Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9013 del 06/05/2015


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Civile Sent. Sez. 3 Num. 9013 Anno 2015
Presidente: BERRUTI GIUSEPPE MARIA
Relatore: DE STEFANO FRANCO

PU

SENTENZA

sul ricorso 22962-2011 proposto da:
NUOVE CAVE TORINO SRL 02712920012, in persona
dell’Amministratore Unico e Legale rappresentante pro
tempore sig. PIETRO STEFANO PEYLA, NOVARESIO PIER
GIORGIO NVRPGR52B28E661B, PEYLA PIETRO STEFANO
PYLPRS46H17B791T, elettivamente domiciliati in ROMA,
2015
428
„t

VIA DEI MONTI PARIOLI 48, presso lo studio
dell’avvocato ULISSE COREA, che li rappresenta e
difende unitamente all’avvocato ANTONIO TIGANI SAVA
giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrenti –

Data pubblicazione: 06/05/2015

contro
_a

COMUNE CARIGNAN° 05215150011, in persona del Sindaco

in carica, MARCO COSSOLO, elettivamente domiciliato
in ROMA, VIALE GLORIOSO 13, presso lo studio
dell’avvocato BUSSA ANDREA-LIVIO, rappresentato e

procura a margine del controricorso;
– controricorxente

avverso la sentenza n. 237/2011 della CORTE D’APPELLO
di TORINO, depositata il 17/02/2011 R.G.N. 572/10;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 17/02/2015 dal Consigliere Dott. FRANCO
DE STEFANO;
udito l’Avvocato ULISSE COREA;
udito l’Avvocato ANTONIO TIGANI SAVA;
udito l’Avvocato VINCENZO ENRICHENS;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIUSEPPE CORASANITI che ha concluso
per il rigetto del ricorso.

2

difeso dall’avvocato VINCENZO ENRICHENS giusta

Svolgimento del processo
§ 1.

– Ti Comune di Carignano convenne in giudizio – con citazione

notificata fino al 21.2.05 – dinanzi al tribunale di Torino – sez. dist. di
Moncalieri la società Nuove Cave Torino srl ed i suoi amministratore unico
e direttore dei lavori, Pietro Stefano Peyla e Pier Giorgio Novaresio, per
conseguirne condanna al risarcimento di tutti i danni – patrimoniali,
extrapatrimoniali ed ambientali, quantificandoli in € 6.025.730,06 arrecati, in loc. La Gorra del Comune di Carignano (TO), ponendo in
essere per diversi anni attività estrattiva in violazione delle autorizzazioni

1.• ,

concesse e non avendo essi, conclusisi i procedimenti penali per gli stessi
fatti nel 2003 con sentenza di patteggiamento, dato corso alle opere di
ripristino loro ingiunti dalla procura della Repubblica.
I convenuti contestarono la domanda, la quale però, espletata
consulenza tecnica di ufficio, fu in parte accolta dal tribunale, con
sentenza n. 272 del 13.10.09, che condannò i convenuti a pagare €
5.288.339,36 (oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali sulla
somma di anno in anno rivalutata dal 30.9.08, data di deposito della
c.t.u., al deposito della sentenza ed oltre soli interessi legali dalla
sentenza al saldo), corrispondenti in gran parte al costo dei materiali
asportati necessari al ripristino dell’area (per € 5.251.934,50). Lo stesso
giorno fu depositata sentenza del medesimo ufficio giudiziario, di
condanna dei medesimi convenuti al risarcimento del danno patrimoniale
ed extrapatrimoniale subito per gli stessi fatti dall’Ente di Gestione del
Sistema delle Aree Protette della Fascia Fluviale del Po – Tratto Torinese.
I soccombenti interposero appello, che però la corte territoriale
respinse con sentenza n. 237, dep. il 17.2.11: per la cui cassazione
ricorrono ora la Nuove Cave Torino srl, Pietro Stefano Peyla e Pier Giorgio
Novaresio, affidandosi a dieci motivi; resiste con controricorso il Comune
di Carignano; e, per la pubblica udienza del 17.2.15, entrambe le parti
depositano memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.
Motivi della decisione
§ 2.

– Parte

La controversia coinvolge la problematica del danno ambientale, la
cui disciplina nazionale è stata di recente ulteriormente modificata e
definitivamente armonizzata con quella eurounitaria – o comunitaria od
europea – con il recepimento organico dei relativi principi. In particolare,

rg 22962-11 – ud. 17.2.15 – est. cons. F. De Stefano

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m

la materia, originariamente disciplinata dalla legge 8 luglio 1986, n. 349,è
.s: stata profondamente innovata dal d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152;

ed ha

subito evoluzioni normative sensibili, anche a causa di un duplice avvio a
carico della Repubblica italiana, da parte della Commissione dell’Unione
Europea, di procedure di infrazione alla direttiva 2004/35/CE.
§ 2.1. In estrema sintesi ed in termini assolutamente sommari,
basti in questa sede acquisire quale dato fermo:

di porre rimedio alle alterazioni ed ai danni della risorsa “ambiente”
esclusivamente mediante il recupero della stessa, in relazione alla sua
peculiarità, quale contesto generale di quotidiana estrinsecazione
esistenziale di una massa tendenzialmente indeterminata di individui: ciò
che orienta quel recupero in direzione non soltanto – e perfino neppure
necessariamente – del ripristino della situazione antecedente, ma anche
della riconsiderazione complessiva dei numerosi e differenziati interessi generali e particolari, mai soltanto economici o patrimoniali in senso
stretto – coinvolti, facenti capo ad una collettività potenzialmente
indeterminabile ex ante e coinvolgenti valutazioni complesse;
– che tale principio generale comporta la riserva allo Stato, quale
Ente esponenziale al massimo livello sul territorio, dell’esclusiva potestà
di agire, sia in via preventiva che repressiva (o, meglio, recuperatoria), in
considerazione appunto della potenziale incommensurabilità del danno e
delle difficoltà di determinazione ed esecuzione delle opere per il recupero
della risorsa violata; sicché il bene ambiente, secondo il concetto
peculiare elaborato in materia, può essere tutelato solo dallo Stato,
benché debba restare impregiudicata la legittimazione di titolari di diritti
diversi da quello all’integrità ambientale, i quali risultino separatamente

danneggiati dall’unica condotta plurioffensiva che ha inciso su quella
risorsa, ad agire per il risarcimento di quegli ulteriori danni;
– che, per avvicinare, in via di grande approssimazione, tale
soluzione ai principi generali del nostro ordinamento, può sintetizzarsi
che è imposta comunque la riparazione in forma specifica e, per di più,
attraverso lo strumento di quello che può definirsi un’esecuzione in danno
dell’obbligato, da parte del soggetto pubblico e successiva rivalsa nei
confronti dei danneggiante.
§ 2.2. In questo contesto eurounitario, peraltro, in Italia:
4
rg 22962-11 – ud. 17.2.15 – est. cons. F. De Stefano

– che il principio generale, di derivazione eurounitaria, è l’esigenza

- il suddetto d.lgs. 152/2006 ha regolato l’intera materia
ambientale (abrogando numerose leggi precedenti) e statuendo soltanto – la priorità delle misure di “riparazione” rispetto al risarcimento
per equivalente pecuniario, quale conseguenza dell’assoluta peculiarità
del danno al bene o risorsa “ambiente”;
– il successivo di. 25 settembre 2009, n. 135, convertito con
modif. dalla l. 20 novembre 2009, n. 166, ha poi, con il suo art. 5-bis L.
166/2009 – per neutralizzare la prima contestazione della UE del 2008 –

precisato (con normativa applicabile anche ai giudizi in corso in luogo
dell’art. 18 della previgente L. 349/86, salva la sola formazione del
giudicato) che il danno all’ambiente deve essere risarcito con le misure di
riparazione “primaria”, “complementare” e “compensativa” previste dalla
Direttiva 2004/35/CE: prevedendo un eventuale risarcimento per
equivalente pecuniario esclusivamente se le misure di riparazione del
danno all’ambiente fossero state in tutto o in parte omesse, impossibili o
eccessivamente onerose o fossero state attuate in modo incompleto o
difforme rispetto a quelle prescritte;
– e tuttavia l’art. 25 della c.d. Legge Europea 2013 (L. 6 agosto
2013, n. 97) – per neutralizzare l’ulteriore contestazione della
Commissione europea del 2012 – ha ulteriormente risistemato la materia,
definitivamente eliminando ogni riferimento al risarcimento “per
equivalente patrimoniale” e stabilendo che il danno all’ambiente deve
essere risarcito solo con le “misure di riparazione” previste dall’allegato 3
del d.lgs. 152/2006 (che è identico all’Allegato E della Direttiva
2004/35/CE);
– sicché, ad oggi e con disposizione applicabile anche ai processi in
corso, il danno ambientale non può in nessun caso essere risarcito “per
equivalente” pecuniario, ma solo con le misure di riparazione e con i
criteri enunciati negli allegati 3 e 4 al d.lgs. 152/06, come modificato;
– e, tuttavia, lo stesso art. 311 d.lgs. 152/06, come da ultimo
modificato, prevede al co. 3 che, sia pure solo quando l’adozione delle
misure di riparazione anzidette risulti in tutto o in parte omessa, o
comunque realizzata in modo incompleto o difforme dai termini e
modalità prescritti, il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e
del mare determina i costi delle attività necessarie a conseguirne la

nj 22962-11 – ud. 17.2.15 – est. cons. F. De Stefano

5

m

completa e corretta attuazione e agisce nei confronti del soggetto
obbligato per ottenere il pagamento delle somme corrispondenti.
§ 2.3. Questa Corte, ma – significativamente – in tempo anteriore
all’ultima novella del 2013, ha già avuto modo di statuire che la domanda
di risarcimento del danno ambientale ancora pendente alla data di
entrata in vigore della legge 20 novembre 2009, n. 166 è assoggettata,
in ordine alla liquidazione del danno, ai criteri specifici risultanti dal nuovo
testo dell’art. 311, commi 2 e 3, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, come
modificato dall’art. 5-bis, comma 1, lett. b), del d.l. 25 settembre 2009,
n. 135, convertito con modificazioni nella citata legge n. 166 del 2009,
individuandosi tali criteri direttamente nelle previsioni dei punti 1, 2 e 3,
dell’Allegato 11 alla Direttiva 2004/35/CE e, solo eventualmente, ove sia
stato nelle more emanato, in quelle contenute nel d.m. previsto
nell’ultimo periodo dell’art. 311, comma 3 del d.lgs. n. 152 del 2006
citato (Cass. 22 marzo 2011, n. 6551; sul punto confermata da Cass. 27
agosto 2014, n. 18352; solo in parte – relativamente cioè ai criteri di
imputazione della responsabilità, ma non pure a quelli di liquidazione del
danno – difforme risultando Cass. 7 marzo 2013, n. 5705).
Deve ora prendersi atto dell’ulteriore innovazione legislativa,
applicabile, per espressa previsione normativa, anche ai giudizi in corso;
infatti, ai sensi dell’art. 311, comma terzo, terz’ultimo periodo, come
modificato dall’ultimo intervento legislativo, i criteri e metodi appena
codificati – cioè pure di valutazione monetaria per determinare la portata
delle misure di riparazione complementare e compensativa – trovano
applicazione anche ai giudizi pendenti non ancora definiti con sentenza
passata in giudicato alla data di entrata in vigore del decreto di cui al
periodo precedente.
Secondo tale ultima novella:
– ai sensi del comma 2 dell’art. 311, vanno determinati i costi delle
attività necessarie a conseguire la corretta e completa attuazione delle
misure di riparazione di cui all’allegato 3 alla parte sesta del d.igs.
152/06, quando il danno sia stato cagionato da operatori le cui attività
sono elencate nell’allegato 5 alla medesima parte sesta; e, solo per il
caso in cui l’adozione delle misure di riparazione anzidette risulti in tutto
o in parte omessa, o comunque realizzata in modo incompleto o difforme
dai termini e modalità prescritti, vanno determinati i costi delle attività

ng 22962-11 – ud. 17.2.15- est. cons. F. De Stefano

6

r

necessarie a conseguirne la completa e corretta attuazione e si agisce nei
confronti del soggetto obbligato per ottenere il pagamento delle somme
corrispondenti;
– ai sensi del comma 3 del medesimo art. 311, poi, vanno
individuate le misure di riparazione da adottare con provvedimento
relativo al caso di specie, mentre con decreto ministeriale vanno stabiliti
(in conformità a quanto previsto dall’allegato 3, punto 1.2.3, alla

delle misure di riparazione complementare e compensativa e per la loro
valutazione monetaria.
§ 2.4. La nuova disciplina va poi combinata al principio generale
dell’art. 5 cod. proc. civ. in materia di perpetuati° furisdictionis e quindi
alla persistenza della giurisdizione del giudice ordinario civile, sicché sarà
quest’ultimo, investito della domanda di risarcimento per equivalente del
danno ambientale, ad applicare, per provvedere sulla stessa, quei criteri
e metodi e ad individuare le misure di riparazione primaria,
complementare e compensativa e, per il caso di omessa o imperfetta loro
esecuzione, a determinare il costo delle medesime da rendere oggetto di
condanna nei confronti dei soggetti obbligati.
In applicazione di principi altrettanto generali di diritto processuale,
analogamente proseguono i giudizi iniziati in epoca anteriore alla prima di
dette novelle legislative – e quindi prima del d.lgs. 152/06 – da soggetti
diversi da quello in capo al quale è ora riconosciuta in via esclusiva la
legittimazione: e correttamente saranno esaminate e decise le loro
domande, ove gli originari attori vi insistano, ma all’indispensabile
condizione dell’armonizzazione di quelle e delle eventuali condanne coi
principi suddetti, in modo che quegli attori non conseguano risultati ormai
vietati dal mutato assetto ordina mentale.
§ 3. – Tutto ciò posto, giovano alcune puntualizzazioni preliminari.
§ 3.1. Va ricordata la necessità che, per consentire a questa Corte
di legittimità di prendere cognizione delle doglianze ad essa sottoposte,
nel ricorso si rinvengano sia l’indicazione della sede processuale di
produzione dei documenti o di adduzione delle tesi, sia la trascrizione dei
primi e dei passaggi argomentativi sulle seconde (tra le innumerevoli, v.:
Cass., ord. 16 marzo 2012, n. 4220; Cass. 1 febbraio 1995, n. 1161;
Cass. 12 giugno 2002, n. 8388; Cass. 21 ottobre 2003, n. 15751; Cass.

rg 22962-11 – ud. 17.2.15 – est. cons. F. De Stefano

7

medesima parte sesta del d.lgs. 152/06) i criteri per la determinazione

24 marzo 2006, n. 6679; Cass. 17 maggio 2006, n. 11501; Cass. 31
maggio 2006, n. 12984; Cass., ord. 30 luglio 2010, n. 17915, resa anche
ai sensi dell’art. 360-bis, n. 1, cod. proc. civ.; Cass. 31 luglio 2012, n.
13677; tra le più recenti, per limitarsi ad alcune: Cass. 11 febbraio 2014,
nn. 3018, 3026 e 3038; Cass. 7 febbraio 2014, nn. 2823 e 2865 e ord. n.
2793; Cass. 6 febbraio 2014, n. 2712, anche per gli

errores in

procedendo; Cass. 5 febbraio 2014, n. 2608; 3 febbraio 2014, nn. 2274 e

giurisprudenza delle Sezioni Unite (Cass. 22 maggio 2012, n. 8077)
muove in direzione opposta, lasciando ampio spazio alla riaffermazione del resto e come visto, effettivamente operata – del principio nella sua
tradizionale accezione, del quale il nuovo art. 366, comma primo, n, 6),
cod. proc. civ. costituisce la codificazione (per tutte, v. ad es. Cass., ord.
25 marzo 2013, n. 7455): quella pronuncia a Sezioni Unite riferendosi al
diverso vizio di nullità del procedimento (o della sentenza) ed esigendo
pur sempre che la doglianza sia stata proposta dal ricorrente in
conformità alle regole del codice di rito (artt. 366, comma primo, n. 6 e
369, comma secondo, n. 4, cod. proc. civ.).
§ 3.2. – Ancora, il ricorrente che proponga in sede di legittimità
una determinata questione giuridica, la quale implichi accertamenti di
fatto, ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per
novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta deduzione della
questione dinanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto
del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di
controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel
merito la questione stessa (per l’ipotesi di questione non esaminata dal
giudice del merito: Cass. 2 aprile 2004, n. 6542; Cass. 10 maggio 2005,
n. 9765; Cass. 12 luglio 2005, n. 14599; Cass. 11 gennaio 2006, n. 230;
Cass. 20 ottobre 2006, n. 22540; Cass. 27 maggio 2010, n. 12992; Cass.
25 maggio 2011, n. 11471; Cass. 11 maggio 2012, n. 7295; Cass. 5
giugno 2012, n. 8992; Cass. 22 gennaio 2013, n. 1435).
Vanno ora esaminati partitamente i motivi di doglianza dei
ricorrenti.
§ 4. – I ricorrenti si dolgono, col primo motivo, di “violazione e
falsa applicazione dell’art. 18 legge n. 349/86, dell’art. 2043 c.c. e (j1
dell’art. 4, comma 1, lett. a) I.r. Piemonte n. 28/90, in relazione all’art.

rg 22962-11 – ud. 17.2.15 – est. cons. E. De Stefano

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2276; Cass. 30 gennaio 2014, n. 2072); del resto, neppure la

360, comma 1, n. 3 c.p.c.. Nullità della sentenza e del procedimento per
infrazione degli artt. 112, 167, 180, 183 e 345 c.p.c. in ragione del
disposto di cui all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c.. Insufficiente
motivazione della sentenza su fatti controversi e decisivi per il giudizio ex
art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.”.
§ 4.1. In particolare, contestano essi la ritenuta attiva
legittimazione del Comune in punto di danni da valore del materiale
illegittimamente asportato, soprattutto perché con separato giudizio altro

soggetto, in quella sede qualificato come a tanto legittimato, aveva agito
per il danno – dagli stessi fatti derivante – consistente nei costi per
procedere alla riqualificazione ambientale; ricordano di avere fin dal
primo grado contestato la legittimazione del Comune, circostanza che
integrava peraltro una mera difesa e la cui allegazione, in quanto tale,
non era soggetta alle preclusioni dell’art. 345 cod. proc. civ., invece
rilevate dalla corte territoriale; negano la titolarità del Comune di un
diritto al ripristino dei luoghi, neppure limitatamente al valore dei
materiali asportati; ritengono rientrare nei costi per la riqualificazione ed
il ripristino anche il valore dei materiali a tal fine necessari; negano la
duplicità di legittimazione tra l’Ente di Gestione ed il Comune e, quindi, la
diversità dell’oggetto delle due domande avanzate, appunto in separati
giudizi, dall’uno e dall’altro nei loro confronti.
§ 4.2. Il controricorrente Comune eccepisce preliminarmente
l’inammissibilità della censura di vizio motivazionale, per mancata
indicazione dei fatti controversi e decisivi cui si riferirebbe; ricorda avere
le controparti sostenuto in primo grado la proprietà del materiale della
cava e l’assenza di una solidarietà attiva tra gli enti titolari del diritto al
,.
-,

l’ulteriore profilo di discussione; analizza compiutamente le consulenze
,

.

risarcimento del danno ambientale, solo in secondo grado introducendo

tecniche di ufficio poste a base delle decisioni per rimarcare come diverso
sia il danno oggetto delle due coeve condanne, circoscrivendosi la
condanna in favore del Comune al valore del materiale e quella in favore
dell’Ente di Gestione agli ulteriori lavori di riempimento e ritombamento,
pertanto senza alcuna duplicazione di poste o di voci; deduce la piena
legittimità della titolarità in capo a diversi Enti, territoriali anche minori o
meno, del diritto al risarcimento del danno ambientale, una volta
accertata la grave lesione del bene ambiente e del territorio comunale.

rg 22962-11 – ud. 17.2.15 – est. cons. F. De Stefano

9 ()(

1

§ 4.3. Il motivo è inammissibile sotto tutti i profili:
e

– quanto alla pretesa duplicazione delle poste risarcitorie e delle
legittimazioni passive, difettano in ricorso (in violazione dei principi
ricordati sopra al § 3.1) le trascrizioni degli atti rilevanti – in uno
all’indicazione delle rispettive sedi processuali – da cui rilevare la precisa
coincidenza dei due ambiti, vale a dire non tanto o non solo gli atti
introduttivi di lite o le conclusioni degli attori nei due giudizi, quanto
soprattutto le analitiche conclusioni, con indicazione delle singole
componenti, delle consulenze tecniche di ufficio poste a base delle
rispettive finali quantificazioni: e comunque potendo, già solo in astratto,
di certo ammettersi la coesistenza di danni consistenti nel valore del
materiale asportato ed altri, consistenti nel costo degli ulteriori (come
specificato nella qui gravata sentenza) lavori di risistemazione
complessiva del sito e di sistemazione, sul medesimo, del materiale
stesso;
– quanto alla pretesa non spettanza al Comune del risarcimento
consistente nel valore dei materiali illegittimamente asportati, non si
fanno adeguatamente i ricorrenti carico di confutare la complessa ratio
decidendi,

consistente nelle combinate asserzioni dell’illegittimità

dell’asporto del materiale (siccome eccedente i limiti espressamente
autorizzati) e dell’ubicazione del sito colpito dal danno nel Comune
stesso, sul presupposto implicito dell’accollo al suo patrimonio delle spese
di ripristino del sito, comunque in rapporto alla sopravvenienza della
norma che attribuirebbe esclusiva legittimazione allo Stato e quindi alla
ultrattività del regime precedente, che la legittimazione dell’ente locale
invece ancora consentiva; pertanto, non essendo colta la ratio decidendi,
né essendo in questa sede contestabile la legittimazione del soggetto che
abbia rivestito la qualifica di attore in diverso giudizio, il profilo di
doglianza è inammissibile e resta assorbito anche l’altro, del diritto a
conseguire la restaurazione delle condizioni del sito oggetto di danno
ambientale mediante la ricollocazione del materiale non legittimamente
asportato.
§ 5. – Ancora, i ricorrenti, col secondo motivo, lamentano
“violazione e falsa applicazione dell’art. 18, legge n. 349/86 dell’art. 2043
c.c. in relazione all’art. 360, comma 1,

rg 22962-11 – ud. 17.2.15 – est. cons. F. De Stefano

n. 3 c.p.c.. Insufficiente

10

t

motivazione della sentenza su fatti controversi e decisivi per il giudizio ex
e

e

art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.”.
§ 5.1. In particolare, essi addebitano alla gravata sentenza di

.
40

essersi basata esclusivamente, per affermare la loro responsabilità, sulla
sentenza di patteggiamento, anziché procedere ad autonomi
accertamenti in punto di sussistenza di danno all’ambiente, di condotta
antigiuridica da parte di ognuno dei convenuti, di commissione del fatto
con dolo o colpa e di nesso di causalità fra condotta illecita e danno. E

negano rilevanza al richiamo, quali elementi ulteriori, alla consulenza
redatta per il pubblico ministero od alla documentazione a firma del
legale rappresentante della società, riguardante i mai attuati lavori di
ripristino, stigmatizzandone l’assoluta genericità.
§ 5.2. Il controricorrente, oltre ad eccepire l’inammissibilità del
motivo perché non sarebbero specificati i fatti controversi e decisivi per il
giudizio, rimarca la valenza di elemento di prova anche in via esclusiva
riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità alla sentenza di c.d.
patteggiamento, conclusione da applicarsi con maggiore tranquillità alla
fattispecie, perché seguita all’esito dell’intero percorso dibattimentale, nel
cui corso erano state acquisite prove documentali e testimoniali ed
espletata una consulenza tecnica di ufficio, nel pieno contraddittorio pure
delle odierne parti; e ricorda gli elementi probatori ivi raccolti,
pienamente utilizzabili anche nel presente diverso giudizio civile, a
comprova delle numerose e reiterate attività illecite ed abusive poste in
essere dalle controparti.
§ 5.3. Il motivo è infondato.
È ben vero che la sentenza di patteggiamento è generalmente
.e

intesa dai processualcivilisti come priva dell’efficacia diretta, nel processo
civile, propria di una sentenza di condanna (disciplinata dall’art. 651 cod.
proc. pen.).
Ciononostante,

anche in quest’ambito la

sentenza

di

patteggiamento comunque assurge al rango di importante elemento di
prova (sia pur non esclusivo o decisivo ex se: Cass. 27 settembre 2013,
n. 22213; Cass. 19 gennaio 2011, n. 1141), sull’esclusione della cui
rilevanza il giudice civile deve pur sempre motivare espressamente
(Cass., ord. 6 dicembre 2011, n. 26263, con principio affermato ai sensi
dell’art. 360-bis cod. proc. civ., n. 1 – seguita già da Cass. 18 aprile

rg 22962-11- ud. 17.2.15 – est. cons. F. De Stefano

11

m

2013, n. 9456 – o Cass. 7 novembre 2011, n. 23025; v. pure Cass. 31
ottobre 2014, n. 23158).
Può tralasciarsi il profilo di ammissione di responsabilità insita nella
stessa richiesta di patteggiamento, conclusione dalla quale sembra meno
remota oggi la giurisprudenza penale di questa Corte regolatrice (tra le
numerose più recenti: Cass. sez. 2 pen., 5-10 giugno 2014, n. 24308;
Cass. sez. 2 pen., 13 – 26 maggio 2014, n. 21231; Cass. sez. 2 pen., 14

sez. 5 pen., 20 – 29 settembre 1999, n. 4117; Cass. sez. 1 pen., 3
novembre 1995, Nulli; Cass. sez. 3 pen., 26 giugno 1995, Donazzolo;
Cass. sez. 1 pen., 13 maggio 1994, Dellegrottaglie), ma praticamente
raggiunta – con espressioni marcate nella materia disciplinare e forti di
una specifica previsione normativa, ma in base a principi di portata così
generale da assurgere a fondamento di una generalizzazione della
conclusione – dalla giurisprudenza civile di questa Corte, sia pure senza
alcun automatismo (in quanto sempre liberamente apprezzabile dal
giudice civile: Cass. 6 dicembre 2011, n. 26520) e se non altro per
implicito (Cass. Sez. Un., 20 settembre 2013, n. 21591; Cass. Sez. Un.,
31 luglio 2006, n. 17289) o fino a prova contraria (Cass. 3 dicembre
2013, n. 27071; Cass. 18 febbraio 2011, n. 4060; Cass., ord. 12 febbraio
2011, n. 3560).
Infatti, nella specie il giudice di appello ha fatto riferimento non
alla soia sentenza di patteggiamento, ma pure ad alcuni specifici atti del
procedimento penale, tra cui la consulenza redatta per il pubblico
ministero ed i documenti a firma del legale rappresentante della società
in ordine ai “mai attuati interventi di ripristino”: e tali riferimenti, operati
a materiale istruttorio ritualmente acquisito agli atti di causa e nel
rispetto del contraddittorio, sono pienamente idonei a porre i condannati
in grado di confutarli analiticamente, non essendo pretesa dal giudice la
specifica indicazione di ognuno degli elementi istruttori presi in
considerazione.
§ 6. – Inoltre, i ricorrenti, col terzo motivo, si dolgono di
“violazione e falsa applicazione dell’art. 18 legge n. 349/86 e dell’art.
2043 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.. Insufficiente
motivazione della sentenza su un fatto controverso e decisivo per il
giudizio e specificamente col riguardo alla parte in cui la medesima

rg 22962-11 – ud. 172.15- est. cons. F. De Stefano

12

febbraio – 2 marzo 2014, n. 10090; via via fino alle più remote: Cass.

pronuncia ha stabilito la condanna degli appellanti (attuali ricorrenti) al
risarcimento in solido per l’intero danno ambientale, ex art. 360, comma
1, n. 5 c.p.c.”.
§ 6.1. In particolare, essi contestano il carattere solidale della
condanna pronunziata nei loro confronti e la mancanza di un previo
accertamento delle precise e singole responsabilità e colpe individuali, in
violazione dell’art. 18 – commi 6 e 7 – della legge n. 349/86 e del

cod. civ.; e censurano la conclusione dei giudici di merito sulla non
separabilità delle responsabilità dei convenuti e sulla cooperazione di tutti
nella determinazione della totalità del danno, per rimarcare l’esclusiva
ascrivibilità di quello alla società, anziché al suo amministratore unico ed
al direttore dei lavori, oltretutto incaricati di funzioni diverse, il cui
peculiare apporto causale avrebbe dovuto essere specificamente e
separatamente valutato.
§ 6.2. Il controricorrente eccepisce l’inammissibilità del tentativo di
rivalutare i fatti, che il mezzo di censura comporterebbe; ma nega
comunque la sussistenza della solidarietà ed evidenzia la già accertata
responsabilità di tutti i convenuti per gli illeciti loro ascritti, nonché la
correttezza della riconduzione della responsabilità delle singole persone
fisiche al ruolo da esse svolto nell’attività della società; e circoscrive la
portata dell’art. 18 legge n. 349/86 al piano dell’individuazione dei
soggetti tenuti al risarcimento (in particolare, escludendosi ipotesi di
responsabilità oggettiva), ma non anche su quello della quantificazione
del risarcimento dovuto dai singoli soggetti individuati come responsabili.
§ 6.3. Il motivo è infondato.
è ben vero che “nei casi di concorso nello stesso evento di danno,
ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale”
(principio posto dall’art. 18 legge 349/86 e poi ribadito dall’art. 311, co.
3, penultimo periodo, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, anche nel testo
modificato – da ultimo – dall’art. 25 dellal. 6 agosto 2013, n. 97).
Tuttavia, la conseguente esclusione dell’operatività dell’art. 2055
cod. civ. deve avvenire con cautela, quello integrando un principio
generale in tema di responsabilità extracontrattuale e rispondendo ad
esigenze di tutela immediata ed effettiva del danneggiato.

13
rg 22962-11 – ud. 17.2.15 – est. cons. F. De Stefano

principio da esso introdotto, di deroga alla regola generale dell’art. 2055

È indubbio che tale esclusione di operatività mira ad evitare il
rischio di una sorta di responsabilità oggettiva o per fatto altrui ed in
particolare quello di ascrivere ad ogni compartecipe anche per un
modesto segmento di una delle condotte sfociate in un danno ambientale
complessivo la responsabilità per l’ingentissimo danno che ne è derivato,
anche quanto alle specifiche conseguenze non prevedibili o perfino non
controllabili perché da ascriversi alla condotta indipendente di altri: si

determinati da condotte tra loro del tutto indipendenti (come, ad
esempio, l’inquinamento di un corso d’acqua da parte di diversi
imprenditori trasgressori), nei quali è parso opportuno che il risultato
complessivo finale non fosse ripagato per intero secondo la casualità del
soggetto economicamente solvibile.
Se questa è la ratio della norma di limitazione della responsabilità,
essa non può operare pure nei casi di condotta unitaria, risultante dalla
combinazione, quale indispensabili antefatti causali tra loro avvinti da
inscindibili e reciproci nessi di consequenzialità, delle azioni colpose o
dolose concorrenti di più persone: alle quali ultime sia quella complessiva
condotta che quell’unitario danno allora andranno altrettanto
unitariamente ascritti, in persistente applicazione – o, se si vuole, in non
limitata applicazione o non estesa esclusione – della regola generale.
E la limitazione di responsabilità in esame va allora circoscritta ai
casi in cui le condotte causative dell’unitario evento di danno siano
differenti e tra loro indipendenti; al contrario, ove l’unitario evento di
danno sia causato non da una pluralità di condotte autonome od
indipendenti, ma da una altrettanto unitaria condotta colposa o dolosa,
però indissolubilmente ascrivibile a più soggetti tra loro
indifferenziatamente e quindi a condotte concorrenti in senso stretto, può
riprendere applicazione – o non soffrire la limitazione speciale suddetta la regola generale dell’art. 2055 cod. civ., che pone appunto in via
generalissima i criteri di imputazione degli effetti di una condotta
complessiva ed inscindibile nelle componenti delle azioni od omissioni di
più soggetti.
E tanto avviene nella specie, in cui l’attività estrattiva illegittima,
protratta nel tempo, è da ascriversi appunto alla società, quale centro di
imputazione della volontà di procedere a quelle attività, a chi – quale

rg 22962-11 – ud. 17.2.15 – est. cons. F. De Stefano

14

pensi al caso di danneggiamenti ambientali di contesti complessi,

legale rappresentante – in essa ne ha determinato e concretato le scelte
e a chi, ponendo in essere i lavori, ha materialmente reso possibile gli
episodi di depredazione della sponda del Po in cui l’illiceità dell’attività
estrattiva si è concretata.
Infatti, con apprezzamento di fatto immune da vizi logici e giuridici
la corte territoriale ha accertato che, nella causazione dell’unico evento di
danno, consistente nel danno ambientale da attività estrattiva eccedente
i limiti dell’autorizzazione in loc. La Gorra del Comune di Carignan°, il

concorso causale di ciascuno – società, suo legale rappresentante e
direttore dei lavori in cui materialmente si sono estrinsecate le attività di
estrazione – è stato di per sé idoneo a cagionare per l’intero il danno,
avendo tutti i soggetti operato per l’intero periodo in cui l’attività, pur se
riferibile in ultima analisi alla società

di cui

il Peyla era legale

rappresentante ed il Novaresio direttore dei lavori, è stata posta in essere
in dipendenza delle attività gestionali o materiali dell’uno e dell’altro.
È stata fatta, quindi, corretta applicazione del seguente principio di
diritto:

in materia di responsabilità per danno ambientale, la

regola (prevista dal penultimo periodo del terzo comma dell’art.
311 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, nel testo modificato – da
ultimo – dall’art. 25 della i. 6 agosto 2013, n. 97) per la quale “nei
casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde
nei limiti della propria responsabilità personale”, mirando ad
evitare la responsabilità anche per fatti altrui, opera nei casi di
plurime condotte indipendenti e non anche in caso di azioni od
omissioni concorrenti in senso stretto alla concretizzazione di una
unitaria condotta di danneggiamento dell’ambiente, quando siano
tutte tra loro avvinte quali indispensabili antefatti causali di
questa: con la conseguenza che, in tale ultima ipotesi, non soffre
limitazione la regola generale dell’art. 2055 cod. civ. in tema di
responsabilità di ciascun coautore della condotta per l’intero
danno causato.
§ 7. – Successivamente, i ricorrenti, col quarto motivo, adducono
“violazione e falsa applicazione dell’art. 2943 c.c. in relazione all’art. 360,
comma 1, n. 3 c.p.c.. Nullità della sentenza e del procedimento per
infrazione degli artt. 112, 167 e 345 c.p.c. ed in ragione del disposto di
cui all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c.”.

rg 22962-11– ud. 17.2.15 – est. cons. F. De Stefano

15

m

§ 7.1. In particolare, essi negano potesse qualificarsi nuova
l’eccezione di prescrizione: invero, posto che – comunque – il convenuto
che eccepisca la prescrizione può limitarsi ad addurre il decorso del
tempo, in primo grado essi avevano dedotto che, nei cinque anni
precedenti l’inizio della causa, non vi erano state ulteriori attività illecite;
sicché, reputata dal primo giudice interrotta la prescrizione con la
costituzione di parte civile nel processo penale, le ulteriori

della maggiore ampiezza dei danni reclamati in sede civile rispetto a
quanto oggetto del procedimento penale – erano la contestazione degli
argomenti addotti per respingere l’eccezione e non una nuova eccezione.
§ 7.2. Il controricorrente contesta l’autosufficienza, sul punto, del
ricorso, non risultando da esso in base a quali elementi sostenere la
difformità dell’oggetto del presente giudizio civile rispetto a quello del
procedimento penale sui medesimi fatti; sul punto, rimarca comunque
invece sussistere la piena prova della coincidenza dei due oggetti;
eccepisce l’inammissibilità della sollecitazione di un nuovo accertamento
e valutazione dei fatti di causa; ricorda che nessuna reazione controparti
ebbero alla controeccezione di interruzione della prescrizione, sicché
sarebbe evidente la novità di tali nuovi argomenti, che introducevano un
nuovo thema decidendum, inammissibile in appello.
§ 7.3. Effettivamente è fondata l’eccezione di difetto di
autosufficienza del ricorso sul punto: non risulta, dal tenore testuale del
ricorso, la lamentata diversità dell’ambito o dell’oggetto del procedimento
penale rispetto a quello civile, mancando in esso la trascrizione degli atti
di parte o di causa – con la precisa indicazione della sede processuale di
produzione – da cui desumere tale diversità: pertanto, non essendo stato
rispettato il principio ricordato sopra al § 3.1, il motivo è inammissibile,
anche a prescindere da quanto si verrà a specificare in ordine al motivo
successivo.
§ 8. – A questo punto, i ricorrenti, col quinto motivo, deducono
“violazione e falsa applicazione dell’art. 2943 c.c.. Insufficiente
motivazione della sentenza su un fatto controverso e decisivo per il
giudizio e specificamente col riguardo alla parte in cui la medesima
pronuncia ha riconosciuto l’esistenza di danni verificatisi in epoca
antecedente alla scadenza del termine prescrizionale, come tali da

rg 22962-11 – ud. 17.2.15 – est. cons. F. De Stefano

16

argomentazioni svolte in appello – in sostanza, la mancata valutazione

escludere dal computo del danno riconosciuto a! Comune, ex art. 360,
comma 1, n. 5 c.p.c.”.
§ 8.1. In particolare, i ricorrenti contestano la loro condanna al
risarcimento anche dei danni verificatisi antecedentemente alla scadenza
del termine prescrizionale, individuando come

dies a quo la data di

notificazione della citazione in primo grado o, al più tardi, di costituzione
di parte civile; censurano la gravata sentenza per avere qualificato non
meglio spiegate le asserzioni di essi convenuti sulla maturata prescrizione

per i danni di alcuni degli illeciti, perché commessi prima del o a partire
dal 1994; e concludono per l’illegittimità nel computo dei danni del valore
dei lavori necessari al ripristino dei materiali asportati nel periodo
antecedente alla scadenza del termine prescrizionale
§ 8.2. Il controricorrente si duole della novità, in questa sede, di
tale argomento – e della questione sulla natura permanente o istantanea
dell’illecito – e comunque ricorda come la sentenza di primo grado avesse
ritenuto la condotta illecita non esaurita in una serie di singoli atti
autonomamente valutabili; eccepisce il difetto di autosufficienza del
ricorso al riguardo, del resto neppure individuando quali sarebbero gli
illeciti prescritti e quali quelli non prescritti; insiste per l’avvenuta
interruzione del termine prescrizionale in dipendenza della costituzione di
parte civile nel giudizio penale, avutasi il 9.4.01; ricorda poi come la
prescrizione, negli illeciti permanenti, cessi con la cessazione delle
condotte illecite, le quali, nella specie, sono state protratte ed unitarie;
nega, di conseguenza, la lamentata insufficienza, sul punto, della
motivazione.
§ 8.3. In disparte i dubbi sulla novità della doglianza in questa
sede (ciò che comporterebbe l’inammissibilità in applicazione dei principi
ricordati sopra al § 3.2), può rilevarsi che il motivo è comunque
infondato: trattandosi di illecito evidentemente permanente, attesa la
persistenza nel tempo della condotta – liberamente adottata ma sempre
reversibile, con spontanea tempestiva ottemperanza anche alle
ingiunzioni via via impartite – di mantenimento del sito ambientale in
condizioni di depredazione o diminuzione, la prescrizione avrebbe iniziato
a decorrere soltanto da quando la situazione illegittima, consistente
nell’addotta alterazione dello stato dei luoghi, fosse stata rimossa (per un
caso almeno in parte analogo, v. Cass. 30 gennaio 1990, n. 594, oppure

rg 22962-11 – ud. 17.2.15 – est. cons. F. De Stefano

17

m

Cass. 11 marzo 1980, n. 1624), oppure da quando fosse divenuta
impossibile per i soggetti danneggianti, ove avessero perso la libera
disponibilità del bene e, quindi, la possibilità di liberamente determinarsi
in ordine allo stesso (Cass. 23 dicembre 2011, n. 28652); ma in alcun
modo risulta che gli attuali ricorrenti abbiano fatto valere l’una o l’altra
circostanza, uniche a fondare lo stesso inizio del decorso della
prescrizione.
Il motivo va quindi rigettato, in applicazione del seguente principio

di diritto: in materia di danno ambientale, la condotta antigiuridica

consiste nel mantenimento dell’ambiente nelle condizioni di
danneggiamento e pertanto il termine prescrizionale dell’azione
di risarcimento non inizia a decorrere se non da quando tali
condizioni sono state volontariamente eliminate dal danneggiante
o tale condotta è stata resa impossibile dalla perdita incolpevole
della disponibilità del bene da parte del danneggiante medesimo.
§ 9. – Ancora, i ricorrenti, col sesto motivo, sostengono “violazione
e falsa applicazione dell’art. 303, lett. f) d.lgs, n. 152/2006 e dell’art.
311, commi 2 e 3, d.lgs. n. 152/2006, nonché dei principi
dell’applicabilità dello

ius superveniens e dello iura novit curia,

in

relazione all’art. 360 all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.. Nullità della
sentenza e del procedimento per infrazione degli artt. 112, 167 e 345
c.p.c. ed in ragione del disposto di cui all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c.”.
§ 9.1. In particolare, i ricorrenti contestano la mancata
applicazione anche ai giudizi in corso, nonostante l’espressa previsione
della necessità di quella (di cui all’art. 5-bis d.l. n. 135/09, conv. con
mod. in 1. 166/09), delle sopravvenute norme degli artt. 303 e 311 del
d.lgs. 152/06 in materia di ambiente, che hanno radicalmente riscritto i
criteri di determinazione del risarcimento, soprattutto in forma specifica;
e negano rilevanza al fatto di avere introdotto un tale tema di discussione
solo in comparsa conclusionale, attese le ampie modalità di rilievo dello

ius superveniens; sottolineano la centralità del ripristino ambientale, di
cui finanche escludono l’impossibilità o l’eccessiva onerosità, confinando il
risarcimento per equivalente in via equitativa al rango di extrema ratio,
oltretutto ancorato al valore monetario stimato delle risorse naturali e dei
servizi perduti ed ai parametri usati in casi simili o in materie analoghe
per la liquidazione del risarcimento per equivalente del danno ambientale
18
rg 22952-11— ud. 17.2.15 — est. cons. F. De Stefano

m

in sentenze passate in giudicato pronunciate in ambito nazionale e
comunitario; il tutto a fondamento della reiterata istanza di rinnovazione
della consulenza tecnica di ufficio.
§ 9.2. Il controricorrente, dal canto suo, rimarca la novità in grado
di appello delle questioni indotte dalla normativa già da tempo
promulgata, nonché la genericità della doglianza, che non si fa carico
della specificazione dei parametri di quantificazione; sottolinea la

eccepisce il difetto di autosufficienza e la non specificità dei motivi di
impugnazione; nega un diritto dei danneggianti di riparare in forma
specifica il danno, visto che fino ad ora non avevano adempiuto il
correlativo dovere, ciò che comporta la legittimità della condanna al
risarcimento per equivalente.
§ 9.3. Il motivo è fondato, sia pure per quanto di ragione e per di
più in applicazione anche ufficiosa della normativa sopravvenuta
ricostruita sopra al § 2.
Già può dirsi che la qui gravata sentenza erra senz’altro nel non
applicare la normativa sopravvenuta anche soltanto al momento in cui
essa è stata resa, cioè la novella del 2009, pure applicabile – benché
sopravvenuta – in forza di specifica disposizione alla specie; e tanto
basterebbe di per sé a condurre alla cassazione, sul punto, della
pronunzia stessa.
Ma non può essere dubbio che, nonostante le parti abbiano del
tutto ignorato tali ulteriori sviluppi, incomba a questa Corte l’applicazione
della novella anche al di là di quanto sul punto abbiano dedotto le parti,
che non pare abbiano preso in considerazione le complesse vicende
legislative anche successive al 2009: da un lato, perché la norma è chiara
nell’imporre quell’applicazione dei nuovi criteri risarcitori anche ai giudizi
in corso, dall’altro, perché solo in tal modo si eviterebbe la responsabilità
dello Stato, membro dell’Unione ed unitariamente considerato e quindi
anche quale Stato in persona dei suoi giudici di ultima istanza (per tutte,
Corte Giust. CE 30 settembre 2003, in C-224/01, Kobler, ovvero 13
giugno 2006, in C-173/03, Traghetti del Mediterraneo; per la
giurisprudenza di questa Corte v. pure, tra le ultime, Cass., ord. 29
gennaio 2015, n. 1575, ove altri riferimenti), per la violazione concreta
della disciplina comunitaria – o, ora, eurounitaria – recata da un

rg 22962-11 – ud. 17.2.15- est. cons. F. De Stefano

acte
19

correttezza del criterio dei costi della riqualificazione ambientale;

claire,

quale certamente deve qualificarsi la normativa in materia

ambientale, alla stregua della duplice procedura di infrazione avviata nei
confronti della Repubblica italiana proprio per la mancata applicazione di
quei principi generalissimi, tra cui quelli in terna di esclusione del
risarcimento per equivalente.
§ 9.4. Pertanto, la gravata sentenza deve essere cassata e rinviata
alla stessa corte territoriale, affinché essa operi – ormai in base

ulteriori sviluppi, ove fossero anch’essi definiti applicabili ai giudizi
pendenti) – quelle previe valutazioni in fatto sull’individuazione delle
misure di riparazione complementare e compensativa e sulla valutazione
monetaria delle medesime, curando che le valutazioni della consulenza
tecnica di ufficio già a suo tempo espletata, in conformità peraltro a
disciplina superata dall’evoluzione normativa, contemplino espressamente
gli effetti dell’applicazione delle nuove disposizioni. E tanto in applicazione
del seguente principio di diritto:

il giudice della domanda di

risarcimento del danno ambientale ancora pendente alla data di
entrata in vigore della I. 6 agosto 2013, n. 97, essendo ormai
esclusa la liquidazione per equivalente di quello, può ancora
conoscere della domanda in applicazione del nuovo testo dell’art.
31.1 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, come modificato prima
dall’art. 5-bis, comma 1, lett. b), del d.l. 135/09 cit. e poi dall’art.
25 della 1. 97/13 cit., individuando le misure di riparazione
primaria, complementare e compensativa e, per il caso di omessa
o imperfetta loro esecuzione, determinandone il costo, da rendere
oggetto di condanna nei confronti dei soggetti obbligati.
§ 10. – Coi tre successivi motivi i ricorrenti si dolgono della
quantificazione del valore del materiale asportato.
§ 10.1. In particolare:
– col settimo motivo, stigmatizzano una “omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione della sentenza su un fatto controverso e
decisivo per il giudizio

ex

art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.: e

specificamente con riguardo alla parte in cui la medesima pronuncia ha
provveduto alla quantificazione del danno tenuto conto del valore dei
lavori necessari al ripristino dei luoghi con riguardo ai materiali asportati
oltre il limite di profondità di metri 30”; al riguardo, essi contestano

rg 22962-11 – ud. 17.2.15 – est. cons. F. De Stefano

20

all’ulteriormente sopravvenuta normativa del 2013 (e salvi beninteso

l’interpretazione prescelta dai giudici dei merito – nonostante la
prospettazione di un’alternativa da parte dello stesso c.t.u. – delle
prescrizioni amministrative, sulla profondità degli scavi da ritenere
illegittimi e quindi sul volume del materiale ritenuto illegittimamente
asportato.
– con l’ottavo motivo, denunziano una “omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione della sentenza su un fatto decisivo e

ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.; e

specificatamente con riguardo alla parte in cui la medesima ha
provveduto alla quantificazione del danno tenuto conto del valore dei
lavori necessari al ripristino dei luoghi con riguardo ai materiali asportati
oltre la c.d. fascia di 150 metri dalla sponda del fiume Po”; al riguardo,
contestando i punti di partenza e le metodologie di calcolo adoperate dal
c.t.u., in quanto affette da un sensibile margine di errore, puntualmente
evidenziato dal loro c.t.p., nonché dalla mancata considerazione dei danni
della sopravvenuta alluvione dell’ottobre 2000 e dei lavori di ripristino già
quasi del tutto ultimati fino a quel momento;
– con il nono motivo, si dolgono di “omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione della sentenza su un fatto controverso e
decisivo per il giudizio

ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.; e

specificamente con riguardo alla parte in cui la medesima ha provveduto
alla quantificazione del danno tenuto conto del valore dei materiali
illegittimamente asportati e non ripristinati”: al riguardo lamentando
l’inattendibilità delle conclusioni della consulenza tecnica di ufficio
nell’individuazione del valore, siccome priva della detrazione dell’utile
d’impresa e dei costi di estrazione.
§

10.2.

Dal

canto

suo,

il

controricorrente

eccepisce

preliminarmente l’inammissibilità dei rilievi, perché involgenti
contestazioni di fatto e contrari alle risultanze di una completa, accurata
ed esaustiva consulenza di ufficio; contesta la sussistenza di prova del
fatto che le profondità superiori ai trenta metri dal piano di campagna si
riferissero ad escavazioni precedenti agli atti autorizzativi del 1994 o ad
aree coperte da precedenti atti autorizzativi; condivide le motivazioni
della corte pure in punto di individuazione della linea di sponda quale
punto di partenza della distanza di 150 metri per valutare la legittimità
dell’attività estrattiva; ed a lungo ripercorre, in tutto condividendola, la

rg 22962-11 – ud. 17.2.15 – est. cons. E. De Stefano

21

controverso per il giudizio

ricostruzione del valore del materiale asportato operato dal consulente di
ufficio.
§ 10.3. I motivi sono assorbiti dall’accoglimento del sesto.
La valutazione monetaria delle misure indispensabili alla
riparazione secondo quanto indicato al precedente § 9 andrà comunque
nuovamente effettuata dalla corte territoriale, alla stregua dei criteri
indicati dall’art. 311 del codice dell’ambiente, verosimilmente – ma non
necessariamente, ove la corte disponga già di altri elementi di fatto –

attraverso idonea e nuova consulenza tecnica di ufficio.
§ 11. – Infine, i ricorrenti, col decimo ed ultimo motivo, lamentano
“violazione e falsa applicazione dell’art. 18 lege n. 449 del 1986 con
riferimento al risarcimento del danno ambientale ed in relazione all’art.
360, comma 1, n. 3 c.p.c.”.
§ 11.1. In particolare, essi – pur ribadendo quanto argomentato
con il quinto motivo e cioè la prevalenza della normativa sopravvenuta contestano l’applicazione pure in concreto operata dei criteri di cui all’art.
18 legge n. 349/86, per la controvertibilità della determinazione della
quantità e del valore del materiale illegittimamente asportato e non
ripristinato (anche per l’impossibilità di corretta individuazione dell’utile di
impresa e del costo di estrazione, che il c.t.u. non era riuscito a
quantificare): ed invocando la rinnovazione della consulenza o anche solo
della valutazione, visto che, applicando correttamente il criterio
equitativo e per di più tenendo in adeguato conto la tenuità della colpa
della società (resa evidente dall’acquisizione di un parere pro ventate a
sostegno della bontà delle tesi interpretative delle autorizzazioni poi
applicate), certamente si sarebbe pervenuti ad un totale inferiore.
§ 11.2. Il controricorrente eccepisce la novità della questione in
questa sede e l’inammissibilità della rivalutazione del fatto che essa
coinvolge, come pure l’inconferenza della doglianza rispetto all’oggetto
della controversia, che non si estende al costo del materiale asportato;
ma si diffonde poi sull’irrilevanza del profitto di impresa ai fini di riduzione
del risarcimento, nonché sull’evidenza della colpa, per l’insostenibilità
delle tesi applicate da controparte, come stigmatizzato da una nota della
competente Regione e dal Consiglio di Stato.
§ 11.3. Il motivo è inammissibile: in violazione dei principi ricordati
sopra ai §§ 3.1 e 3.2, i ricorrenti non indicano analiticamente in ricorso,

rg 22962-11 – ud. 17.2.15 – est. cons. F. De Stefano

22

m

né tanto meno li trascrivono, le sedi processuali in cui avrebbero
b. sottoposto specificamente le questioni relative ai giudici del merito.
Pertanto, è impossibile per questa corte valutare il merito della doglianza,
anche nell’impossibilità di escluderne la novità in questa sede.
§ 12. – In definitiva, accolto il sesto motivo di ricorso e dichiarati
inammissibili (il primo, il quarto e il decimo) o rigettati (il secondo, il
terzo e il quinto) o assorbiti (il settimo, l’ottavo e il nono) gli altri, la

alla medesima corte territoriale, ma in diversa composizione, anche per le
spese del giudizio di legittimità, affinché proceda – definitivamente
accertata la responsabilità dei convenuti – ad adeguare l’eventuale
condanna risarcitoria al principio di diritto espresso sopra, al § 9.4.
P. Q. M.

La Corte accoglie il sesto motivo di ricorso, dichiarati inammissibili o
rigettati o assorbiti gli altri; cassa la gravata condanna in relazione alle
censure accolte e rinvia alla corte di appello di Torino, in diversa
composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consi lio della terza sezione
civile della Corte suprema di cassazione, addì 17 f bbraio 2015.

gravata sentenza va cassata in relazione alla censura accolta, con rinvio

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