Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8994 del 06/04/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 06/04/2017, (ud. 07/03/2017, dep.06/04/2017),  n. 8994

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23394-2015 proposto da:

L.C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, V. ATTILIO

REGOLO 19, presso lo studio dell’avvocato MARILISA PRESTANICOLA,

rappresentato e difeso dall’avvocato DOMENICO RUSSELLO, giusta

procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, – C.F. (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrente –

e contro

PREFETTURA DI AGRIGENTO;

– intimata –

avverso la sentenza n. 417/2015 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata l’8/04/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 07/03/2017 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO.

Fatto

RILEVATO

che, con sentenza dell’8.4.2015, la Corte d’appello di Palermo, in accoglimento del gravame proposto dal Ministero dell’Interno Prefettura di Agrigento avverso la decisione in sede di opposizione che aveva revocato il provvedimento monitorio in favore del Ministero, con il quale era ingiunto a L.C.G. il pagamento della somma di Euro 72.422,49 a titolo di rimborso delle spese di difesa nel giudizio penale – rigettava l’opposizione del L.C. avverso l’ingiunzione di pagamento R.D. n. 639 del 1910, ex art. 3 emessa dalla Prefettura di Agrigento;

che la Corte rilevava che, diversamente da quanto affermato dal primo giudice, gravava sull’opponente in sede di accertamento negativo l’onere della prova della non debenza della somma ingiunta e che dalle note presentate nel corso del procedimento amministrativo era possibile desumere il contenuto dei capi di imputazione, evincibili anche dalla missiva del L.C. riferita alla sentenza di assoluzione in sede penale, (peculato e riciclaggio aggravato per fatti e atti connessi con l’espletamento del servizio quale impiegato civile presso la Questura di Agrigento, Ufficio Passaporti, in relazione all’asportazione di marche o non applicazione delle stesse con conseguente riciclaggio nello svolgimento ed a causa di un atto del proprio ufficio), che avevano condotto al rinvio al giudizio del predetto;

che si precisava come, ai sensi del D.L. 25 marzo 1997, n. 67, ex art. 18 (conv. dalla L. n. 135 del 1997), era necessario, ai fini dell’accertamento della sussistenza dei presupposti per ottenere il rimborso delle spese legali, che l’imputazione in un processo penale fosse conseguita all’espletamento del servizio e si ponesse in diretta connessione con l’assolvimento degli obblighi istituzionali, mentre nella specie non poteva ritenersi che l’attività fosse ricollegabile all’esercizio diligente della pubblica funzione e che la vicenda fosse riconducibile nell’alveo applicativo dell’art. 18 cit. nè poteva considerarsi decisiva la circostanza che i fatti aventi rilevanza penale fossero stati contestati quali “reati propri”, nel senso del rilievo della qualità soggettiva di pubblico ufficiale dell’autore della condotta delittuosa, essendo stati gli stessi fatti posti in essere nell’esclusivo interesse del dipendente ed in relazione ai suoi fini personali, peraltro potenzialmente in conflitto con quelli della P.A.;

che di tale decisione il L.C. chiede la cassazione, affidando l’impugnazione a quattro motivi, cui ha opposto difese, con controricorso, il Ministero;

che la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio, in prossimità della quale il L.C. ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

1.1. che, con il primo motivo, viene dedotta nullità della sentenza ex art. 156 c.p.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per contrasto tra dispositivo e motivazione, emergendo la lacunosità del primo rispetto alla motivazione in relazione alla enunciata riforma solo parziale della sentenza;

1.2. che, con il secondo motivo, viene denunziata violazione del R.D. 14 aprile 1910, n. 639 e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, con riguardo all’assunzione della veste formale di attore e convenuto ed al riparto dell’onere della prova, sostenendosi che nell’ambito del giudizio di opposizione all’ingiunzione R.D. n. 639 del 1910, ex art. 3 l’Amministrazione assume, sul piano dell’onere della prova, la posizione di attore in senso sostanziale ove ne richieda la conferma in giudizio, esercitando una domanda che è quella di riconoscimento del diritto al recupero così azionato, onde i fatti costitutivi devono essere provati da chi invoca la restituzione fondata sulla mancanza di causa dell’erogazione delle somme;

che in tale motivo si evidenzia anche che alcuna prova è stata fornita dall’Amministrazione e che, successivamente alla prima nota dell’Avvocatura posta a sostegno dell’erogato beneficio, era intervenuta l’ingiunzione di rimborso di somme già erogate in forza di una non meglio chiarita determinazione, priva di ogni riferimento a norme, giurisprudenza e a circostanze diverse da quelle in precedenza esaminate, non potendo ritenersi neanche configurabile una revoca in relazione a provvedimenti vincolati ad effetti istantanei, che abbiano consumato il potere o interamente eseguiti;

1.3. che, con il terzo motivo, si lamenta insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza in relazione alla mancanza di alcun cenno alle ragioni di fatto e diritto poste a sostegno del provvedimento, che faceva riferimento ad altri analoghi provvedimenti adottati nei confronti di altri dipendenti;

1.4. che, con il quarto, si deduce violazione della L. n. 135 del 1997, art. 18 sul rilievo della erronea negazione della sussistenza dei presupposti previsti dalla norma applicabile ratione temporis, per ritenere che i fatti per i quali il dipendente era stato incriminato fossero direttamente riconducibili all’ente di appartenenza ed assunti nell’esercizio delle funzioni istituzionali, essendo altresì mancato ogni conflitto di interessi tra la posizione dell’ente e quella del dipendente, come dimostrato dalla mancanza di costituzione di parte civile dell’amministrazione nel processo penale;

2. che ritiene il Collegio si debba rigettare il ricorso, qualificabile come manifestamente infondato;

2.1. che il primo motivo deve essere disatteso, non emergendo il dedotto contrasto ed essendo all’evidenza frutto di un refuso o di errore materiale il riferimento alla riforma solo parziale della decisione di primo grado impugnata, non emergendo palese contraddittorietà tra le due parti della sentenza di appello;

2.2. che, quanto al secondo motivo, deve rilevarsi che l’ingiunzione di cui al R.D. 14 aprile 1910, n. 639, perduta la funzione di precetto e di titolo esecutivo, a seguito del D.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43, art. 130, comma 2, abbia conservato la residuale funzione di atto impositivo con efficacia accertativa della pretesa erariale, come tale idoneo ad introdurre un giudizio sul diritto al recupero di somme non dovute e che la cognizione del giudice debba essere estesa al merito della pretesa erariale in esso espressa, sulla cui fondatezza egli è comunque tenuto a statuire, anche a prescindere da una specifica richiesta in tal senso, e sulla base degli elementi di prova addotti dall’ente creditore e contrastati dal soggetto ingiunto (cfr. Cass. 3.11.2011 n. 22792);

che il giudice del gravame, pur affermando che l’onere della prova spettasse all’opponente, ha mostrato di aderire nella sostanza al percorso motivazionale seguito del giudice di primo grado, conferendo rilevanza alla produzione documentale di prime cure e ciò in conformità a quanto affermato da questa Corte secondo cui “il principio relativo all’onere della prova, di cui all’art. 2697 c.c., non implica affatto che la dimostrazione dei fatti costitutivi del diritto preteso debba ricavarsi esclusivamente dalle prove offerte da colui che è gravato del relativo onere, senza poter utilizzare altri elementi probatori acquisiti al processo, poichè nel vigente ordinamento processuale, anche tributario, vale il principio di acquisizione, secondo il quale le risultanze istruttorie, comunque ottenute e quale che sia la parte ad iniziativa o ad istanza della quale sono formate, concorrono tutte, indistintamente, alla formazione del convincimento del giudice, senza che la diversa provenienza possa condizionare tale formazione in un senso o nell’altro” (cfr. Cass. 19.1.2010 n. 739, Cass. 25.9.2013 n. 21909);

che, peraltro, il riferimento alla prima nota dell’Avvocatura del 2.8.2006, posta a sostegno dell’erogazione del beneficio, non risulta effettuato nei termini idonei ad integrare la procedibilità del corrispondente motivo, attraverso il deposito della stessa ovvero l’indicazione dell’esatta allocazione nel fascicolo di parte o di ufficio dei gradi di merito e che, in ogni caso, i rilievi difensivi prospettati sono connotati da assoluta novità della questione con gli stessi posta, non avendo costituito il tema della revoca di precedente atto da parte della P.A. oggetto del contraddittorio nelle fasi di merito, non mancandosi, peraltro, di osservare che in sede di autotutela ben poteva la P.A. accertare la non debenza di somme erogate in favore del dipendente, posto che il diritto al rimborso delle spese legali in favore del predetto trova la sua causa direttamente nella legge, e che un precedente orientamento interpretativo poteva rivelarsi erroneo alla luce di una diversa valutazione conforme a legge, che si rivelasse maggiormente aderente alla natura dei fatti posti a carico del dipendente;

2.3. che il terzo motivo è inammissibile nella misura in cui la dedotta insufficienza e contraddittoria motivazione della sentenza è nella sostanza, come si evince dall’esposizione del motivo, riferita a vizi del provvedimento della P.A. reso asseritamente in seguito a parere dell’Avvocatura contenuto nella nota 43681 del 11.10.2007, anch’essa non solo non riprodotta quanto al suo tenore nel motivo di impugnazione, ma neanche depositata, in dispregio dei principi sanciti con riguardo alla ritualità del mezzo di impugnazione, con riflessi sulla ammissibilità e procedibilità dello stesso;

2.4. che, infine, deve rilevarsi l’infondatezza della censura relativa alla dedotta violazione della L. n. 135 del 1997, art. 18 posto che in tema di rimborso delle spese legali, l’amministrazione è legittimata a contribuire alla difesa del suo dipendente imputato in un procedimento penale se sussiste un proprio interesse specifico, da individuarsi qualora l’attività oggetto dell’imputazione sia connessa all’espletamento del servizio o all’assolvimento di compiti istituzionali;

che ne consegue che il diritto al rimborso del pubblico dipendente va escluso nel caso in cui l’amministrazione abbia, al contrario, l’interesse a vedere sanzionate le attività abusive compiute dal soggetto in violazione dei doveri d’ufficio ed al fine di perseguire utili privati e che appare, pertanto, corretto il ragionamento secondo il quale già le imputazioni, come trascritte dalla stessa Corte di appello nella motivazione (“Peculato e riciclaggio aggravato per fatti e atti connessi con l’espletamento del servizio quale impiegato civile presso la Questura di Agrigento, ufficio passaporti… asportazione delle marche o non applicazione delle stesse con conseguente riciclaggio in fase di ricezione ed elaborazione delle marche contraffatte”), escludessero qualsiasi collegamento fra i fatti contestati e l’espletamento del servizio da parte del L.C.;

che la decisione è in linea con consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità (cfr., tra le altre, Cass. 30.10.2013 n. 24480, Cass. 5.2.2016 n. 2366), atteso che non si verteva nell’ambito di una attività imputabile all’Amministrazione che, per sua natura, si ricollegasse necessariamente all’esecuzione dell’incarico conferito, e cioè tale che, rappresentando il rischio inerente all’esecuzione di esso, potesse dare luogo al rimborso delle spese legali, essendo quella contestata un’attività esclusivamente attinente alla sfera privata del soggetto e che nel rapporto di servizio aveva una mera occasione;

che, infatti, la ipotizzata asportazione delle marche o la loro mancata applicazione con conseguente riciclaggio era, nella stessa ipotesi accusatoria, svolta in danno dell’Amministrazione e che il comportamento penalmente rilevante non era stato, dunque, compiuto per conto, nel nome e nell’interesse dell’Amministrazione;

che è pacifico che l’Amministrazione è legittimata a contribuire alla difesa del suo dipendente imputato in un procedimento penale semprechè sussista un interesse specifico al riguardo e tale interesse deve individuarsi qualora sussista imputabilità dell’attività all’Amministrazione stessa e dunque una diretta connessione di tale attività con il fine pubblico (così Cass. 10 marzo 2011, n. 5718; Cass. 30 ottobre 2013, n. 24480, Cass. 24 novembre 2008, n. 27871 nonchè Consiglio di Stato 26 febbraio 2013, n. 1190, Consiglio di Stato 22 dicembre 1993, n. 1392);

che i suddetti elementi della imputabilità dell’attività all’Amministrazione e della diretta connessione dell’attività stessa con il fine pubblico correttamente sono stati, dunque, reputati mancanti nella fattispecie in esame, essendo stata ravvisata un’ipotesi in cui sussisteva, al contrario, l’interesse dell’Amministrazione a vedere sanzionate le eventuali attività abusive compiute dal soggetto svolgente un servizio alle sue dipendenze, non avendo, poi, la circostanza dell’assoluzione del L.C. alcuna incidenza rispetto al giudizio di non attribuibilità all’Amministrazione dell’attività in contestazione e di irriconducibilità ai suoi fini istituzionali, così come non rileva la mancata costituzione di parte civile dell’Amministrazione nel giudizio penale o la mancata instaurazione di un procedimento disciplinare;

3. che, pertanto, in conformità alla proposta del relatore, il ricorso va rigettato con ordinanza, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., n. 5, non rivestendo alcuna incidenza ai fini di una diversa soluzione della controversia i rilievi formulati in memoria, posto che gli stessi tendono a ribadire quanto già esposto nei motivi, senza aggiungere elementi ulteriori che non siano stati già oggetto di valutazione nelle argomentazioni sopra svolte, anche con riguardo all’onere di indicare nel ricorso la sede di rinvenimento di documenti posti a sostegno delle censure;

4. che, quanto alle spese del giudizio, le stesse seguono la soccombenza del ricorrente e si determinano nella misura di cui al dispositivo;

che sussistono le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

PQM

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonchè al rimborso delle spese generali in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis citato D.P.R..

Così deciso in Roma, il 7 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 6 aprile 2017

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