Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 90 del 04/01/2018

Cassazione civile, sez. lav., 04/01/2018, (ud. 05/10/2017, dep.04/01/2018),  n. 90

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso ex art. 414 c.p.c., depositato a seguito di procedimento cautelare, T.A. chiese al Tribunale di Lecce di accertare la natura subordinata a tempo indeterminato, con la qualifica di impiegato di 4 livello del c.c.n.l. per i dipendenti del terziario della distribuzione e dei servizi, del rapporto di lavoro intercorso con la Lupiae Servizi s.p.a. a decorrere dal 2 maggio 2002, quando le parti stipularono un contratto di collaborazione coordinata e continuativa. Chiese per conseguenza la condanna della convenuta al pagamento della somma di Euro 53.082,52 per spettanze a vario titolo dovute alla data del 30 settembre 2006. La società Lupiae Servizi si costituì eccependo preliminarmente che tra le parti era cessata la materia del contendere a seguito di transazione intervenuta in data 7 gennaio 2008 e comunque insistendo per la reiezione delle domande. Il T., nel rilevare che la transazione era stata tempestivamente impugnata, ne chiese l’annullamento insistendo nelle conclusioni già formulate. Il Tribunale, in parziale accoglimento della domanda, accertò che tra le parti era intercorso un valido rapporto di collaborazione coordinata e continuativa fino al 24 ottobre del 2005 e che dal giorno successivo si era costituito un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato L) con inquadramento nel 5 livello del settore del terziario e condannò la Società convenuta a ricostituire la posizione assicurativa e previdenziale ed al pagamento delle differenze retributive con tale decorrenza.

2. La Corte di appello dì Lecce, adita in via principale dal T. per ottenere l’integrale accoglimento della domanda formulata in primo grado ed in via incidentale dalla società Lupiae Servizi che chiedeva la integrale reiezione delle domande, rigettava entrambi i ricorsi e compensava le spese.

3. La Corte territoriale, per quanto qui interessa, nel confermare l’annullamento della transazione intervenuta tra le parti, ha ritenuto che il contratto intercorso tra le parti dal 2 maggio 2002 non poteva essere qualificato come un generico contratto di opera ma si era svolto piuttosto con tutte le caratteristiche della collaborazione coordinata e continuativa. Ha poi confermato la statuizione di primo grado che ne aveva escluso, per il periodo successivo all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 276 del 2003, la riconducibilità allo schema del contratto a progetto. Quanto alla decorrenza della conversione, il giudice di appello ha ritenuto che il D.Lgs. n. 276 del 2003 non aveva efficacia retroattiva e che pertanto i contratti di collaborazione coordinata e continuativa regolarmente svoltisi prima della sua entrata in vigore restavano validi.

Conseguentemente ha accertato che per le collaborazioni coordinate e continuative, stipulate successivamente all’entrata in vigore del citato decreto legislativo e prive di progetto, si era convertito il rapporto sin dalla stipula del contratto. Con riguardo alla richiesta di inquadramento nel 4^ livello del c.c.n.l. del terziario, la Corte di appello ha confermato la statuizione di primo grado che aveva ricondotto al V livello l’attività svolta di messo notificatore ed ha escluso il demansionamento evidenziando che le mansioni erano rimaste nel tempo identiche. Infine il giudice di secondo grado ha escluso la temerarietà della lite ed ha ritenuto generica la censura con la quale ci si doleva della liquidazione delle spese in primo grado.

4. Per la cassazione della sentenza ricorre T.A. che articola sei motivi. La Società Lupiae Servizi p. a. è rimasta intimata.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

5. Con il primo motivo di ricorso è denunciata l’errata applicazione di legge e la perplessità e contraddittorietà della motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. Sostiene il ricorrente che la Corte territoriale pur muovendo dalla premessa che il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa intercorso tra le parti fosse divenuto illegittimo, successivamente alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 276 del 2003, poichè non più adeguato alla disciplina sopravvenuta, contraddittoriamente ed in violazione del citato D.Lgs., art. 69, aveva rigettato l’appello del lavoratore confermando così la decorrenza della accertata conversione del rapporto dal 24 ottobre 2005 non, come dovuto, sin dalla stipula del contratto stesso (il 2 maggio 2002), come previsto dalla citata norma.

6. Con il secondo motivo di ricorso ci si duole dell’illegittimità, perplessità e contraddittorietà tra dispositivo e motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Sostiene il ricorrente che la sentenza, pur dando atto dell’avvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 86, comma 1 (con il quale era stato dettato il regime transitorio della nuova disciplina) contraddittoriamente poi ha ritenuto che il diritto alla conversione insorga solo dal 24 ottobre 2003 (data di entrata in vigore della L. n. 276 del 2003) ed ha confermato la decorrenza delle differenze retributive dal 25 ottobre 2005, vale a dire dalla data indicata nella disposizione poi dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale.

7. Le due censure, da esaminare congiuntamente in ragione della loro connessione, sono infondate.

7.1. In disparte i profili di inammissibilità delle stesse con riguardo ad una confusa ricostruzione dei fatti di causa rilevanti (non è infatti chiaro dalla lettura del ricorso se tra le pari sia intercorso un solo contratto di collaborazione coordinata e continuativa a tempo determinato poi di fatto protrattosi o se piuttosto il contratto non recasse alcun termine) va tuttavia rilevato che con il D.Lgs. n. 276 del 2003 è stata dettata una nuova disciplina per i contratti di collaborazione coordinata e continuativa. L’art. 61 (nella sua originaria formulazione, ratione temporis applicabile alla presente fattispecie) dispone che, ferma restando la disciplina per gli agenti e i rappresentanti di commercio e fatte salve le deroghe contenute nei commi 2 e 3 ed i trattamenti di miglior favore previsti nel contratto individuale o negli accordi collettivi, “i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione, di cui all’art. 409 c.p.c., n. 3, devono essere riconducibili a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione della attività lavorativa.” Come osservato da questa Corte in una sua recente pronuncia (cfr. Cass. 17/08/2016 n. 17127) il legislatore delegato ha inteso “vietare, in armonia con la finalità enunciata dalla L. n. 30 del 2003, art. 4, comma 1, lett. c), nn. 1 – 6, (e fatte salve le specifiche eccezioni ivi previste e poi trasfuse nel D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 61, commi 1-3), il ricorso a collaborazioni coordinate e continuative che non siano riconducibili a uno o più progetti o programmi di lavoro o fasi di esso, allo scopo di porre un argine all’abuso della figura della collaborazione coordinata e continuativa, in considerazione della frequenza con cui giudizialmente ne veniva accertata la funzione simulatoria di rapporti di lavoro subordinato”. Tanto si desume dalla relazione introduttiva alla Legge Delega n. 30 del 2003 che, espressamente, richiama l’esigenza di esentare dalla disciplina generale del lavoro dipendente solo le collaborazioni “senza vincolo di subordinazione e aventi ad oggetto un progetto o un programma di lavoro o una fase di esso”.

7.2. Il citato D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, comma 1, sanziona “I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso ai sensi dell’art. 61, comma 1” con la conversione sin dalla data di costituzione in rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

7.3. Il citato D.Lgs., art. 86, comma 1, dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 399 del 5 dicembre 2008, dettava un regime transitorio per quei contratti di collaborazione coordinata e continuativa che, validamente conclusi nel regime antecedente il D.Lgs. n. 276 del 2003 fossero proseguiti successivamente alla data di entrata in vigore dello stesso. La norma transitoria prevedeva infatti che “le collaborazioni coordinate e continuative stipulate ai sensi della disciplina vigente, che non possono essere ricondotte a un progetto o a una fase di esso, mantengono efficacia fino alla loro scadenza e, in ogni caso, non oltre un anno dalla data di entrata in vigore del presente provvedimento. Termini diversi, comunque non superiori al 24 ottobre 2005 (così modificato dal D.Lgs. 20 ottobre 2004, n. 251, art. 20 comma 1, il testo originario che limitava ad un anno l’ulteriore proroga), di efficacia delle collaborazioni coordinate e continuative stipulate ai sensi della disciplina vigente potranno essere stabiliti nell’ambito di accordi sindacali di transizione al nuovo regime di cui al presente decreto, stipulati in sede aziendale con le istanze aziendali dei sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale”.

7.4. Il giudice delle leggi ha ritenuto irragionevole la scelta del legislatore di limitare l’ultrattività della precedente disciplina ed ha evidenziato che, in tal modo, la norma contraddice la sua stessa ratio, e sacrifica interessi che le parti avevano regolato nel rispetto della disciplina dell’epoca. Evidenzia infatti la Corte che se lo stesso legislatore al D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 1, comma 1, si era proposto il fine di “aumentare (…) i tassi di occupazione e (…) promuovere la qualità e la stabilità del lavoro” non sarebbe ragionevole una disposizione transitoria che determini l’effetto esattamente contrario (perdita del lavoro) a danno di soggetti che, pur avendo instaurato rapporti di lavoro autonomo prima della sua entrata in vigore, nel pieno rispetto della disciplina all’epoca vigente, si trovino penalizzati senza un motivo plausibile. A conferire ragionevolezza alla disposizione, secondo il giudice delle leggi, non poteva neppure soccorrere la “mera esigenza di evitare la prosecuzione nel tempo di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa difformi dalla nuova previsione legislativa, poichè l’intento del legislatore di adeguare rapidamente la realtà dei rapporti economici ai modelli contrattuali da esso introdotti non può giustificare, di per se stesso, il pregiudizio degli interessi di soggetti che avevano regolato i loro rapporti in conformità alla precedente disciplina giuridica”.

7.5. Così ricostruito il quadro normativo si deve conseguentemente affermare che la disciplina del lavoro a progetto dettata dal D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 61 e seg., in ossequio al principio tempus regit actum, e nel rispetto dell’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, trova applicazione ai contratti stipulati successivamente alla sua entrata in vigore restando salva la validità dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa stipulati antecedentemente e protrattisi successivamente alle modifiche apportate con il citato decreto legislativo.

7.6. Ne consegue che, fermo il giudicato formatosi nella presente controversia con riguardo alla accertata illegittimità sopravvenuta del contratto ed alla conseguente conversione del rapporto a tempo indeterminato, all’evidenza la domanda di retrodatazione degli effetti della conversione alla data di costituzione del rapporto non può trovare accoglimento.

8. Con il terzo motivo di ricorso viene denunciata la violazione e falsa applicazione del contratto collettivo di riferimento in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Sostiene il ricorrente che erroneamente la Corte di appello avrebbe ritenuto che l’attività di messo notificatore svolta non potesse essere ricondotta, così come chiesto, al IV livello del c.c.n.l. evidenziando che per la particolare delicatezza dei compiti effettuati (notificazione cartelle esattoriali, multe, avvisi di mora) erano necessarie specifiche conoscenze tecniche (delle norme generali e speciali in materia di notifica) e particolari capacità tecnico pratiche (per la compilazione delle relate) tanto che per conseguire la qualifica di messo notificatore aveva dovuto frequentare corsi di formazione tenuti da personale Unep.

9. Con il quarto motivo di ricorso si duole della mancata ammissione delle istanze istruttorie in violazione degli artt. 101 e 115 c.p.c. e art. 24 Cost. e art. 111 Cost., commi 2 e 6.

10. Le censure da esaminare congiuntamente, poichè investono sotto vari profili il diritto del ricorrente ad essere inquadrato nel quarto livello del contratto collettivo di categoria, sono inammissibili.

10.1. In primo luogo va rilevato che nel denunciare l’errata sussunzione delle mansioni svolte nel quinto livello del contratto collettivo invece che nel quarto, si omette di riportare il contenuto delle disposizioni richiamate, riportandosi solo le deduzioni contenute nei precedenti atti e non anche il contenuto delle disposizioni collettive invocate. Ben vero che l’onere di allegazione del contratto collettivo, ex art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, può essere adempiuto, in base al principio di strumentalità delle forme processuali e nel rispetto del principio di cui all’art. 111 Cost., letto in coerenza con l’art. 6 della CEDU, in funzione dello scopo di conseguire una decisione di merito in tempi ragionevoli, anche mediante il rinvio al testo integrale allegato nei fascicoli dei gradi di merito, a condizione però che nel corpo dell’atto d’impugnazione sia stata riprodotta la norma contrattuale collettiva sulla quale si basano principalmente le doglianze.

10.2. Ciò premesso rileva il Collegio che nel caso in esame in allegato al fascicolo di cassazione (doc. 13 – all. 10) è prodotto il fascicolo della fase cautelare nel quale sarebbe stato depositato il contratto collettivo e dunque la disposizione che traccia le caratteristiche del quarto livello rivendicato, e tuttavia, come ricordato, ai fini della specificità della censura, sarebbe stato necessario trascrivere nel corpo del ricorso il contenuto delle le norme collettive delle quali si invoca la violazione sì da comprendere sin dalla lettura del ricorso in che cosa si sostanzi la censura salvo il più approfondito esame delle disposizioni nel contesto dell’intero contratto (cfr. Cass. 01/02/2017 n. 2626, 18/07/2016 n. 14626, 12/02/ 2014, n. 3224 e già S.U. 11/04/2012, n. 5698 e S.U. 03/11/ 2011, n. 22726).

11. Il quinto motivo di ricorso, con il quale è denunciata la perplessità e contraddittorietà della motivazione e la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è infondato.

11.1. Va rilevato che la censura, assai confusa nell’esposizione, non scalfisce la ricostruzione effettuata dal giudice di appello che, invece, è coerente con la documentazione in suo possesso e costituisce una interpretazione dell’atto transattivo e delle conseguenze del suo annullamento. Il giudice di appello, accertato che le mansioni svolte erano riconducibili al quinto livello di inquadramento, ha poi verificato che solo in virtù dell’accordo transattivo, poi impugnato ed annullato, era stato riconosciuto l’inquadramento nel quarto livello. Coerentemente, quindi, la Corte territoriale ha escluso che si potesse ravvisare in questa peculiare evoluzione fattuale un demansionamento. Immutate le mansioni svolte, la restituzione al livello di inquadramento spettante sulla base della disciplina collettiva applicabile non può configurare un demansionamento ove, come nel caso in esame, la qualifica superiore

sia stata attribuita convenzionalmente in base ad un accordo transattivo poi dichiarato nullo.

12. Il sesto motivo di ricorso, con il quale è denunciata con riguardo alla liquidazione delle spese del giudizio di primo grado l’insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è inammissibile.

12.1. La censura infatti non trascrive, come avrebbe dovuto, il contenuto della sentenza di primo grado in punto di spese, nè nella parte motiva nè in quella dispositiva e riassume ma non trascrive il contenuto della censura formulata nell’atto di appello. E’ preclusa pertanto a questa Corte qualunque verifica circa l’insufficienza e la contraddittorietà della motivazione che, pur sinteticamente, dà conto di aver provveduto ad una analisi della censura mossa alla sentenza senza ravvisare in essa elementi che le consentissero di sindacare la decisione di primo grado.

13. In conclusione e per le ragioni sopra esposte il ricorso deve essere rigettato. Non occorre provvedere sulle spese del giudizio di legittimità atteso che la parte intimata non ha opposto difese e non ha svolto alcuna attività processuale.

PQM

La Corte, rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 5 ottobre 2017.

Depositato in Cancelleria il 4 gennaio 2018

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