Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8976 del 15/05/2020

Cassazione civile sez. VI, 15/05/2020, (ud. 19/12/2019, dep. 15/05/2020), n.8976

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 28440/2018 R.G. proposto da:

Comir S.r.l., rappresentata e difesa dall’Avv. Vittorio Messa;

– ricorrente –

contro

HDI Assicurazioni S.p.A., rappresentata e difesa dall’Avv. Maurizio

Romagnoli, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via

Golametto, n. 2;

– controricorrente –

e nei confronti di:

Tourvisa Italia – Tourvisa Hotel S.r.l.;

– intimata –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma, n. 1628/2018,

depositata il 13 marzo 2018;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 19 dicembre

2019 dal Consigliere Dott. Iannello Emilio.

Fatto

RILEVATO

che:

1. La Tourvisa Italia – Tourvisa Hotel S.r.l. convenne in giudizio davanti al Tribunale di Roma la Comir S.r.l. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni patiti in conseguenza dell’inadempimento dell’obbligo contrattualmente assunto di tirare a secco ed- ormeggiare la nave “(OMISSIS)” su una banchina del Tevere.

Espose a fondamento che: la motonave non era stata tirata completamente in secca; con il sopraggiungere di una piena del Tevere il natante aveva ripreso a galleggiare e, con il ritiro delle acque, era rimasto in bilico tra la banchina e lo scivolo del Lungotevere della Vittoria; nel tentativo di riportare la “(OMISSIS)” nella posizione originaria, COMIR s.r.l. aveva gravemente danneggiato lo scafo; a seguito di una seconda piena del Tevere, la motonave era parzialmente affondata; era stata incaricata del recupero un’altra società.

Costituendosi in giudizio la società convenuta declinò ogni responsabilità per quanto accaduto, chiese in via riconvenzionale la condanna di parte attrice al pagamento del corrispettivo pattuito per le operazioni di alaggio e ottenne di chiamare in garanzia la HDI Assicurazioni S.p.A. per esserne manlevata in caso di soccombenza.

Quest’ultima, a sua volta costituendosi, dedusse l’infondatezza della domanda principale proposta nei confronti della propria assicurata e l’inoperatività della garanzia.

All’esito di istruzione testimoniale il Tribunale di Roma rigettò la domanda risarcitoria proposta dall’attrice ed accolse invece quella riconvenzionale della convenuta, della quale però respinse la domanda di manleva, ponendo a carico delle soccombenti le spese di lite.

2. Interposti appello principale da Tourvisa Italia – Tourvisa Hotel S.r.l. ed appello incidentale da Comir S.r.l. (quest’ultima in relazione alla condanna al rimborso delle spese di lite in favore di HDI Assicurazioni S.p.A.), la Corte d’appello di Roma, sulla scorta dell’espletata c.t.u., in parziale accoglimento del solo appello principale e in conseguente riforma della decisione di primo grado: ha condannato Comir S.r.l. al pagamento, in favore di Tourvisa Italia -Tourvisa Hotel S.r.l., della somma di Euro 442.499,56, oltre interessi legali dalla sentenza al saldo; ha rigettato la domanda riconvenzionale proposta da Comir S.r.l.; ha condannato quest’ultima al rimborso in favore dell’appellante principale delle spese del giudizio di primo grado; ha confermato la sentenza del Tribunale per i capi riguardanti HDI Assicurazioni S.p.A.; ha condannato Comir S.r.l. al pagamento, in favore di entrambe le altre parti, delle spese del giudizio di appello.

3. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione Comir S.r.l. affidato a quattro motivi, cui resiste, con controricorso, HDI Assicurazioni S.p.A..

Tourvisa Italia – Tourvisa Hotel S.r.l. non svolge difese nella presente sede.

4. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di ricorso Comir S.r.l. deduce, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c..

Premesse alcune considerazioni sulle funzioni e sui limiti a fini istruttori della consulenza tecnica d’ufficio, lamenta che, nel caso di specie, quella disposta in appello ha avuto “carattere eminentemente esplorativo” per colmare l’inerzia, di parte appellante, nel dimostrare i fatti posti a fondamento della pretesa creditoria avanzata.

Deduce in tal senso, in particolare, che Tourvisa S.r.l. non ha provato:

– in cosa consistessero gli obblighi contrattuali asseritamente inadempiuti (assumendo la ricorrente, al riguardo, che essa aveva assunto esclusivamente l’incarico di tirare in secco l’imbarcazione, e non anche compiti di ancoraggio o custodia);

– l’entità del danno che il natante avrebbe riportato nella circostanza, non avendo chiesto un accertamento tecnico preventivo nè richiesto l’espletamento di c.t.u. nel corso del giudizio di primo grado, affidandosi soltanto alle fatture ed a perizia di parte;

– il nesso causale tra la condotta asseritamente inadempiente e i danni lamentati.

2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., “ovvero incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie ed erroneo apprezzamento dell’esito della prova”.

La censura investe l’affermazione contenuta in sentenza secondo cui, “per quanto riguarda i costi delle relative riparazioni e i costi di recupero della “(OMISSIS)”, possono ritenersi congrui gli importi risultanti dalle fatture prodotte da Tourvisa Italia S.r.l., essendo in linea con i costi medi di mercato rilevati dal c.t.u. con riferimento all’epoca dei fatti”.

Si lamenta in sostanza il travisamento, sul punto, delle conclusioni del c.t.u., le quali erano nel senso della “non congruità” dell’importo richiesto a titolo risarcitorio dall’attrice/appellante principale.

La valutazione espressa dalla Corte d’appello si discosterebbe pertanto da quelle desumibili dalla relazione di consulenza, senza che di ciò sia offerta in sentenza alcuna motivazione.

3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 343 e 346 c.p.c., per avere la Corte d’appello ritenuto inaccoglibile la domanda di garanzia proposta, nella comparsa conclusionale depositata nel giudizio d’appello, nei confronti della compagnia assicuratrice, sulla base del rilievo che la stessa avrebbe dovuto essere proposta tempestivamente -con appello incidentale e considerato, inoltre, che tale domanda in appello era da considerarsi comunque tardiva, poichè formulata nella comparsa conclusionale invece che nella comparsa di costituzione e risposta.

Rileva che, secondo principio affermato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte con sentenza n. 7700 del 2016, in caso di rigetto della domanda principale e conseguente omessa pronuncia sulla domanda di garanzia condizionata all’accoglimento, la devoluzione di quest’ultima al giudice investito dell’appello sulla domanda principale non richiede la proposizione di appello incidentale.

Soggiunge che l’onere di riproposizione della domanda rimasta assorbita in appello, ex art. 346 c.p.c., non necessariamente deve essere assolto con il primo atto difensivo, in mancanza di espressa previsione di termini al riguardo.

4. Con il quarto motivo la ricorrente infine denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., in relazione alla statuita condanna al rimborso delle spese processuali in favore della compagnia di assicurazioni chiamata in garanzia.

Rileva che in primo grado essa era risultata interamente vittoriosa e che, ciononostante, era stata condannata alla rifusione delle spese di lite sostenute dalla terza chiamata in giudizio: ciò in ragione del rigetto della domanda di manleva che però era stata proposta solo in via subordinata ed eventuale, nell’ipotesi, non verificatasi, di soccombenza nei confronti di Tourvisa Italia S.r.l..

Lamenta quindi che erroneamente la Corte d’appello ha confermato tale statuizione condannando a sua volta essa ricorrente al pagamento delle spese del grado.

5. Il primo motivo è inammissibile, sotto diversi profili.

5.1. E’ inosservato, anzitutto, l’onere di specifica indicazione degli atti e documenti su cui la doglianza è fondata, in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

Non sono invero specificate le parti della consulenza tecnica d’ufficio nella quale questa rivelerebbe il dedotto “carattere eminentemente esplorativo”, nè del resto tale documento viene compiutamente localizzato all’interno del fascicolo processuale acquisito in questa sede.

5.2. La doglianza, peraltro, non si confronta con la motivazione sul punto offerta in sentenza, la quale fa specifico riferimento (v. p. 5.1.1 della sentenza, pagg. 4 s.), al fine in particolare di individuare il contenuto delle obbligazioni gravanti su Comir S.r.l., ad elementi ritualmente acquisiti al di fuori della c.t.u. (quali il fax del 26 ottobre 2005 contenente l’offerta contrattuale di Comir S.r.l. e lo stesso contenuto della comparsa di costituzione in primo grado di quest’ultima società).

5.3. La censura di violazione della regola sull’onere della prova, poi, non è dedotta nei termini in cui può esserlo secondo Cass. Sez. U. 05/08/2016, n. 16598 (principio affermato in motivazione, pag. 33, p. 14, secondo cui “la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo Vonus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni”; v. anche Cass. n. 23594 del 2017, cit.; Cass. 17/06/2013, n. 15107).

La contestazione, peraltro generica e meramente oppositiva, attiene piuttosto al merito della valutazione operata circa l’assolvimento di tale onere e come tale impinge nel diverso piano -non attinto dal motivo di ricorso, tantomeno nei termini e nel rispetto dei limiti in cui può esserlo ai sensi del novellato testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – della sufficienza e della intrinseca coerenza della motivazione adottata, non certo in quello del rispetto delle regole di riparto dell’onere probatorio.

6. Anche il secondo motivo, afferente specificamente alla quantificazione del danno, non si sottrae ad analoga valutazione d’inammissibilità.

6.1. Anche per esso è anzitutto da rilevare l’inosservanza dell’onere di specifica indicazione dell’atto richiamato, in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, essendo la consulenza tecnica d’ufficio richiamata solo per un limitato stralcio, che non consente di verificarne il reale significato e il rilievo che esso assume nell’ambito delle complessive valutazioni e conclusioni rassegnate dal consulente, tanto più in considerazione del fatto che altre parti di questa sono richiamate in sentenza a supporto dell’ivi espresso convincimento; anche in tal caso manca, del resto, una compiuta localizzazione dell’atto nel fascicolo processuale.

6.2. L’aspecificità della censura è apprezzabile anche in considerazione del fatto che, diversamente da quanto in essa postulato, la motivazione offerta sul punto della Corte d’appello (v. p. 5.4, pagg. 8 ss.) dà adeguato conto del convincimento espresso circa l’idoneità degli elementi acquisiti a condurre alla stima dei danni, con ciò esprimendo una valutazione di merito in astratto sindacabile in questa sede solo per “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) non già in ragione della sola discrasia tra tale valutazione e quella espressa dall’ausiliario.

Peraltro, alla stregua di quanto dedotto in ricorso, le diverse indicazioni offerte dal c.t.u. non riguardavano i costi medi di mercato posti a base del calcolo operato in sentenza (la quale, del resto, richiama al riguardo proprio le indicazioni offerte dall’ausiliario), bensì l’accertamento in fatto dell’effettiva natura ed entità dei lavori di riparazione effettuati.

Sul punto, non squisitamente tecnico, la Corte d’appello offre una motivazione che prescinde da tale valutazione del c.t.u. e si correla direttamente agli elementi istruttori acquisiti, in virtù dei quali ha espresso il proprio convincimento, peraltro diversamente articolato con riferimento ai vari costi dedotti (alcuni dei quali invero espunti dal calcolo).

In tale direzione le censure mancano di evidenziare un “fatto storico” e decisivo, il cui esame sia stato omesso, poichè non può ricondursi, di per sè, alla nozione di “fatto storico” (principale o secondario) la consulenza tecnica d’ufficio in quanto tale.

Giova, infatti, precisare che il “fatto storico” di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 è accadimento fenomenico esterno alla dinamica propria del processo, ossia a quella sequela di atti e di attività disciplinate dal codice di rito che, dunque, viene a caratterizzare la diversa natura e portata del “fatto processuale”, il quale segna il differente ambito del vizio deducibile, in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 (v. Cass. 09/07/2019, n. 18328).

E’, pertanto, evidente che, avendo il giudice d’appello motivato specificamente le ragioni per le quali ha ritenuto di pervenire ad una valutazione, in tesi, diversa da quella espressa dal consulente, e non avendo il ricorrente evidenziato quale “fatto storico”, decisivo, egli abbia omesso di esaminare, la doglianza si risolve nella prospettazione di un vizio di motivazione, nella specie non dedotta, tanto meno in modo coerente con il paradigma di cui all’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ma semmai evocante quello della previgente disposizione processuale.

6.3. E’ appena il caso di soggiungere che la violazione dell’art. 116 c.p.c., è idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, non certo secondo la prospettazione evocata in ricorso (la quale si risolve, infatti, in una diversa ricostruzione del fatto rispetto a quella affermata dalla sentenza impugnata, attraverso la proposta di una diversa lettura delle risultanze istruttorie), ma solo quando il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime (Cass. Sez. U. 05/08/2016, n. 16598; Cass. 10/06/2016, n. 11892).

Un tale vizio non è certamente riscontrabile nella specie.

7. Il terzo motivo è inammissibile per aspecificità.

7.1. Muove da una premessa (quella che il giudice di primo grado non abbia pronunciato sulla domanda di manleva, ritenendola assorbita) diversa da quella posta in sentenza, nella quale è evidenziato che la domanda di manleva era stata espressamente rigettata dal primo giudice, sia in motivazione che nel dispositivo, desumendosene la corretta conseguenza che la questione avrebbe dovuto essere riproposta con appello incidentale (cfr. ex aliis Cass. Sez. U. 12/05/2017, n. 11799).

L’inammissibilità è con maggiore evidenza apprezzabile nella specie a fronte dell’espressa osservazione, contenuta in sentenza e sulla quale la ricorrente tace del tutto, secondo cui il principio, qui nuovamente invocato, affermato da Cass. Sez. U. n. 7700 del 19/04/2016, nella specie “non viene in rilievo perchè, avendo il Tribunale espressamente rigettato in motivazione e nel dispositivo la domanda di manleva, Comir S.r.l. non poteva limitarsi a riproporla (in appello) ai sensi dell’art. 346 c.p.c., ma aveva l’onere di proporre appello incidentale (condizionato) per ottenere la riforma del relativo capo della decisione ai sensi dell’art. 343 c.p.c.”.

7.2. Rilievo meramente aggiuntivo e subordinato assume poi in sentenza la considerazione della tardiva iterazione in appello della domanda di manleva, in quanto formulata per la prima volta solo in comparsa conclusionale.

Al riguardo mette conto comunque osservare che – nel caso in cui si fosse effettivamente trattato di questione assorbita in primo grado e-fosse pertanto venuto in rilievo l’onere di mera riproposizione della domanda ai sensi dell’art. 346 c.p.c. – la censura svolta contro detta seconda ratio decidendi si rivelerebbe infondata alla luce del principio affermato da Cass. Sez. U. 21/03/2019, n. 7940, secondo cui “nel processo ordinario di cognizione risultante dalla novella di cui alla L. n. 353 del 1990 e dalle successive modifiche, le parti del processo di impugnazione – che costituisce pur sempre una revisio prioris istantiae nel rispetto dell’autoresponsabilità e dell’affidamento processuale, sono tenute, per sottrarsi alla presunzione di rinuncia (al di fuori delle ipotesi di domande e di eccezioni esaminate e rigettate, anche implicitamente, dal primo giudice, per le quali è necessario proporre appello incidentale: art. 343 c.p.c.), a riproporre ai sensi dell’art. 346 c.p.c. le domande e le eccezioni non accolte in primo grado, in quanto rimaste assorbite, con il primo atto difensivo e comunque non oltre la prima udienza, trattandosi di fatti rientranti già nel thema probandum e nel thema decidendum del giudizio di primo grado”.

8. Il quarto motivo di ricorso è parimenti inammissibile.

L’appello incidentale proposto da Comir S.r.l. – che, giova ricordare, secondo quanto evidenziato in sentenza, era affidato ad un solo motivo il quale a sua volta investiva esclusivamente il capo della decisione di primo grado relativo alla condanna alle spese in favore della compagnia di assicurazione chiamata in garanzia – è stato rigettato dalla Corte territoriale sulla base del seguente testuale rilievo (p. 6, pag. 10): “l’accoglimento dell’appello principale comporta il rigetto dell’appello incidentale di Comir S.r.l. non essendo Tourvisa Italia S.r.l. soccombente nel presente giudizio”.

Il rilievo evidentemente (e correttamente) implica che ai fini del regolamento delle spese nei rapporti tra attrice/appellante e convenuta/appellante incidentale e tra quest’ultima e la terza chiamata in garanzia, secondo il principio della soccombenza, debba aversi riguardo all’esito finale del giudizio: il quale nella specie esclude che parte attrice/appellante possa considerarsi soccombente e come tale tenuta alle spese anche nei confronti della chiamata in causa.

La ricorrente, non tenendo conto di tale motivazione, correla invece la censura al solo esito del giudizio di primo grado, assumendo che la soccombenza di parte attrice in quel grado avrebbe dovuto condurre alla condanna della stessa, e non di essa convenuta, al pagamento delle spese sostenute dal terzo chiamato in causa a scopo di garanzia.

Una tale impostazione censoria è però inammissibile sotto un duplice profilo.

8.1. Anzitutto, ed in via preliminare ed assorbente, poichè non tiene conto che, come si è visto esaminando il terzo motivo di ricorso, il Tribunale ha espressamente statuito il rigetto della domanda di garanzia, ciò di per sè integrando il presupposto della soccombenza idoneo a giustificare, già in quella sede, la condanna alle spese della stessa convenuta/chiamante e non di parte attrice, ancorchè soccombente nel rapporto interno tra essa e la convenuta.

8.2. In secondo luogo perchè muove da una prospettiva limitata alla considerazione dell’esito del solo primo grado di giudizio in contrasto con il principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità (donde l’inammissibilità della censura, sotto tale profilo, ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., n. 1) secondo cui “il criterio della soccombenza, al fine di attribuire l’onere delle spese processuali, non si fraziona a seconda dell’esito delle varie fasi del giudizio, ma va riferito unitariamente all’esito finale della lite, senza che rilevi che in qualche grado o fase del giudizio la parte poi definitivamente soccombente abbia conseguito un esito ad essa favorevole” (Cass. 13/03/2013, n. 6369; 29/09/2011, n. 19880; 22/06/2004, n. 11599; 06/06/2003, n. 9060; 14/12/2000, n. 15787).

9. Il ricorso deve essere pertanto dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, art. 1-bis.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, art. 1-bis.

Così deciso in Roma, il 19 dicembre 2019.

Depositato in cancelleria il 15 maggio 2020

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