Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9004 del 15/05/2020

Cassazione civile sez. II, 15/05/2020, (ud. 03/12/2019, dep. 15/05/2020), n.9004

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CARBONE Enrico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 8394/2015 R.G. proposto da:

C.L., e C.A., rappresentati e difesi dall’avv. Antonio

Giorgini e dall’avv. Ezio Spaziani, con domicilio eletto in Roma,

Via Mazzini n. 146.

– ricorrenti –

contro

B.A., e Ce.Ti., rappresentati e difesi dall’avv.

Paolo Pazzi, con domicilio eletto in Roma alla via Germanico n. 172

presso lo studio dell’avv. Andrea Matronola.

– controricorrenti –

Ci.Le..

– intimato –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Ancona n. 691/2014,

depositata in data 6.10.2014.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del giorno

30.11.2018 dal Consigliere Dott. Giuseppe Fortunato.

Lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del

Sostituto Procuratore Generale Dott. TRONCONE Fulvio, che ha chiesto

di rigettare il ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

C.L., C.A., Ci.Le. e C.E. quest’ultima deceduta in corso di causa – hanno citato in giudizio B.A. dinanzi al Tribunale di Pesaro, asserendo che il convenuto aveva realizzato nella sua proprietà, confinante con quella degli attori (ubicata in (OMISSIS)) un gazebo posto a distanza illegale.

Hanno chiesto l’arretramento dell’opera, con vittoria delle spese di lite.

Il convenuto, dopo aver dedotto che il manufatto era di comproprietà della moglie, Ce.Ti., ha chiesto di respingere la domanda, istando in via riconvenzionale per il risarcimento del danno patito a seguito delle molestie subite nel libero godimento dell’immobile. Con autonoma citazione i C. hanno convenuto in giudizio Ce.Ti., chiedendo l’arretramento del gazebo fino al rispetto della distanza legale. La convenuta ha proposto domanda riconvenzionale di risarcimento del danno.

Riuniti i giudizi, il Tribunale ha respinto sia le domande principali che le riconvenzionali, con sentenza confermata in appello.

La Corte distrettuale ha, in particolare, ritenuto che il gazebo non costituisse una costruzione ai sensi dell’art. 873 c.c., poichè autoportante ed amovibile, priva di stabile collegamento al suolo e tale da consentire il passaggio di aria e luce, senza dar luogo ad intercapedini dannose.

La cassazione di questa sentenza è stata chiesta da C.L. e C.A., in proprio e quali eredi di Ce.Em., sulla base di due motivi di ricorso, illustrati con memoria.

B.A. e Ce.Ti. hanno proposto controricorso e hanno depositato memoria illustrativa.

Con ordinanza interlocutoria n. 11360/2019 è stata ordinata la notifica del ricorso a Ci.Le..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo denuncia la violazione degli artt. 871,872 e 873 c.c. e dell’art. 61, comma 8, delle norme del regolamento edilizio del Comune di Pesaro, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, lamentando che la sentenza abbia erroneamente escluso che il gazebo costituisse una costruzione ai fini del rispetto dell’art. 873 c.c., pur trattandosi di opera accessoria ad un fabbricato, soggetta alla concessione edilizia ai sensi del D.M. 10 maggio 1977, art. 2 e delle previsioni del D.L. n. 269 del 2003, tanto che i resistenti avevano richiesto ed ottenuto, su tali presupposti, la sanatoria dell’abuso.

Il secondo motivo denuncia – testualmente – l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e il vizio di motivazione in relazione agli artt. 871,872,873 c.c. e artt. 61,191,196 c.p.c., per aver la Corte di merito differito alla decisione della causa la valutazione di ammissibilità e rilevanza delle prove chieste dai ricorrenti, senza successivamente pronunciarsi in sentenza su tali istanze istruttorie, volte a dimostrare che l’opera costituiva una costruzione, e – infine – per aver immotivatamente negato la rinnovazione della consulenza, nonostante i rilievi mossi alla c.t.u. svolta in primo grado.

2.1. Il primo motivo non può essere accolto.

Anzitutto il ricorso non specifica se e quando la domanda di concessione in sanatoria e di oblazione sia stata prodotta nei gradi di merito e se le questioni sollevate in sede di legittimità, quanto alla natura dell’opera come volume accessorio ad un fabbricato, siano state dibattute nel processo, dovendo ribadirsi che il ricorrente che proponga una determinata questione giuridica – che implichi, come nel caso di specie, nuovi accertamenti di fatto – ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare la questione (Cass. 27568/2017; Cass. 1435/2013).

In ogni caso, la Corte di merito ha evidenziato che l’opera era autoportante ed amovibile, consentiva il passaggio di area e luce, non precludeva la visuale e non creava intercapedini dannose, con accertamento in fatto, conforme al consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui, ai fini della disciplina sulle distanze legali, è “costruzione” qualsiasi opera stabilmente infissa al suolo che, per solidità, struttura e sporgenza dal terreno, possa creare intercapedini dannose (Cass. 5753/2014; Cass. 23189/2012; Cass. 3199/2002).

La relativa nozione è unica e deriva dalle norme generali, senza possibilità di deroghe per effetto delle norme secondarie, in quanto il rinvio agli strumenti urbanistici locali, contenuto nell’art. 873 c.c., è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una “distanza maggiore” (Cass. 144/2016; Cass. 19530/2006).

Era quindi irrilevante che il gazebo fosse qualificato come accessorio del fabbricato (o come superficie non residenziale) dal provvedimento di sanatoria o che come tale fosse contemplato dalle norme locali, poichè, per l’applicabilità dell’art. 873 c.c., il giudice era tenuto a verificare esclusivamente se l’opera, in base alle sue caratteristiche strutturali, fosse tale da configurare una costruzione.

2. Il secondo motivo è infondato.

Non è sindacabile come omesso esame di un fatto decisivo di causa, oggetto di dibattito tra le parti, la scelta del giudice di merito di non procedere alla rinnovazione della consulenza tecnica. Tale opzione non pertiene ad un fatto materiale, ma all’esercizio di poteri discrezionali del giudice di merito, cui è rimessa la valutazione dell’opportunità di disporre indagini tecniche suppletive o integrative di quelle già espletate, di sentire a chiarimenti il consulente tecnico di ufficio o di disporre la rinnovazione delle indagini, con la nomina di altri consulenti (Cass. 14774/2014; Cass. 10972/1994; Cass. 4057/1990).

La consulenza resta mezzo istruttorio sottratto alla disponibilità delle parti e ogni determinazione in proposito non può essere sindacato quando, come nel caso in esame, gli elementi di convincimento per disattendere la richiesta di rinnovazione della consulenza siano stati tratti dalle risultanze probatorie già acquisite e ritenute esaurienti dal giudice (Cass. 8200/1998; Cass. 10972/1994).

Non inficia la pronuncia il fatto che, con ordinanza del 2.11.2011, l’esame delle istanze istruttorie era stata differita al momento della decisione, senza che la Corte abbia poi esplicitato le ragioni del loro (implicito) rigetto.

Il giudice di merito non è difatti tenuto a respingere espressamente e motivatamente le richieste di tutti i mezzi istruttori avanzate dalle parti qualora, nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali, ritenga sufficientemente istruito il processo.

Il giudizio di superfluità o irrilevanza delle prove può – difatti implicitamente dedursi dal complesso delle argomentazioni contenute nella sentenza, non occorrendo ulteriori argomentazioni (Cass. 15502/2009; Cass. 14611/2005; Cass. 6570/2004).

Il ricorso è quindi respinto, con aggravio di spese secondo soccombenza.

Si dà atto che sussistono le condizioni per dichiarare che i ricorrenti sono tenuti a versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali, pari ad Euro 200,00 per compenso ed Euro 2500,00 per esborsi, oltre ad iva, c.p.a. e rimborso forfettario spese generali in misura del 15%.

Dà atto che sussistono le condizioni per dichiarare che i ricorrenti sono tenuti a versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 3 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 maggio 2020

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