Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9018 del 15/05/2020

Cassazione civile sez. I, 15/05/2020, (ud. 28/02/2020, dep. 15/05/2020), n.9018

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – rel. Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15024/2015 proposto da:

Banca Popolare di Vicenza S.c.p.a., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via

Nazionale n. 204, presso lo studio dell’avvocato Zitiello Luca, che

la rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

N.M., S.R., elettivamente domiciliati in Roma,

Viale Giulio Cesare n. 14, presso lo studio dell’avvocato Pafundi

Gabriele, che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati

Basile Rossana, Pastega Giovanni Maria, giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 706/2015 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 17/04/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

28/02/2020 dal Cons. Dott. TRICOMI LAURA.

Fatto

RITENUTO

che:

La Banca Popolare di Vicenza S.c.p.A. propone ricorso per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Venezia in epigrafe indicata con tre mezzi. Hanno replicato con controricorso N.M. e S.R..

In primo grado, il Tribunale di Venezia aveva rigettato tutte le domande nella causa promossa dai coniugi N. e S. nei confronti della banca ed intese ad ottenere la condanna di questa al risarcimento del danno subito, corrispondente alle somme investite per l’acquisto di obbligazioni emesse da G. Sport Finance SA 8,375% 02/07 in data 28/2/2002, 19/05/2002 e 29/10/2002 per effetto dell’intermediazione finanziaria della banca, nell’ambito del rapporto di deposito e custodia titoli intercorrente tra le parti sin dal 1996.

La Corte di appello, in riforma della prima decisione, ha ritenuto che la banca non avesse idoneamente assolto agli obblighi derivanti dall’art. 29 del Reg. CONSOB n. 11522/1998 riguardante la corretta segnalazione ai clienti dell’inadeguatezza delle operazioni in causa, non avendo indicato nella segnalazione – per le due prime operazioni – le ragioni obiettive per le quali sussisteva l’inadeguatezza e le peculiari caratteristiche del titolo, non avendo ritenuto che tale onere fosse stato assolto mediante la semplice indicazione che le Obbligazioni G. erano prive di rating e non apparivano in linea o coerenti con la consistenza del portafoglio titoli detenuto dai clienti; quanto alla terza operazione – per la quale nessuna segnalazione era riscontrabile – ha ritenuto che i precedenti acquisti compiuti dagli investitori non potevano costituire esimente per la banca dall’obbligo di informazione, giacchè, in considerazione delle sorti subite nel frattempo dal titolo G. e dalla mancata documentazione di esperienza degli investitori, pur dotati di disponibilità economiche, non apparivano sintomatici di una raggiunta adeguatezza.

Ha quindi, ravvisato in via presuntiva il nesso di causalità tra la accertata violazione degli obblighi informativi da parte della banca ed il danno subito dagli investitori, affermando che “la prova contraria a favore dell’investitore (rectius, intermediario) del fatto che la rischiosità dell’operazione non avrebbe distolto l’investitore dal disporla comunque – è appositamente rimessa alla dichiarazione scritta di cui all’art. 29 del Reg. CONSOB che nel caso di specie non soddisfa i requisiti indicati dalla norma” (fol. 15 della sent. imp.).

Nel riconoscere la responsabilità contrattuale della banca per l’inadempimento attinente alla fase successiva alla stipulazione del c.d. “contratto quadro”, ha anche affermato che la eventuale condanna risarcitoria non presupporrebbe necessariamente la risoluzione del contratto, attesa la formulazione in termini alternativi dell’art. 1453 c.c., comma 1; tuttavia, dopo avere determinato il danno nella misura corrispondente all’investimento originario decurtato dell’ammontare della cedola riscossa,- stante l’impossibilità di recupero del valore perduto delle obbligazioni -, pur in assenza di una domanda di risoluzione del contratto, ha disposto la restituzione dei titoli alla banca, al fine di impedire una possibile illegittima locupletazione dei danneggiati.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1.1. Con il primo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 29 del Reg. CONSOB n. 11522/1998 e la omessa o contraddittoria valutazione di un elemento decisivo del giudizio.

La censura si appunta sulla statuizione con cui la Corte territoriale ha accertato che la banca non aveva idoneamente assolto gli obblighi informativi ex art. 29 del Reg. CONSOB in merito all’inadeguatezza delle operazioni per cui è causa, non avendo indicato le ragioni obiettive per le quali sussisteva tale inadeguatezza e gli elementi concreti sui quali l’investitore avrebbe potuto formulare una valutazione consapevole.

A parere della banca tale onere informativo era stato assolto mediante l’indicazione – nei primi due ordini – che gli investimenti in Obbligazioni G. non apparivano in linea con la strategia di investimento concordata con il cliente, considerando altresì che dopo la segnalazione le operazioni erano state espressamente autorizzate dal cliente.

Secondo la banca la segnalazione di “operazione non adeguata” era da ritenersi sufficiente, in quanto assimilabile ad “operazione sconsigliata” senza che dovesse ritenersi necessario – come affermato invece dalla CA – l’indicazione delle ragioni obiettive di tale inadeguatezza.

La banca si duole anche che la valutazione di “adeguatezza” della terza operazione compiuta dalla stessa (desumibile per implicito dall’assenza di segnalazione), sia stata ritenuta incongrua da parte della Corte di appello, giacchè N. conosceva il prodotto finanziario e perseguiva consapevoli scelte di investimento con l’intento della massima redditività anche su altri titoli, tanto che il patrimonio mobiliare era investito in misura superiore al 93% in obbligazioni prive di rating, di guisa che, unitamente alla S. non potevano ritenersi investitori inconsapevoli.

Si duole che la Corte territoriale abbia ritenuto non adeguato l’investimento senza considerare il profilo degli investitori.

1.2. Il motivo è infondato.

Invero è stato già affermato che, in tema di intermediazione finanziaria, la pluralità degli obblighi (di diligenza, di correttezza e trasparenza, di informazione, di evidenziazione dell’inadeguatezza dell’operazione che si va a compiere) previsti dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 21, comma 1, lett. a) e b), art. 28, comma 2 e art. 29 del Reg. CONSOB n. 11522 del 1998 (applicabile “ratione temporis”) e facenti capo ai soggetti abilitati a compiere operazioni finanziarie, convergono verso un fine unitario, consistente nel segnalare all’investitore, in relazione alla sua accertata propensione al rischio, la non adeguatezza delle operazioni di investimento che si accinge a compiere (cd. “suitability rule”) (Cass. n. 1376 del 26/01/2016,), ciò perchè l’informazione che la banca intermediaria ha l’obbligo di fornire all’investitore prima di effettuare operazioni deve essere adeguata in concreto, tale cioè da soddisfare le specifiche esigenze del singolo rapporto, in relazione alle caratteristiche personali e alla situazione finanziaria del cliente, con la conseguenza che e, a fronte di un’operazione non adeguata, può darvi corso soltanto a seguito di un ordine impartito per iscritto dall’investitore in cui sia fatto esplicito riferimento alle avvertenze ricevute (cfr. Cass. n. 17340 del 25/6/2008, 22147 del 29/10/2010).

A ciò va aggiunto che “In tema di intermediazione finanziaria, nel quadro di applicazione dell’art. 29 del regolamento Consob n. 11522 del 1998, la segnalazione di inadeguatezza ivi contemplata al comma 3, laddove si riferisce ad “esplicito riferimento alle avvertenze ricevute”, non richiede l’indicazione del contenuto delle informazioni al riguardo somministrate dall’intermediario; in tal caso, e cioè in mancanza di indicazione del contenuto delle informazioni omesse, la sottoscrizione da parte del cliente della segnalazione di inadeguatezza non incide sul riparto del relativo onere di allegazione e prova, nè tantomeno costituisce prova dell’adempimento, da parte dell’intermediario, dell’obbligo informativo posto a suo carico, ma fa soltanto presumere che l’obbligo sia stato assolto, sicchè, ove il cliente alleghi quali specifiche informazioni siano state omesse, grava sull’intermediario l’onere di provare, con ogni mezzo, che invece quelle informazioni siano state specificamente rese, ovvero non fossero dovute” (Cass. n. 10111 del 24/04/2018).

Ora, tanto premesso in via di principio, va rilevato che, nel caso in esame, la Corte di appello ha accertato che l’inadeguatezza delle prime operazioni emergeva dalla stessa informazione, pur insufficiente perchè non specifica, predisposta dalla banca ed ha ritenuto altresì l’inadeguatezza anche della terza operazione, in ragione del breve lasso temporale dalle precedenti operazioni, degli eventi verificatisi nel frattempo che avevano visto aumentare in misura considerevole l’esposizione del Gruppo G. e del carattere degli investitori, dotati di disponibilità economiche, ma non di documentata conoscenza ed esperienza, di guisa che i due precedenti acquisti non potevano essere ritenuti decisivi per desumere l’adeguatezza per l’ulteriore operazione di investimento.

La decisione impugnata risulta immune da vizi, poichè ha accertato in fatto – senza essere smentita da alcuna prova contraria fornita dall’intermediario – che per le tre operazioni in esame, da ritenersi non adeguate per le caratteristiche dei titoli privi di rating, l’informazione era stata data in termini del tutto generici (prime due) – da non potersi ritenere sufficienti nel senso su indicato, non contenendo alcuna specifica informazione sulle caratteristiche dei titoli oggetto della operazione – o non era stata data affatto (terza), nè, di contro può assumere alcun rilievo il fatto che i clienti non avessero fornito le informazioni richieste dalla Banca circa l’entità del patrimonio, la loro propensione al rischio e la inclinazione agli investimenti mobiliari al momento della stipula del contratto quadro (Cass. n. 18702 del 23/9/2016).

2.1. Con il secondo motivo si denuncia la violazione dell’art. 2697 c.c. e art. 23 del TUF..

La critica si appunta sulla statuizione con cui è stato ravvisato il nesso di causalità tra l’inadempimento della banca ed il danno subito dai clienti.

La Corte territoriale ha detto che la responsabilità della banca dipendeva dalla violazione degli obblighi informativi e non dalla consapevolezza o meno da parte della stessa dell’eventualità del default e che, una volta escluso che il contesto degli ordinativi avesse effetto liberatorio per la banca ai sensi dell’art. 29 del Reg. CONSOB, “il nesso causale tra l’inadempimento dell’intermediario all’obbligo informativo ed il danno che è derivato all’investitore dall’acquisto non conveniente si può presumere” affermando che “la prova contraria a favore dell’investitore (rectius, intermediario) del fatto che la rischiosità dell’operazione non avrebbe distolto l’investitore dal disporla comunque – è appositamente rimessa alla dichiarazione scritta di cui all’art. 29 del Reg. CONSOB che nel caso di specie non soddisfa i requisiti indicati dalla norma.” (fol. 15 della sent. imp.).

La banca, sostiene che, anche a voler ritenere accertato il proprio inadempimento e la responsabilità contrattuale, la condanna risarcitoria non ne era l’univoca conseguenza, giacchè l’espressa inversione dell’onere della prova per investitori prevista dall’art. 23, comma 6, del TUF, ove è detto “Nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento e di quelli accessori, spetta ai soggetti abilitati l’onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta”, riguarda solo questo punto, mentre era onere del cliente provare la sussistenza del danno ed il nesso di causalità del danno, quale conseguenza immediata e diretta del comportamento asseritamente lesivo.

2.2. Il motivo è infondato.

Giova rammentare che “In tema di risarcimento del danno per la perdita del capitale investito dovuta all’acquisto di un prodotto finanziario, grava sull’intermediario l’onere di provare, D.Lgs. n. 58 del 1998, ex art. 23, di aver adempiuto positivamente agli obblighi informativi relativi non solo alle caratteristiche specifiche dell’investimento ma anche al grado effettivo di rischiosità, mentre grava sull’investitore l’onere di provare il nesso causale consistente nell’allegazione specifica del deficit informativo nonchè a fornire la prova del pregiudizio patrimoniale dovuto all’investimento eseguito, potendosi fornire la prova presuntiva del nesso causale tra l’inadempimento ed il danno lamentato. Ne consegue che la prova dell’avvenuto puntuale adempimento degli obblighi informativi non può essere ritenuta ininfluente in considerazione dell’elevata propensione al rischio dell’investitore dalla quale desumere che quest’ultimo avrebbe comunque accettato il rischio ad esso connesso dal momento che l’accettazione consapevole di un investimento finanziario non può che fondarsi sulla preventiva conoscenza delle caratteristiche specifiche del prodotto, in relazione a tutti gli indicatori della sua rischiosità” (Cass. n. 4727 del 28/02/2018; vedi anche Cass. n. 3773 del 17/02/2009; Cass. n. 810 del 19/01/2016; Cass. n. 10111 del 24/04/2018; Cass. n. 14335 del 24/05/2019).

La decisione impugnata risulta in linea con detti precedenti, avendo ritenuto provato il nesso di causalità in via presuntiva in ragione dell’assenza di una consapevole e valida conferma degli ordini di investimento, attesa la insufficienza e/o assenza dell’informazione sulla inadeguatezza delle operazioni.

3.1. Con il terzo motivo si denuncia la violazione dell’art. 1225 c.c..

La ricorrente si duole che, avendo la Corte territoriale condannato la banca a titolo di responsabilità contrattuale, non abbia dato applicazione al principio di cui all’art. 1225 c.c., secondo il quale “se l’inadempimento o il ritardo non dipende dal dolo del debitore, il risarcimento è limitato al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui è sorta l’obbligazione”, ossia al momento della negoziazione, avvenuta tra maggio/ottobre 2002, quando la banca non poteva prevedere la successiva crisi finanziaria del Gruppo G., verificatasi nell’ottobre 2003, oltre un anno dopo.

3.2. Il motivo è inammissibile per difetto di specificità.

La censura si incentra nella richiesta di applicazione dell’art. 1225 c.c., sostenendo che il risarcimento del danno da ritardato pagamento doveva essere limitato al danno prevedibile nel tempo in cui era sorta l’obbligazione: tuttavia, nè alla stregua del ricorso, nè dalla disamina della sentenza è evincibile quando ed in che termini tale questione sia stata proposta.

Piuttosto, nella sentenza è precisato che la Banca aveva chiesto la restituzione dei titoli e l’accertamento del danno realmente subito dagli appellanti tenuto conto del valore residuo degli strumenti finanziari acquistati e del lucro conseguito nel corso del rapporto, e tali richieste appaiono sostanzialmente accolte poichè il danno, individuato dalla Corte di appello secondo criteri presuntivi di congruità ed equità, è stato liquidato detraendo dalla somma dell’originario investimento il valore della cedola riscossa ed è stata, inoltre, disposta la restituzione dei titoli alla banca.

4. In conclusione il ricorso va rigettato, infondati essendo i motivi primo e secondo ed inammissibile il terzo.

Le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis (Cass. S.U. n. 23535 del 20/9/2019).

P.Q.M.

– Rigetta il ricorso;

– Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 11.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, spese generali liquidate forfettariamente nella misura del 15% ed accessori di legge;

– Dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 28 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 maggio 2020

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