Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 898 del 17/01/2020

Cassazione civile sez. trib., 17/01/2020, (ud. 22/10/2019, dep. 17/01/2020), n.898

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sui ricorso 28258-2016 proposto da:

IMMOBILIARE MELINDA DI V.M. & C SAS, in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

Varese, Via Maspero n. 5, e rappresentata e difesa dall’avvocato

SALVATORE LORENZO CAMPO, giusta procura in calce;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI GALLARATE, in persona del Sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA VITTORIA COLONNA 39, presso lo

studio dell’avvocato EREDE BONELLI, rappresentato e difeso

dall’avvocato DOMENICO IELO, giusta procura in calce;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 12322/2016 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

di ROMA, depositata il 15/062016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/10/2019 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

AUGUSTINIS UMBERTO che ha concluso per l’inammissibilità del

ricorso;

udito per il ricorrente l’Avvocato CAMPO che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso;

udito per il controricorrente l’Avvocato TELO che ha chiesto il

rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

L’Immobiliare Melinda di V.M. & C. s.a.s. ha proposto ricorso per revocazione, ai sensi dell’art. 391 bis c.p.c., e dell’art. 395 c.p.c., n. 4, della sentenza n. 12322/2016, depositata dalla Corte di cassazione il 15.06.2016, con la quale, in riforma della decisione assunta dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia n. 121/2011, era rigettato il ricorso introduttivo della società avverso l’avviso di accertamento e di liquidazione emesso dal Comune di Gallarate per il pagamento dell’ICI relativa alla annualità 2004 per immobili censiti nella categoria D.

Il contenzioso seguito all’atto impositivo aveva visto l’accoglimento del ricorso della società dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Varese ed alla Commissione Regionale della Lombardia. Nel successivo giudizio di legittimità era invece accolta l’impugnazione del Comune di Gallarate, con cassazione della sentenza e decisione nel merito, con la quale era rigettato il ricorso introduttivo della contribuente.

Con la decisione la Corte di cassazione ha ritenuto correttamente applicata ai fini ICI la rendita catastale attribuita dall’ente territoriale all’immobile della società, con espresso richiamo alla L. n. 342 del 2000, art. 74, comma 1.

Avverso la sentenza della Corte la società ha invocato la revocazione ex art. 391 bis c.p.c. e art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, dolendosi della circostanza che, a sua detta, la decisione è frutto di “errori di fatto risultanti dagli atti e documenti della causa”, avendo deciso la controversia collocandola nella fattispecie prevista dalla L. n. 342 del 2000, art. 74, comma 3, relativa alla attribuzione o modificazione di rendita “entro il 31.12.1999, anzichè in quella prevista dal medesimo articolo, comma 1, disciplinante l’attribuzione o modificazione della rendita catastale in data successiva all’1.01.2000.

Ha chiesto dunque la correzione dell’errore materiale e contestualmente la revocazione della sentenza e, con riguardo alla fase rescissoria, la definitiva conferma del ricorso introduttivo.

Si è costituito il Comune di Gallarate, eccependo l’inammissibilità del ricorso, di cui ha chiesto il rigetto.

All’udienza pubblica del 22 ottobre 2019, dopo la discussione, le parti ed il P.G. hanno concluso. La causa è stata dunque riservata per la decisione. E’ stata depositata memoria ex art. 378 c.p.c.

Diritto

RAGIONI DI DIRITTO

Deve preliminarmente esaminarsi l’eccepita inammissibilità del ricorso, che il controricorrente solleva sulla richiesta di correzione di errore materiale, nonchè relativamente ai presupposti della impugnazione per revocazione.

Nel ricorso la società, dopo aver descritto la vicenda giuridica e processuale, soffermandosi sulla assenza del perfezionamento della notifica di attribuzione della rendita catastale all’immobile classificato nella categoria D, afferma che “…è evidente, dalla esposizione della motivazione della stessa sentenza, che il Supremo Collegio ha valutato e deciso la specifica controversia in oggetto e, più precisamente, la “variazione della rendita catastale di un immobile avvenuta dopo l’anno 2000″, come se, invece, si trattasse di una variazione del valore catastale avvenuta prima dell’anno 2000”. Nella premessa del ricorso ha affermato che “il Collegio della Corte di Cassazione, essendo stato indotto in errore materiale, risultante dagli atti di causa ed, in particolare, dal contenuto della “Memoria” ex art. 378 c.p.c., depositata per l’udienza del 19/05/2016 da controparte, ha applicato alla fattispecie in contestazione la normativa disciplinata dall’art. 74, comma 3, anzichè quella prevista dalla stessa L. n. 342 del 2000, art. 74, comma 1″.

Deve innanzitutto dichiararsi l’inammissibilità della richiesta di correzione di errore materiale. A parte che il contenuto di tutto il ricorso è volto a dimostrare l’errore revocatorio in cui la ricorrente ritiene incorso il giudice di legittimità, non già l’errore materiale, nella giurisprudenza di legittimità si è affermato che il procedimento per la correzione degli errori materiali di cui all’art. 287 c.p.c. è esperibile per ovviare ad un difetto di corrispondenza fra l’ideazione del giudice e la sua materiale rappresentazione grafica, chiaramente rilevabile dal testo stesso del provvedimento mediante il semplice confronto della parte del documento che ne è inficiata con le considerazioni contenute in motivazione, senza che possa incidere sul contenuto concettuale e sostanziale della decisione (Cass., sent. n. 816/2000; 572/2019). Non è certo questa la fattispecie introdotta con il ricorso ora all’esame della Corte.

Quanto al giudizio di revocazione, si è affermato che la norma circoscrive la rilevanza e decisività dell’errore di fatto al solo caso in cui la decisione sia fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità sia incontrastabilmente esclusa ovvero sull’inesistenza di un fatto la cui verità sia positivamente stabilita, sempre che il fatto non abbia costituito un punto controverso sul quale il giudice si sia poi pronunciato. Si è anche affermato che l’errore di fatto, idoneo a costituire motivo di revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4, si configura come una falsa percezione della realtà, e pertanto consiste in un errore meramente percettivo che in nessun modo coinvolge l’attività valutativa del giudice per situazioni processuali esattamente percepite nella loro oggettività; ne consegue che non è configurabile l’errore revocatorio per vizi della sentenza che investano direttamente la formulazione del giudizio sul piano logico-giuridico (Cass., Sez. L., sent. n. 844 del 2009). L’errore revocatorio deve avere inoltre i caratteri dell’assoluta evidenza e della semplice rilevabilità sulla base del solo raffronto tra la sentenza e gli atti o documenti di causa, senza necessità di argomentazioni induttive o di indagini ermeneutiche. Deve essere essenziale e decisivo. Deve risolversi esclusivamente in un vizio di assunzione del “fatto”, che può anche consistere nel contenuto degli atti processuali oggetto di cognizione del giudice (quali la sentenza impugnata o gli atti di parte), e non può quindi concernere il contenuto concettuale delle tesi difensive delle parti (cfr., tra le tante, Sez. U, nn. 13181/2013; 2008/26022; nonchè Cass., n. 22569/2013).

Nel caso di specie è sufficiente la lettura della sentenza per escludere, prima facie, che essa si fondi su un errore percettivo.

La fattispecie descritta in ricorso non evidenzia infatti alcun errore rilevabile ictu oculi, bensì denuncia un ragionamento giuridico, per illustrare il quale spende ben diciotto pagine, confermando che la pretesa revocazione non sarebbe riconducibile ai caratteri dell’assoluta evidenza e della semplice rilevabilità sulla base del solo raffronto tra la sentenza e gli atti o documenti di causa, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche.

E’ d’altronde significativo che l’oggetto del giudizio, a pag. 1 del ricorso, sia individuato come “Revocazione della sentenza per errore di fatto, risultante dagli atti, consistente nella applicazione di norma giuridica non corrispondente alla fattispecie trattata.”.

Peraltro tutte le critiche sollevate per lamentare la presunta erroneità della decisione, di cui se ne denuncia l’erroneità per essere fondata sulla ipotesi contemplata dal terzo e non dal citato art. 74, comma 1, si infrangono sul contenuto della sentenza stessa, che, a differenza di quanto afferma il ricorrente, ha applicato proprio il comma 1, come interpretato nei precedenti giurisprudenziali citati in pronuncia. La semplice rappresentazione della fattispecie evidenzia dunque che essa esula dal perimetro della revocazione di cui all’art. 395 c.p.c., n. 4, tentando invece una rivalutazione nel merito della decisione.

In conclusione il ricorso è inammissibile.

All’esito del giudizio segue la soccombenza della ricorrente nelle spese di causa, che si liquidano nella misura specificata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara il ricorso inammissibile. Condanna la parte ricorrente alla rifusione in favore del Comune di Gallarate delle spese sostenute nel giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 3.000,00 per competenze ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura forfettaria del 15% e accessori come per legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2020

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