Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9012 del 06/05/2015


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Civile Sent. Sez. 3 Num. 9012 Anno 2015
Presidente: BERRUTI GIUSEPPE MARIA
Relatore: DE STEFANO FRANCO

PU

SENTENZA

sul ricorso 22958-2011 proposto da:
PEYLA PIETRO STEFANO PYLPRS46H17B791T, NUOVE CAVE
TORINO SRL 02712920012, in persona
dell’Amministratore Unico e legale rappresentante pro
tempore sig. PIETRO STEFANO PEYLA, NOVARESIO PIER
GIORGIO NVRPGR52B28E661B, elettivamente domiciliati
st,

2015
427

in ROMA, VIA DEI MONTI PARIOLI 48, presso lo studio
dell’avvocato ULISSE COREA, che li rappresenta e
difende unitamente all’avvocato ANTONIO TIGANI SAVA
giusta procura a margine del ricorso;

ricorrenti

Data pubblicazione: 06/05/2015

contro

ENTE GESTIONE SISTEMA AREE PROTETTE FASCIA FLUVIALE
PO TRATTO TORINESE 06398410016, in persona del
Presidente in carica, PIERGIORGIO BEVIONE,
elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GLORIOSO 13,

rappresentata

e

difesa

dall’avvocato

VINCENZO

ENRICHENS giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 236/2010 della CORTE D’APPELLO
di TORINO, depositata il 17/02/2011 R.G.N. 573/10;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 17/02/2015 dal Consigliere Dott. FRANCO
DE STEFANO;
udito l’Avvocato ULISSE COREA;
udito l’Avvocato ANTONIO TIGANI SAVA;
udito l’Avvocato VINCENZO ENRICHENS;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIUSEPPE CORASANITI che ha concluso
per il rigetto del ricorso.

2

presso lo studio dell’avvocato LIVIO BUSSA,

Svolgimento del processo
.,

§ 1.

L’Ente di Gestione del Sistema delle Aree Protette della Fascia

Fluviale del Po – Tratto Torinese convenne in giudizio – con citazione
, notificata fino al 21.2.05 – dinanzi al tribunale di Torino – sez. dist. di
Moncalieri la società Nuove Cave Torino srl ed i suoi amministratore unico
e direttore dei lavori, Pietro Stefano Peyla e Pier Giorgio Novaresio, per
conseguirne condanna al risarcimento di tutti i danni – patrimoniali,
extrapatrimoniali ed ambientali, quantificandoli in € 3.497.000 – arrecati,

in loc. La Gorra del Comune di Carignan° (T0), ponendo in essere per
diversi anni attività estrattiva in violazione delle autorizzazioni concesse e
non avendo essi, conclusisi i procedimenti penali per gli stessi fatti nel
2003 con sentenza di patteggiamento, dato corso alle opere di ripristino
loro ingiunti dalla procura della Repubblica.
T convenuti contestarono la domanda, la quale però, espletata
consulenza tecnica di ufficio, fu in parte accolta dal tribunale, con
sentenza n. 274 del 13.10.09, che condannò i convenuti a pagare €
1.535.539,57 (oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali sulla
somma di anno in anno rivalutata dal 30.9.08, data di deposito della
c.t.u., al deposito della sentenza ed oltre soli interessi legali dalla
sentenza al saldo), corrispondenti ai lavori di riqualificazione ambientale
indicati e quantificati nell’ammontare calcolato dal c.t.u., ad esclusione
dei materiale, in quanto richiesto dal Comune di Carignano in separato
giudizio, concluso con coeva sentenza n. 272/09 del medesimo ufficio
giudiziario.
I soccombenti interposero appello, che però la corte territoriale
respinse con sentenza n. 236, dep. il 17.2.11: per la cui cassazione
ricorrono ora la Nuove Cave Torino srl, Pietro Stefano Peyla e Pier Giorgio
c
..

Novaresio, affidandosi ad otto motivi; resiste con controricorso l’Ente di
Gestione del Sistema delle Aree Protette della Fascia Fluviale del Po tratto torinese; e, per la pubblica udienza del 17.2.15, entrambe le parti
depositano memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.
Motivi della decisione
§ 2. – La controversia coinvolge la problematica del danno
ambientale, la cui disciplina nazionale è stata di recente ulteriormente
modificata e definitivamente armonizzata con quella eurounitaria – o
comunitaria od europea – con il recepimento organico dei relativi principi.

rg 22958-11 – ud. 17.2.15 – est. cons. F. De Stefano

3

m

In particolare, la materia, originariamente disciplinata dalla legge 8 luglio
,

1986, n. 349,è stata profondamente innovata dal d.lgs. 3 aprile 2006, n.
152; ed ha subito evoluzioni normative sensibili, anche a causa di un

, duplice avvio a carico della Repubblica italiana, da parte della
Commissione dell’Unione Europea, di procedure di infrazione alla direttiva
2004/35/CE.
§ 2.1. In estrema sintesi ed in termini assolutamente sommari, basti

– che il principio generale, di derivazione eurounitaria, è l’esigenza di
porre rimedio alle alterazioni ed ai danni della risorsa “ambiente”
esclusivamente mediante il recupero della stessa, in relazione alla sua
peculiarità, quale contesto generale di quotidiana estrinsecazione
esistenziale di una massa tendenzialmente indeterminata di individui: ciò
che orienta quel recupero in direzione non soltanto – e perfino neppure
necessariamente – del ripristino della situazione antecedente, ma anche
della riconsiderazione complessiva dei numerosi e differenziati interessi generali e particolari, mai soltanto economici o patrimoniali in senso
stretto – coinvolti, facenti capo ad una collettività potenzialmente
indeterminabile ex ante e coinvolgenti valutazioni complesse;
– che tale principio generale comporta la riserva allo Stato, quale
Ente esponenziale al massimo livello sul territorio, dell’esclusiva potestà
di agire, sia in via preventiva che repressiva (o, meglio, recuperatoria), in
considerazione appunto della potenziale incommensurabilità del danno e
delle difficoltà di determinazione ed esecuzione delle opere per il recupero
della risorsa violata; sicché il bene ambiente, secondo il concetto
peculiare elaborato in materia, può essere tutelato solo dallo Stato,
benché debba restare impregiudicata la legittimazione di titolari di diritti
,.
,

diversi da quello all’integrità ambientale, i quali risultino separatamente
danneggiati dall’unica condotta plurioffensiva che ha inciso su quella
risorsa, ad agire per il risarcimento di quegli ulteriori danni;
– che, per avvicinare, in via di grande approssimazione, tale
soluzione ai principi generali del nostro ordinamento, può sintetizzarsi
che è imposta comunque la riparazione in forma specifica e, per di più,
attraverso lo strumento di quello che può definirsi un’esecuzione in danno
dell’obbligato, da parte del soggetto pubblico e successiva rivalsa nei
confronti del danneggiante.

rg 22958-11 – ud. 17.2.15 – est. cons. F. De Stefano

4

in questa sede acquisire quale dato fermo:

§ 2.2. In questo contesto eurounitario, peraltro, in Italia:

– il suddetto cl.igs. 152/2006 ha regolato l’intera materia ambientale
(abrogando numerose leggi precedenti) e statuendo – soltanto – la

, priorità delle misure di “riparazione” rispetto al risarcimento per
equivalente pecuniario, quale conseguenza dell’assoluta peculiarità del
danno al bene o risorsa “ambiente”;
– il successivo d.l. 25 settembre 2009, n. 135, convertito con modif.

166/2009 – per neutralizzare la prima contestazione della UE del 2008 precisato (con normativa applicabile anche ai giudizi in corso in luogo
dell’art. 18 della previgente L. 349/86, salva la sola formazione del
giudicato) che il danno all’ambiente deve essere risarcito con le misure di
riparazione “primaria”, “complementare” e “compensativa” previste dalla
Direttiva 2004/35/CE: prevedendo un eventuale risarcimento per
equivalente pecuniario esclusivamente se le misure di riparazione del
danno all’ambiente fossero state in tutto o in parte omesse, impossibili o
eccessivamente onerose o fossero state attuate in modo incompleto o
difforme rispetto a quelle prescritte;
– e tuttavia l’art. 25 della c.d. Legge Europea 2013 (L. 6 agosto
2013, n. 97) – per neutralizzare l’ulteriore contestazione della
Commissione europea del 2012 – ha ulteriormente risistemato la materia,
definitivamente eliminando ogni riferimento al risarcimento “per
equivalente patrimoniale” e stabilendo che il danno all’ambiente deve
essere risarcito solo con le “misure di riparazione” previste dall’allegato 3
del d.lgs. 152/2006 (che è identico all’Allegato II della Direttiva
2004/35/CE);
– sicché, ad oggi e con disposizione applicabile anche ai processi in
,

corso, il danno ambientale non può in nessun caso essere risarcito “per
equivalente” pecuniario, ma solo con le misure di riparazione e con i
criteri enunciati negli allegati 3 e 4 al d.lgs. 152/06, come modificato;
– e, tuttavia, lo stesso art. 311 d.lgs. 152/06, come da ultimo
modificato, prevede al co. 3 che, sia pure solo quando l’adozione delle
misure di riparazione anzidette risulti in tutto o in parte omessa, o
comunque realizzata in modo incompleto o difforme dai termini e
modalità prescritti, il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e
del mare determina i costi delle attività necessarie a conseguirne la

rg 22958-11 – ud. 172.15 – est. cons. F. De Stefano

5

dalla 1. 20 novembre 2009, n. 166, ha poi, con il suo art. 5-bis L.

completa e corretta attuazione e agisce nei confronti del soggetto
obbligato per ottenere il pagamento delle somme corrispondenti.
5 2.3. Questa Corte, ma – significativamente – in tempo anteriore
all’ultima novella del 2013, ha già avuto modo di statuire che la domanda
di risarcimento del danno ambientale ancora pendente alla data di
entrata in vigore della legge 20 novembre 2009, n. 166 è assoggettata,
in ordine alla liquidazione del danno, ai criteri specifici risultanti dal nuovo

modificato dall’art. 5-bis, comma 1, lett. b), del di. 25 settembre 2009,
n. 135, convertito con modificazioni nella citata legge n. 166 del 2009,
individuandosi tali criteri direttamente nelle previsioni dei punti 1, 2 e 3,
dell’Allegato II alla Direttiva 2004/35/CE e, solo eventualmente, ove sia
stato nelle more emanato, in quelle contenute nel d.m. previsto
nell’ultimo periodo dell’art. 311, comma 3 del d.lgs. n. 152 del 2006
citato (Cass. 22 marzo 2011, n. 6551; sul punto confermata da Cass. 27
agosto 2014, n. 18352; solo in parte – relativamente cioè ai criteri di
imputazione della responsabilità, ma non pure a quelli di liquidazione del
danno – difforme risultando Cass. 7 marzo 2013, n. 5705).
Deve ora prendersi atto dell’ulteriore innovazione legislativa,
applicabile, per espressa previsione normativa, anche ai giudizi in corso;
infatti, ai sensi dell’art. 311, comma terzo, terz’ultimo periodo, come
modificato dall’ultimo intervento legislativo, i criteri e metodi appena
codificati – cioè pure di valutazione monetaria per determinare la portata
delle misure di riparazione complementare e compensativa – trovano
applicazione anche ai giudizi pendenti non ancora definiti con sentenza
passata in giudicato alla data di entrata in vigore del decreto di cui al
periodo precedente.
Secondo tale ultima novella:
– ai sensi del comma 2 dell’art. 311, vanno determinati i costi delle
attività necessarie a conseguire la corretta e completa attuazione delle
misure di riparazione di cui all’allegato 3 alla parte sesta del cligs.
152/06, quando il danno sia stato cagionato da operatori le cui attività
sono elencate nell’allegato 5 alla medesima parte sesta; e, solo per il
caso in cui l’adozione delle misure di riparazione anzidette risulti in tutto
o in parte omessa, o comunque realizzata in modo incompleto o difforme
dai termini e modalità prescritti, vanno determinati i costi delle attività

rg 22958-11 – ud. 17.2.15 – est. cons. F. De Stefano

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testo dell’art. 311, commi 2 e 3, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, come

necessarie a conseguirne la completa e corretta attuazione e si agisce nei
confronti del soggetto obbligato per ottenere il pagamento delle somme
corrispondenti;
– ai sensi del comma 3 del medesimo art. 311, poi, vanno
individuate le misure di riparazione da adottare con provvedimento
relativo al caso di specie, mentre con decreto ministeriale vanno stabiliti
(in conformità a quanto previsto dall’allegato 3, punto 1.2.3, alla

delle misure di riparazione complementare e compensativa e per la loro
valutazione monetaria.
§ 2.4. La nuova disciplina va poi combinata al principio generale
dell’art. 5 cod. proc. civ. in materia di perpetuati° iurisdictionis e quindi
alla persistenza della giurisdizione del giudice ordinario civile, sicché sarà
quest’ultimo, investito della domanda di risarcimento per equivalente del
danno ambientale, ad applicare, per provvedere sulla stessa, quei criteri
e metodi e ad individuare le misure di riparazione primaria,
complementare e compensativa e, per il caso di omessa o imperfetta loro
esecuzione, a determinare il costo delle medesime da rendere oggetto di
condanna nei confronti dei soggetti obbligati.
In applicazione di principi altrettanto generali di diritto processuale,
analogamente proseguono i giudizi iniziati in epoca anteriore alla prima di
dette novelle legislative – e quindi prima del d.lgs. 152/06 – da soggetti
diversi da quello in capo al quale è ora riconosciuta in via esclusiva la
legittimazione: e correttamente saranno esaminate e decise le loro
domande, ove gli originari attori vi insistano, ma all’indispensabile
condizione dell’armonizzazione di quelle e delle eventuali condanne coi
principi suddetti, in modo che quegli attori non conseguano risultati ormai
vietati dal mutato assetto ordina mentale.
§ 3. – Tutto ciò posto, giovano alcune puntualizzazioni preliminari.
§ 3.1. Va ricordata la necessità che, per consentire a questa Corte di
legittimità di prendere cognizione delle doglianze ad essa sottoposte, nel
ricorso si rinvengano sia l’indicazione della sede processuale di
produzione dei documenti o di adduzione delle tesi, sia la trascrizione dei
primi e dei passaggi argomentativi sulle seconde (tra le innumerevoli, v.:
Cass., ord. 16 marzo 2012, n. 4220; Cass. 1 febbraio 1995, n. 1161;
Cass. 12 giugno 2002, n. 8388; Cass. 21 ottobre 2003, n. 15751; Cass.

rg 22958-11 – ud. 17.2.15 – est. cons. F. De Stefano

7

medesima parte sesta del d.igs. 152/06) i criteri per la determinazione

24 marzo 2006, n. 6679; Cass. 17 maggio 2006, n. 11501; Cass. 31
maggio 2006, n. 12984; Cass., ord. 30 luglio 2010, n. 17915, resa anche
ai sensi dell’art. 360-bis, n. 1, cod. proc. civ.; Cass. 31 luglio 2012, n.
13677; tra le più recenti, per limitarsi ad alcune: Cass. 11 febbraio 2014,
nn. 3018, 3026 e 3038; Cass. 7 febbraio 2014, nn. 2823 e 2865 e ord. n.
2793; Cass. 6 febbraio 2014, n. 2712, anche per gli

errores in

procedendo; Cass. 5 febbraio 2014, n. 2608; 3 febbraio 2014, nn. 2274 e

giurisprudenza delle Sezioni Unite (Cass. 22 maggio 2012, n. 8077)
muove in direzione opposta, lasciando ampio spazio alla riaffermazione del resto e come visto, effettivamente operata – del principio nella sua
tradizionale accezione, del quale il nuovo art. 366, comma primo, n. 6),
cod. proc. civ. costituisce la codificazione (per tutte, v. ad es. Cass., od.
25 marzo 2013, n. 7455): quella pronuncia a Sezioni Unite riferendosi ai
diverso vizio di nullità del procedimento (o della sentenza) ed esigendo
pur sempre che la doglianza sia stata proposta dal ricorrente in
conformità alle regole del codice di rito (artt. 366, comma primo, n. 6 e
369, comma secondo, n. 4, cod. proc. civ.).
§ 3.2. – Ancora, il ricorrente che proponga in sede di legittimità una
determinata questione giuridica, la quale implichi accertamenti di fatto,
ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità
della censura, non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione
dinanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del
giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare

ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la
questione stessa (per l’ipotesi di questione non esaminata dal giudice del
merito: Cass. 2 aprile 2004, n. 6542; Cass. 10 maggio 2005, n. 9765;
Cass. 12 luglio 2005, n. 14599; Cass. 11 gennaio 2006, n. 230; Cass. 20
ottobre 2006, n. 22540; Cass. 27 maggio 2010, n. 12992; Cass. 25
maggio 2011, n. 11471; Cass. 11 maggio 2012, n. 7295; Cass. 5 giugno
2012, n. 8992; Cass. 22 gennaio 2013, n. 1435).
§ 3.3. Ancora, va dato atto della mancata impugnazione, nella
presente specifica sede, dell’affermazione della sussistenza della
legittimazione dell’Ente di Gestione del Sistema delle aree protette della
fascia fluviale del Po – tratto torinese.

8
rg 22958-11 – ud. 172.15 – est. cons. F. De Stefano

2276; Cass. 30 gennaio 2014, n. 2072); del resto, neppure la

Vanno ora esaminati partitamente i motivi di doglianza dei
,

ricorrenti.
§ 4. – I ricorrenti si dolgono, col primo motivo, di “violazione e falsa

• applicazione dell’art. 18 legge n. 349/86 e dell’art. 2043 c.c. in relazione
all’art. 360, cornma 1, n. 3 c.p.c.. Insufficiente motivazione della
sentenza su fatti controversi e decisivi per il giudizio ex art. 360, comma
1, n. 5 c.p.c.”.

essersi basata esclusivamente, per affermare la loro responsabilità, sulla
sentenza di patteggiamento, anziché procedere ad autonomi
accertamenti in punto di sussistenza di danno all’ambiente, di condotta
antigiuridica da parte di ognuno dei convenuti, di commissione del fatto
con dolo o colpa e di nesso di causalità fra condotta illecita e danno. E
negano rilevanza al richiamo, quali elementi ulteriori, alla consulenza
redatta per il pubblico ministero od alla documentazione a firma del
legale rappresentante della società, riguardante i mai attuati lavori di
ripristino, stigmatizzandone l’assoluta genericità.
§ 4.2. Il controricorrente, oltre ad eccepire l’inammissibilità del
motivo perché non sarebbero specificati i fatti controversi e decisivi per il
giudizio, rimarca la valenza di elemento di prova anche in via esclusiva
riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità alla sentenza di c.d.
patteggiamento, conclusione da applicarsi con maggiore tranquillità alla
fattispecie, perché seguita all’esito dell’intero percorso dibattimentale, nel
cui corso erano state acquisite prove documentali e testimoniali ed
espletata una consulenza tecnica di ufficio, nel pieno contraddittorio pure
delle odierne parti; e ricorda gli elementi probatori ivi raccolti,
pienamente utilizzabili anche nel presente diverso giudizio civile, a
,

comprova delle numerose e reiterate attività illecite ed abusive poste in
essere dalle controparti.
§ 4.3. Il motivo è infondato.
È ben vero che la sentenza di patteggiamento è generalmente intesa
dai processualcivilisti come priva dell’efficacia diretta, nel processo civile,
propria di una sentenza di condanna (disciplinata dall’art. 651 cod. proc.
pen.).
Ciononostante, anche in quest’ambito la sentenza di patteggiamento
comunque assurge al rango di importante elemento di prova (sia pur non

rg 22958-11 – ud. 17.2.15 – est. cons. F. De Stefano

9

§ 4.1. In particolare, essi addebitano alla gravata sentenza di

esclusivo o decisivo ex se: Cass. 27 settembre 2013, n. 22213; Cass. 19
gennaio 2011, n. 1141), sull’esclusione della cui rilevanza il giudice civile
deve pur sempre motivare espressamente (Cass., ord. 6 dicembre 2011,
n. 26263, con principio affermato ai sensi dell’art. 360-bis cod. proc. civ.,
n. 1 – seguita già da Cass. 18 aprile 2013, n. 9456 – o Cass. 7 novembre
2011, n. 23025; v. pure Cass. 31 ottobre 2014, n. 23158).
Può tralasciarsi il profilo di ammissione di responsabilità insita nella

remota oggi la giurisprudenza penale di questa Corte regolatrice (tra le
numerose più recenti: Cass. sez. 2 pen., 5-10 giugno 2014, n. 24308;
Cass. sez. 2 pen., 13 – 26 maggio 2014, n. 21231; Cass. sez. 2 pen., 14
febbraio – 2 marzo 2014, n. 10090; via via fino alle più remote: Cass.
sez. 5 pen., 20 – 29 settembre 1999, n. 4117; Cass. sez. 1 pen., 3
novembre 1995, Nulli; Cass. sez. 3 pen., 26 giugno 1995, Donazzolo;
Cass. sez. 1 pen., 13 maggio 1994, Dellegrottaglie), ma praticamente
raggiunta – con espressioni marcate nella materia disciplinare e forti di
una specifica previsione normativa, ma in base a principi di portata così
generale da assurgere a fondamento di una generalizzazione della
conclusione – dalla giurisprudenza civile di questa Corte, sia pure senza
alcun automatismo (in quanto sempre liberamente apprezzabile dal
giudice civile: Cass. 6 dicembre 2011, n. 26520) e se non altro per
implicito (Cass. Sez. Un., 20 settembre 2013, n. 21591; Cass. Sez. Un.,
31 luglio 2006, n. 17289) o fino a prova contraria (Cass. 3 dicembre
2013, n. 27071; Cass. 18 febbraio 2011, n. 4060; Cass., ord. 12 febbraio
2011, n. 3560).
Infatti, nella specie il giudice di appello ha fatto riferimento non alla
sola sentenza di patteggiamento, ma pure ad alcuni specifici atti del
procedimento penale, tra cui la consulenza redatta per il pubblico
ministero ed i documenti a firma del legale rappresentante della società
in ordine ai “mai attuati interventi di ripristino”: e tali riferimenti, operati
a materiale istruttorio ritualmente acquisito agli atti di causa e nel
rispetto del contraddittorio, sono pienamente idonei a porre i condannati
in grado di confutarli analiticamente, non essendo pretesa dal giudice la
specifica indicazione di ognuno degli elementi istruttori presi in
considerazione.

rg 22958-11 – ud. 17.2.15 – est. cons. F. De Stefano

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stessa richiesta di patteggiamento, conclusione dalla quale sembra meno

§ 5. – Ancora, i ricorrenti, col secondo motivo, lamentano
“violazione e falsa applicazione dell’art. 18 legge n. 349/86 e dell’art.
2043 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.. Insufficiente
motivazione della sentenza su un fatto controverso e decisivo per il
giudizio e specificamente col riguardo alla parte in cui la medesima
pronuncia ha stabilito la condanna degli appellanti (attuali ricorrenti) al
risarcimento in solido per l’intero danno ambientale, ex art. 360, comma

§ 5.1. In particolare, essi contestano il carattere solidale della
condanna pronunziata nei loro confronti e la mancanza di un previo
accertamento delle precise e singole responsabilità e colpe individuali, in
violazione dell’art. 18 – commi 6 e 7 – della legge n. 349/86 e del
principio da esso introdotto, di deroga alla regola generale dell’art. 2055
cod. civ.; e censurano la conclusione dei giudici di merito sulla non
separabilità delle responsabilità dei convenuti e sulla cooperazione di tutti
nella determinazione della totalità del danno, per rimarcare l’esclusiva
ascrivibilità di quello alla società, anziché al suo amministratore unico ed
al direttore dei lavori, oltretutto incaricati di funzioni diverse, il cui
peculiare apporto causale avrebbe dovuto essere specificamente e
separatamente valutato.
§ 5.2. Il controricorrente eccepisce l’inammissibilità del tentativo di
rivalutare i fatti, che il mezzo di censura comporterebbe; ma nega
comunque la sussistenza della solidarietà ed evidenzia la già accertata
responsabilità di tutti i convenuti per gli illeciti loro ascritti, nonché la
correttezza della riconduzione della responsabilità delle singole persone
fisiche al ruolo da esse svolto nell’attività della società; e circoscrive la
portata dell’art. 18 legge n. 349/86 al piano dell’individuazione dei
soggetti tenuti al risarcimento (in particolare, escludendosi ipotesi di
responsabilità oggettiva), ma non anche su quello della quantificazione
dei risarcimento dovuto dai singoli soggetti individuati come responsabili.
§ 5.3. Il motivo è infondato.
È ben vero che “nei casi di concorso nello stesso evento di danno,
ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale”
(principio posto dall’art. 18 legge 349/86 e poi ribadito dall’art. 311, co.
3, penultimo periodo, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, anche nel testo
modificato – da ultimo – dall’art. 25 della I. 6 agosto 2013, n. 97).

rg 22958-11 – ud. 17215- est. cons. F. De Stefano

11

1, n. 5 c.p.c.”.

Tuttavia, la conseguente esclusione dell’operatività dell’art. 2055
cod. civ. deve avvenire con cautela, quello integrando un principio
generale in tema di responsabilità extracontrattuale e rispondendo ad
esigenze di tutela immediata ed effettiva del danneggiato.
E indubbio che tale esclusione di operatività mira ad evitare il rischio
di una sorta di responsabilità oggettiva o per fatto altrui ed in particolare
quello di ascrivere ad ogni compartecipe anche per un modesto segmento

responsabilità per l’ingentissimo danno che ne è derivato, anche quanto
alle specifiche conseguenze non prevedibili o perfino non controllabili
perché da ascriversi alla condotta indipendente di altri: si pensi al caso di
danneggiamenti ambientali di contesti complessi, determinati da condotte
tra loro del tutto indipendenti (come, ad esempio, l’inquinamento di un
corso d’acqua da parte di diversi imprenditori trasgressori), nei quali è
parso opportuno che il risultato complessivo finale non fosse ripagato per
intero secondo la casualità del soggetto economicamente solvibile.
Se questa è la ratio della norma di limitazione della responsabilità,
essa non può operare pure nei casi di condotta unitaria, risultante dalla
combinazione, quale indispensabili antefatti causali tra loro avvinti da
inscindibili e reciproci nessi di consequenzialità, delle azioni colpose o
dolose concorrenti di più persone: alle quali ultime sia quella complessiva
condotta che quell’unitario danno allora andranno altrettanto
unitariamente ascritti, in persistente applicazione – o, se si vuole, in non
limitata applicazione o non estesa esclusione – della regola generale.
E la limitazione di responsabilità in esame va allora circoscritta ai
casi in cui le condotte causative dell’unitario evento di danno siano
differenti e tra loro indipendenti; al contrario, ove l’unitario evento di
danno sia causato non da una pluralità di condotte autonome od
indipendenti, ma da una altrettanto unitaria condotta colposa o dolosa,
però indissolubilmente ascrivibile a più soggetti tra loro
indifferenziatamente e quindi a condotte concorrenti in senso stretto, può
riprendere applicazione – o non soffrire la limitazione speciale suddetta la regola generale dell’art. 2055 cod. civ., che pone appunto in via
generalissima i criteri di imputazione degli effetti di una condotta
complessiva ed inscindibile nelle componenti delle azioni od omissioni di
più soggetti.
12
rg 22958-11 – ud. 17.2.15 – est. cons. F. De Stefano

di una delle condotte sfociate in un danno ambientale complessivo la

E tanto avviene nella specie, in cui l’attività estrattiva illegittima,
protratta nel tempo, è da ascriversi appunto alla società, quale centro di
imputazione della volontà di procedere a quelle attività, a chi – quale
legale rappresentante – in essa ne ha determinato e concretato le scelte
e a chi, ponendo in essere i lavori, ha materialmente reso possibile gli
episodi di depredazione della sponda del Po in cui l’illiceità dell’attività
estrattiva si è concretata.

la corte territoriale ha accertato che, nella causazione dell’unico evento di
danno, consistente nel danno ambientale da attività estrattiva eccedente
i limiti dell’autorizzazione in loc. La Gorra del Comune di Carignan°, il
concorso causale di ciascuno – società, suo legale rappresentante e
direttore dei lavori in cui materialmente si sono estrinsecate le attività di
estrazione – è stato di per sé idoneo a cagionare per l’intero il danno,
avendo tutti i soggetti operato per l’intero periodo in cui l’attività, pur se
riferibile in ultima analisi alla società di cui il Peyla era legale
rappresentante ed il Novaresio direttore dei lavori, è stata posta in essere
in dipendenza delle attività gestionali o materiali dell’uno e dell’altro.
E stata fatta, quindi, corretta applicazione del seguente principio di
diritto:

in materia di responsabilità per danno ambientale, la

regola (prevista dal penultimo periodo del terzo comma dell’art.
311 del digs. 3 aprile 2006, n. 152, nel testo modificato – da
ultimo – dall’art. 25 della I. 6 agosto 2013, n. 97) per la quale “nei
casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde
nei limiti della propria responsabilità personale”, mirando ad
evitare la responsabilità anche per fatti altrui, opera nei casi di
plurime condotte indipendenti e non anche in caso di azioni od
omissioni concorrenti in senso stretto alla concretizzazione di una
unitaria condotta di danneggiamento dell’ambiente, quando siano
tutte tra loro avvinte quali indispensabili antefatti causali di
questa: con la conseguenza che, in tale ultima ipotesi, non soffre
limitazione la regola generale dell’art. 2055 cod. civ. in tema di
responsabilità di ciascun coautore della condotta per l’intero
danno causato.
§ 6. – Inoltre, i ricorrenti, col terzo motivo, adducono “violazione e
falsa applicazione dell’art. 2943 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n.

rg 22958-11 – ud. 17.2.15 – est. cons. F. De Stefano

13

Infatti, con apprezzamento di fatto immune da vizi logici e giuridici

3 c.p.c.. Nullità della sentenza e del procedimento per infrazione degli
artt. 112, 167 e 345 c.p.c. ed in ragione del disposto di cui all’art. 360,
comma 1, n. 4 c.p.c.”.
§ 6.1. In particolare, essi negano potesse qualificarsi nuova
l’eccezione di prescrizione: invero, posto che – comunque – il convenuto
che eccepisca la prescrizione può limitarsi ad addurre il decorso del
tempo, in primo grado essi avevano dedotto che, nei cinque anni
precedenti l’inizio della causa, non vi erano state ulteriori attività illecite;

sicché, reputata dal primo giudice interrotta la prescrizione con la
costituzione di parte civile nel processo penale, le ulteriori
argomentazioni svolte in appello – in sostanza, la mancata valutazione
della maggiore ampiezza dei danni reclamati in sede civile rispetto a
quanto oggetto del procedimento penale – erano la contestazione degli
argomenti addotti per respingere l’eccezione e non una nuova eccezione.
§ 6.2. Il controricorrente contesta l’autosufficienza, sul punto, del
ricorso, non risultando da esso in base a quali elementi sostenere la
difformità dell’oggetto del presente giudizio civile rispetto a quello del
procedimento penale sui medesimi fatti; sul punto, rimarca comunque
invece sussistere la piena prova della coincidenza dei due oggetti;
eccepisce l’inammissibilità della sollecitazione di un nuovo accertamento
e valutazione dei fatti di causa; ricorda che nessuna reazione controparti
ebbero alla controeccezione di interruzione della prescrizione, sicché
sarebbe evidente la novità di tali nuovi argomenti, che introducevano un
nuovo thema decidendum, inammissibile in appello.
§ 6.3. Effettivamente è fondata l’eccezione di difetto di
autosufficienza del ricorso sul punto: non risulta, dal tenore testuale del
ricorso, la lamentata diversità dell’ambito o dell’oggetto del procedimento
penale rispetto a quello civile, mancando in esso la trascrizione degli atti
di parte o di causa – con la precisa indicazione della sede processuale di
produzione – da cui desumere tale diversità: pertanto, non essendo stato
rispettato il principio ricordato sopra al § 3.1, il motivo è inammissibile,
anche a prescindere da quanto si verrà a specificare in ordine al motivo
successivo.
§ 7. – Successivamente i ricorrenti, col quarto motivo, deducono
“violazione e falsa applicazione dell’art. 2943 c.c.. Insufficiente
motivazione della sentenza su un fatto controverso e decisivo per il

rg 22958-11 – ud. 17.2.15 – est. cons. F. De Stefano

14

I

giudizio e specificamente col riguardo alla parte in cui la medesima
pronuncia ha riconosciuto l’esistenza di danni verificatisi in epoca
antecedente alla scadenza del termine prescrizionale, come tali da
escludere dal computo del danno riconosciuto all’Ente di Gestione, ex art.
360, comma 1, n. 5 c.p.c.”.
§ 7.1. In particolare, i ricorrenti contestano la loro condanna al
risarcimento anche dei danni verificatisi antecedentemente alla scadenza
dies a quo la data di

notificazione della citazione in primo grado o, al più tardi, di costituzione
di parte civile; censurano la gravata sentenza per avere qualificato non
meglio spiegate le asserzioni di essi convenuti sulla maturata prescrizione
per i danni di alcuni degli illeciti, perché commessi prima del o a partire
dal 1994; e concludono per l’illegittimità nel computo dei danni del valore
dei lavori necessari al ripristino dei materiali asportati nel periodo
antecedente alla scadenza del termine prescrizionale
§ 7.2. Il controricorrente si duole della novità, in questa sede, di tale
argomento – e della questione sulla natura permanente o istantanea
dell’illecito – e comunque ricorda come la sentenza di primo grado avesse
ritenuto la condotta illecita non esaurita in una serie di singoli atti
autonomamente valutabili; eccepisce il difetto di autosufficienza del
ricorso al riguardo, del resto neppure individuando quali sarebbero gli
illeciti prescritti e quali quelli non prescritti; insiste per l’avvenuta
interruzione del termine prescrizionale in dipendenza della costituzione di
parte civile nel giudizio penale, avutasi il 9.4.01; ricorda poi come la
prescrizione, negli illeciti permanenti, cessi con la cessazione delle
condotte illecite, le quali, nella specie, sono state protratte ed unitarie;
nega, di conseguenza, la lamentata insufficienza, sul punto, della
motivazione.
§ 7.3. In disparte i dubbi sulla novità della doglianza in questa sede
(ciò che comporterebbe l’inammissibilità in applicazione dei principi
ricordati sopra al § 3.2), può rilevarsi che il motivo è comunque
infondato: trattandosi di illecito evidentemente permanente, attesa la
persistenza nel tempo della condotta – liberamente adottata ma sempre
reversibile, con spontanea tempestiva ottemperanza anche alle
ingiunzioni via via impartite – di mantenimento del sito ambientale in
condizioni di depredazione o diminuzione, la prescrizione avrebbe iniziato

rg22958-n.— ad. 17.2.15 — est. cons. F. De Stefano

15

del termine prescrizionale, individuando come

a decorrere soltanto da quando la situazione illegittima, consistente
nell’addotta alterazione dello stato dei luoghi, fosse stata rimossa (per un
caso almeno in parte analogo, v. Cass. 30 gennaio 1990, n. 594, oppure
Cass. 11 marzo 1980, n. 1624), oppure da quando fosse divenuta
impossibile per i soggetti danneggianti, ove avessero perso la libera
disponibilità del bene e, quindi, la possibilità di liberamente determinarsi
in ordine allo stesso (Cass. 23 dicembre 2011, n. 28652); ma in alcun

circostanza, uniche a fondare lo stesso inizio del decorso della
prescrizione.
Il motivo va quindi rigettato, in applicazione del seguente principio
di diritto: in materia di danno ambientale, la condotta antigiuridica

consiste nel mantenimento dell’ambiente nelle condizioni di
danneggiamento e pertanto il termine prescrizionale dell’azione
di risarcimento non inizia a decorrere se non da quando tali
condizioni sono state volontariamente eliminate dal danneggiante
o tale condotta è stata resa impossibile dalla perdita incolpevole
della disponibilità del bene da parte del danneggiante medesimo.
§ 8. – A questo punto, i ricorrenti, col quinto motivo, sostengono
“violazione e falsa applicazione dell’art. 303, lett. f) d.lgs. n. 152/2006 e
dell’art. 311, commi 2 e 3, d.lgs. n. 152/2006, nonché dei principi
dell’applicabilità dello

ius superveniens e dello iura novit curia,

in

relazione all’art. 360 all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.. Nullità della
sentenza e del procedimento per infrazione degli artt. 112, 167 e 345
c.p.c. ed in ragione del disposto di cui all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c.”.
§ 8.1. In particolare, i ricorrenti contestano la mancata applicazione
anche ai giudizi in corso, nonostante l’espressa previsione della necessità
di quella (di cui all’art. 5-bis d.l. n. 135/09, conv. con mod. in I. 166/09),
delle sopravvenute norme degli artt. 303 e 311 del d.lgs. 152/06 in
materia di ambiente, che hanno radicalmente riscritto i criteri di
determinazione del risarcimento, soprattutto in forma specifica; e negano
rilevanza al fatto di avere introdotto un tale tema di discussione solo in
comparsa conclusionale, attese le ampie modalità di rilievo dello

ius

superveniens; sottolineano la centralità del ripristino ambientale, di cui
finanche escludono l’impossibilità o l’eccessiva onerosità, confinando il
risarcimento per equivalente in via equitativa al rango di extrema ratio,

rg 22958-11 – od. 17.2.15 – est. cons. F. De Stefano

16

modo risulta che gli attuali ricorrenti abbiano fatto valere l’una o l’altra

oitretutto ancorato al valore monetario stimato delle risorse naturali e dei
servizi perduti ed ai parametri usati in casi simili o in materie analoghe
per la liquidazione del risarcimento per equivalente del danno ambientale
in sentenze passate in giudicato pronunciate in ambito nazionale e
comunitario; il tutto a fondamento della reiterata istanza di rinnovazione
della consulenza tecnica di ufficio.
§ 8.2. Il controricorrente, dal canto suo, rimarca la novità in grado

promulgata, nonché la genericità della doglianza, che non si fa carico
della specificazione dei parametri di quantificazione; sottolinea la
correttezza del criterio dei costi della riqualificazione ambientale;
eccepisce il difetto di autosufficienza e la non specificità dei motivi di
impugnazione; nega un diritto dei danneggianti di riparare in forma
specifica il danno, visto che fino ad ora non avevano adempiuto il
correlativo dovere, ciò che comporta la legittimità della condanna al
risarcimento per equivalente.
§ 8.3. Il motivo è fondato, sia pure per quanto di ragione e per di
più in applicazione anche ufficiosa della normativa sopravvenuta
ricostruita sopra al § 2.
Già può dirsi che la qui gravata sentenza erra senz’altro nel non
applicare la normativa sopravvenuta anche soltanto al momento in cui
essa è stata resa, cioè la novella del 2009, pure applicabile – benché
sopravvenuta – in forza di specifica disposizione alla specie; e tanto
basterebbe di per sé a condurre alla cassazione, sul punto, della
pronunzia stessa.
Ma non può éssere dubbio che, nonostante le parti abbiano del tutto
ignorato tali ulteriori sviluppi, incomba a questa Corte l’applicazione della
novella anche al di là di quanto sui punto abbiano dedotto le parti, che
non pare abbiano preso in considerazione le complesse vicende legislative
anche successive al 2009: da un lato, perché la norma è chiara
nell’imporre quell’applicazione dei nuovi criteri risarcitori anche ai giudizi
in corso, dall’altro, perché solo in tal modo si eviterebbe la responsabilità
dello Stato, membro dell’Unione ed unitariamente considerato e quindi
anche quale Stato in persona dei suoi giudici di ultima istanza (per tutte,
Corte Giust. CE 30 settembre 2003, in C-224/01, Kobler, ovvero 13
giugno 2006, in C-173/03, Traghetti del Mediterraneo; per la

rg 229E8-11 – ud. 17.2.15 – est. cons. F. De Stefano

17

di appello delle questioni indotte dalla normativa già da tempo

giurisprudenza di questa Corte v. pure, tra le ultime, Cass., ord. 29
gennaio 2015, n. 1575, ove altri riferimenti), per la violazione concreta
della disciplina comunitaria – o, ora, eurounitaria – recata da un
claire,

acte

quale certamente deve qualificarsi la normativa in materia

ambientale, alla stregua della duplice procedura di infrazione avviata nei
confronti della Repubblica italiana proprio per la mancata applicazione di
quei principi generalissimi, tra cui quelli in tema di esclusione del

§ 8.4. Pertanto, la gravata sentenza deve essere cassata e rinviata
alla stessa corte territoriale, affinché essa operi – ormai in base
all’ulteriormente sopravvenuta normativa del 2013 (e salvi beninteso
ulteriori sviluppi, ove fossero anch’essi definiti applicabili ai giudizi
pendenti) – quelle previe valutazioni in fatto sull’individuazione delle
misure di riparazione complementare e compensativa e sulla valutazione
monetaria delle medesime, curando che le valutazioni della consulenza
tecnica di ufficio già a suo tempo espletata, in conformità peraltro a
disciplina superata dall’evoluzione normativa, contemplino espressamente
gli effetti dell’applicazione delle nuove disposizioni. E tanto in applicazione
del seguente principio di diritto:

il giudice della domanda di

risarcimento del danno ambientale ancora pendente alla data di
entrata in vigore della I. 6 agosto 2013, n. 97, essendo ormai
esclusa la liquidazione per equivalente di quello, può ancora
conoscere della domanda in applicazione del nuovo testo dell’art.
311 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, come modificato prima
dall’art. 5-bis, comma 1, lett. b), del d.l. 135/09 cit. e poi dall’art.
25 della I. 97/13 cit., individuando le misure di riparazione
primaria, complementare e compensativa e, per il caso di omessa
o imperfetta loro esecuzione, determinandone il costo, da rendere
oggetto di condanna nei confronti dei soggetti obbligati.
§ 9. – Coi due successivi motivi i ricorrenti si dolgono della
quantificazione del valore del materiale asportato.
§ 9.1. In particolare:
– col sesto motivo, stigmatizzano una “omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione della sentenza su un fatto controverso e
decisivo per il giudizio

ex

art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.: e

specificamente con riguardo alla parte in cui la medesima pronuncia ha

rg 22958-11 – ud. 17.2.15- est. cons. F. De Stefano

18

risarcimento per equivalente.

provveduto alla quantificazione del danno tenuto conto del valore dei
lavori necessari al ripristino dei luoghi con riguardo ai materiali asportati
oltre il limite di profondità di metri 30”; al riguardo, contestano
l’interpretazione prescelta dai giudici del merito – nonostante la
prospettazione di un’alternativa da parte dello stesso c.t.u. – delle
prescrizioni amministrative, sulla profondità degli scavi da ritenere
illegittimi e quindi sul volume del materiale ritenuto illegittimamente

– col settimo motivo, denunziano una “omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione della sentenza su un fatto decisivo e
controverso per il giudizio ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.; e
specificatamente con riguardo alla parte in cui la medesima ha
provveduto alla quantificazione del danno tenuto conto del valore dei
lavori necessari al ripristino dei luoghi con riguardo ai materiali asportati
oltre la c.d. fascia di 150 metri dalla sponda del fiume Po”; al riguardo,
contestando i punti di partenza e le metodoiogie di calcolo adoperate dal
c.t.u., in quanto affette da un sensibile margine di errore, puntualmente
evidenziato dal loro c.t.p., nonché dalla mancata considerazione dei danni
della sopravvenuta alluvione dell’ottobre 2000 e dei lavori di ripristino già
quasi del tutto ultimati fino a quel momento;
§ 9.2. Dal canto suo, il controricorrente eccepisce preliminarmente
l’inconferenza dei rilievi rispetto all’oggetto della controversia, visto che la
condanna si è riferita soltanto ai costi di riqualificazione, esclusi quelli di
riempimento e ritombamento; ma ne rileva pure l’inammissibilità, perché
involgenti contestazioni di fatto e contrari alle risultanze di una completa,
accurata ed esaustiva consulenza di ufficio; contesta la sussistenza di
prova del fatto che le profondità superiori ai trenta metri dal piano di
campagna si riferissero ad escavazioni precedenti agli atti autorizzativi
del 1994 o ad aree coperte da precedenti atti autorizzativi; condivide le
motivazioni della corte pure in punto di individuazione della linea di
sponda quale punto di partenza della distanza di 150 metri per valutare
la legittimità dell’attività estrattiva.
§ 9.3. I motivi sono inammissibili: in violazione dei principi ricordati
sopra al § 3.1, non è in ricorso analiticamente riportato ogni atto dei
gradi di merito da cui ricavare che i danni il cui risarcimento è l’oggetto

rg 22958-11 – ud. 17.2.15 – est. cons. F. De Stefano

19

asportato;

della condanna siano riconducibili ai costi di ripristino diversi dal valore
i

del materiale asportato.
E tanto a prescindere dal fatto che la valutazione del danno, ai fini

1,- della determinazione del suo risarcimento per equivalente, andrà
comunque nuovamente effettuata dalla corte territoriale, ove abbia in
concreto accertata la sussistenza dei presupposti specifici di quest’ultimo,
alla stregua dei criteri indicati dall’art. 311 del codice dell’ambiente, nel

§ 10. – Infine, i ricorrenti, con l’ottavo ed ultimo motivo, si dolgono
di “violazione e falsa applicazione dell’art. 18 legge n. 449 del 1986 con
riferimento al risarcimento del danno ambientale ed in relazione all’art.
360, comma 1, n. 3 c.p.c.”.
§ 10.1. In particolare, essi – pur ribadendo quanto argomentato con
il quinto motivo e cioè la prevalenza della normativa sopravvenuta contestano l’applicazione pure in concreto operata dei criteri di cui all’art.
18 legge n. 349/86, per la controvertibilità della determinazione della
quantità e del valore dei materiale illegittimamente asportato e non
ripristinato (anche per l’impossibilità di corretta individuazione dell’utile di
impresa e del costo di estrazione, che il c.t.u. non era riuscito a
quantificare): ed invocando la rinnovazione della consulenza o anche solo
della valutazione, visto che, applicando correttamente il criterio
equitativo e per di più tenendo in adeguato conto la tenuità della colpa
della società (resa evidente dall’acquisizione di un parere pro ventate a
sostegno della bontà delle tesi interpretative delle autorizzazioni poi
applicate), certamente si sarebbe pervenuti ad un totale inferiore.
§ 10.2. Il controricorrente eccepisce la novità della questione in
questa sede e l’inammissibilità della rivalutazione del fatto che essa
*

coinvolge, come pure l’inconferenza della doglianza rispetto all’oggetto
della controversia, che non si estende al costo del materiale asportato;

b

ma si diffonde poi sull’irrilevanza del profitto di impresa ai fini di riduzione
dei risarcimento, nonché sull’evidenza della colpa, per l’insostenibilità
delle tesi applicate da controparte, come stigmatizzato da una nota della
competente Regione e dal Consiglio di Stato.
§ 10.3. Il motivo è inammissibile: in violazione dei principi ricordati
sopra ai §§ 3.1 e 3.2, i ricorrenti non indicano analiticamente in ricorso,
né tanto meno li trascrivono, le sedi processuali in cui avrebbero

rg 22958-11 – ud. 17.2.15 – est. cons. F. De Stefano

20

testo oggi vigente.

sottoposto specificamente le questioni relative ai giudici del merito.
Pertanto, è impossibile per questa corte valutare il merito della doglianza,
anche nell’impossibilità di escluderne la novità in questa sede.
§ 11. – In definitiva, accolto il quinto motivo di ricorso e dichiarati
inammissibili (il terzo, il sesto, il settimo e l’ottavo) o rigettati (il primo, il
secondo e il quarto) gli altri, la gravata sentenza va cassata in relazione
alla censura accolta, con rinvio alla medesima corte territoriale, in diversa

proceda – definitivamente accertata la responsabilità dei convenuti – ad
adeguare l’eventuale condanna risarcitoria al principio di diritto espresso
sopra, al § 8.4.
P. Q. M.

La Corte accoglie il quinto motivo di ricorso, dichiarati inammissibili
o rigettati gli altri; cassa la gravata condanna in relazione alle censure
accolte e rinvia alla corte di appello di Torino, in diversa composizione,
anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della terza sezione
civile della Corte suprema di cassazione, addì 17 feI6raio 2015.

composizione e pure per le spese del giudizio di legittimità, affinché

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