivo (contrassegnati con i numeri 4 e 5), la ricorrente denunzia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la motivazione insufficiente circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, consistente nella verifica della deducibilità dell’accantonamento a fondo rischi futuri.

Secondo la ricorrente, la C.T.R., nel ritenere indeducibili gli accantonamenti, non avrebbe esplicitato gli elementi posti a base del proprio convincimento; inoltre, nel ritenere non applicabile l’art. 112 T.U.I.R., non avrebbe indicato le motivazioni, anche in relazione alla ritenuta carenza probatoria in ordine ai limiti di deducibilità, a fronte degli analitici prospetti e documenti prodotti dalla parte.

2.2. I motivi, da esaminare congiuntamente perchè connessi, sono infondati e vanno rigettati.

2.3. Gli artt. 70,71,72,73 T.U.I.R. (oggi 105, 106, e 107), vigenti ratione temporis, prevedevano la disciplina fiscale degli accantonamenti; in particolare, l’art. 73 T.U.I.R., comma 4 conteneva una norma di chiusura, secondo cui:” Non sono ammesse deduzioni per accantonamenti diversi da quelli espressamente considerati dalle disposizioni del presente capo”.

Secondo la ricorrente, la C.T.R. avrebbe male interpretato gli articoli suddetti, escludendo l’applicabilità dell’art. 103 bis T.U.I.R. alla fattispecie in esame, per altro ritenendo che la società non avesse dimostrato il rispetto dei limiti posti dal citato art. 103 bis, comma 2, senza adeguatamente motivare in ordine agli elementi fondanti il proprio convincimento.

Deve, però, rilevarsi che nel caso di specie è pacifico che l’avviso di accertamento oggetto di impugnazione contestava alla società contribuente l’indeducibilità per l’anno di imposta 2003 dell’accantonamento dei fondi rischi futuri di Euro 800.000,00 sotto il profilo della deducibilità dei soli accantonamenti espressamente previsti dalla legge (art. 73 T.U.I.R., comma 4) e della mancanza dei requisiti di certezza e determinabilità di cui all’art. 75 T.U.I.R., comma 1.

L’accantonamento era stato effettuato dalla società in via prudenziale a fini civilistici, in considerazione dell’andamento futuro dei contratti derivati posti in essere con le banche, della fattispecie IRS “Interest rate Swap”.

La disciplina fiscale degli accantonamenti era contenuta negli artt. 70,71,72,73 T.U.I.R. (oggi 105, 106, e 107) ed escludeva la deducibilità di accantonamenti diversi da quelli espressamente previsti dalla legge, tra i quali non rientra quello in esame.

Pertanto, la C.T.R., tenuto conto che la funzione del fondo rischi era quella di coprire il debito o la perdita determinatasi in un futuro esercizio e così impedire che la stessa influisse sul risultato dell’esercizio stesso, ha ritenuto che alla fattispecie in esame fosse applicabile la disciplina sugli accantonamenti di cui agli artt. 70,71,72 e 73 T.U.I.R. (ora 105, 106 e 107) e che, trattandosi di deduzioni di costi in via anticipata rispetto al loro effettivo sostenimento, non era possibile ammettere la deduzione di accantonamenti non espressamente considerati dalla legge.

Dunque, dal tenore letterale e sistematico degli artt. 70,71,72 e 73 T.U.I.R., l’interpretazione delle norme effettuata dal giudice di appello appare corretta.

Secondo la ricorrente, l’accantonamento sarebbe stato, comunque, deducibile, in quanto componente negativo del reddito di impresa, derivante da contratti che assumevano come parametro di riferimento per la determinazione della prestazione l’andamento di un indice su tassi di interesse, in conformità alla previsione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 103 bis, comma 1, applicabile anche ai soggetti non svolgenti attività creditizia o finanziaria (come la società ricorrente) a norma del successivo comma 2 bis.

In particolare, la società sostiene di aver adottato in sede di redazione del bilancio il Principio Contabile Nazionale del Consiglio dei Dottori Commercialisti n. 19, C VII, secondo il quale, per le operazioni fuori bilancio relative a contratti derivati su titoli, valute, tassi di interesse ed indici di borsa, devono applicarsi i medesimi criteri di valutazione stabiliti per le corrispondenti attività e passività di bilancio e che le perdite di valore rilevate alla fine dell’esercizio devono essere stanziate a conto economico e rilevate in apposito fondo del passivo di stato patrimoniale.

Deduce la ricorrente che la svalutazione di 800.000,00 Euro, operata con il bilancio al 31 dicembre 2003, era legittima, in quanto di importo inferiore alla differenza tra il valore dei contratti derivati al 31 dicembre 2004 e quello al 31 dicembre 2003, come prescritto dall’art. 112 T.U.I.R., comma 5, nella versione vigente ratione temporis.

La censura svolta non è idonea a contrastare la ratio decidendi complessivamente desumibile dalla sentenza impugnata, poichè il giudice di appello precisa che la disciplina applicabile al caso di specie è quella relativa agli accantonamenti e non quella relativa alla corretta contabilizzazione degli IRS, che l’Ufficio non contesta.

Inoltre, il richiamo all’art. 103 bis T.U.I.R. risulta inconferente nel caso di specie.

L’art. 103 bis T.U.I.R. (oggi 112), vigente ratione temporis, prevedeva: “1. Alla formazione del reddito degli enti creditizi e finanziari indicati nel D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 87, art. 1, concorrono i componenti positivi e negativi che risultano dalla valutazione delle operazioni “fuori bilancio”, in corso alla data di chiusura dell’esercizio, derivanti da contratti che hanno per oggetto titoli, valute o tassi d’interesse, o che assumono come parametro di riferimento per la determinazione della prestazione la quotazione di titoli o valute ovvero l’andamento di un indice su titoli, valute o tassi d’interesse.

2. La valutazione di cui al comma 1 è effettuata secondo i criteri previsti dal D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 87, art. 15, comma 1, lett. c), art. 18, comma 3, art. 20, comma 3, e art. 21, commi 2 e 3. A tal fine i componenti negativi non possono essere superiori alla differenza tra il valore del contratto o della prestazione alla data della stipula o a quella di chiusura dell’esercizio precedente e il corrispondente valore alla data di chiusura dell’esercizio. Per la determinazione di quest’ultimo valore, si assume:

a) per i contratti uniformi a termine negoziati nei mercati regolamentati italiani o esteri, l’ultima quotazione rilevata entro la chiusura dell’esercizio;

b) per i contratti di compravendita di titoli, il valore determinato ai sensi dell’art. 61, comma 3, lett. a) e c);

c) per i contratti di compravendita di valute, il valore determinato ai sensi del D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 87, art. 21, comma 2, lett. a) e b); d) in tutti gli altri casi, il valore determinato secondo i criteri di cui all’art. 9, comma 4, lett. c).

2- bis. I criteri di valutazione previsti dal comma 2 si applicano anche per i soggetti, diversi dagli enti creditizi e finanziari, che nei conti annuali valutano le operazioni fuori bilancio di cui al comma 1.

3. Se le operazioni di cui al comma 1 sono poste in essere con finalità di copertura dei rischi relativi ad attività e passività produttive di interessi, i relativi componenti positivi e negativi concorrono a formare il reddito, secondo lo stesso criterio di imputazione degli interessi, se le operazioni hanno finalità di copertura di rischi connessi a specifiche attività e passività, ovvero secondo la durata del contratto, se le operazioni hanno finalità di copertura di rischi connessi ad insiemi di attività e passività. A tal fine l’operazione si considera di copertura quando ha l’obiettiva funzione di ridurre o trasferire il rischio di variazione del valore di singole attività e passività o di insiemi di attività e passività”.

La norma, secondo un orientamento ormai costante di questa Corte, è stata interpretata nel senso che le società, che non sono enti creditizi o finanziari, non possono dedurre fiscalmente gli accantonamenti predisposti per la copertura del rischio legato al contratto di “interest rate swap”, se non ne dimostrano l’inerenza con l’attività imprenditoriale esercitata.

Questo perchè, proprio per la carenza del preliminare requisito dell’inerenza, intesa come compatibilità, coerenza e correlazione del costo all’attività di impresa svolta dalla società (nel caso di specie produttrice di metalli), resta vincolante, sotto il profilo della interpretazione delle regole del computo di costi e ricavi, la sussistenza delle condizioni di deducibilità di cui all’art. 75 T.U.I.R. (Cass. n. 29179/19; vedi anche n. 12738/18; n. 5160/17).

Nel caso di specie la società (produttrice di beni nel campo dei metalli), nell’invocare l’applicazione della disciplina di cui all’art. 103 bis T.U.I.R., avrebbe dovuto allegare e provare la correlazione concretamente ravvisabile tra la perdita derivante dalla stipulazione di un contratto di “interest rate swap” e i ricavi o componenti positivi derivanti dall’attività di impresa.

In particolare, con la sentenza n. 29179/2019 (sopra citata), questa Corte ha chiarito che non “può affermarsi che l’inerenza, qualunque valore ad essa voglia attribuirsi (cfr. da ultimo Cass., ord. n. 450 del 2018), sussista ogni qual volta i costi siano riferibili a qualsiasi operazione idonea a produrre reddito, poichè la riferibilità si relaziona non ai ricavi in sè, ma all’oggetto dell’impresa (costante in tal senso la giurisprudenza, Sez. 5, sent. n. 10269/2017; sent. n. 3746/2015; sent. n. 21184/2014; sent. n. 7701/2013)”.

Inoltre, nel quadro normativo delle operazioni su derivati, anche per soggetti diversi da istituti di credito e/o finanziari, trova applicazione il D.Lgs. n. 87 del 1992, art. 15, comma 1, lett. c) (Consob, 11.4.2001, dem/1026875), il quale prevede che le attività e passività in bilancio e “fuori bilancio”, che siano tra loro collegate solo in quanto oggetto di operazioni di “copertura”, devono essere valutate in modo coerente tra loro (OIC-19, p. C.VII; conf. citato D.Lgs., art. 18, comma 3, e art. 20, comma 3).

Nella fattispecie in esame, la stessa C.T.R., nella sentenza impugnata, dà atto che il giudice di prime cure, con accertamento in fatto, che non risulta successivamente impugnato e deve ritersi definitivo, rilevava che dalle dichiarazioni degli amministratori delegati della società non era stato possibile chiarire le finalità per la quale i contratti IRS erano stati stipulati.

La società ricorrente, che invoca l’applicazione dell’art. 103 bis T.U.I.R., non risulta aver assolto l’onere di dimostrare la sussistenza dei requisiti richiesti dalla norma, nella formulazione vigente all’epoca, ed, in particolare, la finalità del contratto di interest rate swap di copertura di operazioni attinenti all’attività d’impresa.

3.1. Con il quinto ed il sesto motivo, la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 5, comma 1, e del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 1, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè l’insufficiente motivazione su di un fatto decisivo e controverso.

In particolare, la ricorrente deduce che la C.T.R. non avrebbe rilevato l’illegittimità delle sanzioni applicate e l’assenza dell’elemento psicologico del dolo o della colpa da parte della contribuente, nè avrebbe chiarito gli elementi sui quali ha basato il suo convincimento.

3.2. I motivi, esaminati congiuntamente perchè connessi, sono infondati e vanno rigettati.

3.3. Come è stato chiarito da questa Corte con precedenti pronunce, “in tema di sanzioni amministrative per violazioni tributarie, ai fini dell’esclusione di responsabilità per difetto dell’elemento soggettivo, grava sul contribuente ai sensi del D.Lgs. n. 472 del 1997 , art. 5, la prova dell’assenza assoluta di colpa, con conseguente esclusione della rilevabilità d’ufficio, occorrendo a tal fine la dimostrazione di versare in stato di ignoranza incolpevole, non superabile con l’uso dell’ordinaria diligenza” (Sez. 5, Ordinanza n. 12901 del 15/05/2019).

Si è anche detto che “in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, ai fini dell’affermazione di responsabilità del contribuente, ai sensi del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5, è sufficiente una condotta cosciente e volontaria, senza che occorra, da parte dell’Amministrazione finanziaria, la concreta dimostrazione del dolo o della colpa (o di un intento fraudolento), atteso che la norma pone una presunzione di colpa per l’atto vietato a carico di colui che lo abbia commesso” (Sez. 5, Sentenza n. 22329 del 13/09/2018).

Nel caso di specie, quindi, il giudice di appello risulta essersi conformato a tali principi, ritenendo che il comportamento non corretto della società contribuente, evidentemente cosciente e volontario, fosse anche in concreto connotato da colpa.

Il ricorso, quindi, va complessivamente rigettato e la parte ricorrente va condannata al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore di parte controricorrente, secondo la liquidazione effettuata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 10.300,00, a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il giorno 20 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2020

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