Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8957 del 31/03/2021

Cassazione civile sez. lav., 31/03/2021, (ud. 11/11/2020, dep. 31/03/2021), n.8957

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARIENZO Rosa – Presidente –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 23747/2017 proposto da:

BANCA DI CREDITO COOPERATIVO DI NETTUNO SOCIETA’ COOPERATIVA, in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA AURELIA 190, presso lo studio dell’avvocato

FELICE TESTA, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

P.D., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

DELL’ASTRONOMIA, 5, presso lo studio dell’avvocato CARLO PERENO, che

la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 813/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 13/04/2017 R.G.N. 1730//2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/11/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPINA LEO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato FELICE TESTA;

udito l’Avvocato CARLO PERENA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Velletri, con sentenza resa in data 18.11.2014, in parziale accoglimento del ricorso proposto da P.D., nei confronti della Banca di Credito Cooperativo di Nettuno Soc. Coop., annullava il licenziamento alla stessa intimato per giusta causa l’1.4.2010 ed ordinava la reintegrazione della ricorrente nel posto di lavoro, condannando la Banca a versare una indennità corrispondente al 40% della retribuzione globale di fatto, pari alla somma lorda di Euro 4.961,17 mensili, dall’1.4.2010 al 18.4.2011, sino all’effettiva reintegrazione, oltre accessori e contributi previdenziali ed assistenziali.

Avverso tale pronunzia, proponeva tempestivo appello la Banca di Credito Cooperativo di Nettuno Soc. Coop., chiedendone la riforma integrale; la P., a sua volta, proponeva appello incidentale con il quale lamentava che il primo giudice avesse “erroneamente: 1) ridotto in via equitativa il risarcimento del danno della L. n. 300 del 1970, ex art. 18, da liquidare invece per intero, ossia in misura pari alla retribuzione globale di fatto dal licenziamento fino all’effettiva reintegrazione; 2) fatto applicazione dell’art. 1227 c.c., per aver ella atteso un anno prima di depositare il ricorso, omettendo di considerare che fino al (OMISSIS) ella era stata in malattia, sicchè l’inerzia nell’iniziativa giudiziaria trovava ampia giustificazione; 3) escluso il demansionamento, a causa di un’errata valutazione delle risultanze istruttorie; 4) escluso il mobbing a causa della mancata valutazione dei molteplici elementi pur da lei forniti, integranti quantomeno presunzioni semplici; ritenuto non provato il danno non patrimoniale; 4) in subordine, escluso il motivo ritorsivo o illecito del licenziamento”.

La Corte di Appello di Roma, con la sentenza n. 813/2017, pubblicata il 13.4.2017, accoglieva parzialmente l’appello principale e quello incidentale – confermando, nel resto, la gravata sentenza – e, per l’effetto, condannava la datrice di lavoro a risarcire alla P. il danno da licenziamento illegittimo, liquidato in misura pari alla retribuzione globale di fatto, dal licenziamento sino alla effettiva reintegrazione, con l’esclusione del premio di risultato, oltre rivalutazione monetaria secondo indici ISTAT (famiglie di operai e impiegati) ed interessi legali sulle somme via via rivalutate, con decorrenza dalla maturazione di ciascun rateo mensile di danno sino all’effettivo soddisfo.

La Corte di merito, per quanto ancora di interesse in questa sede, osservava che “effettivamente, i comportamenti contestati dalla Banca attenevano al “trattamento e possesso di dati molto rilevanti per la Banca, che esulavano dalle mansioni della P. di responsabile della filiale di (OMISSIS)” ed all'”accesso ai medesimi mediante propri user id e password per mezzo di collegamento con la cartella segreteria generale, senza aver avuto all’uopo alcuna autorizzazione”; tuttavia, posto che la Banca non ha contestato (nè comunque provato) alcun uso indebito di tali dati, si tratta di condotte che presentano una connotazione di pericolo soltanto “iniziale” (in termini penalistici si direbbero “atti preparatori”, al più un “tentativo”, come tali inidonei a giustificare la massima sanzione espulsiva…., non essendo stato peraltro contestato (nè provato) che la P. abbia salvato qualche file su un determinato supporto, nè che ne abbia fatto un uso indebito o che li abbia scambiati con terzi. E pertanto il licenziamento si rivela ancora una volta ingiustificato per sproporzione”. E sottolineava, altresì, che “la lavoratrice era stata in malattia fino al (OMISSIS), sicchè l’inerzia nell’iniziativa giudiziaria trovava ampia giustificazione. Inoltre, la circostanza della malattia della P., durata fino al (OMISSIS), non è contestata dalla Banca e, se a ciò si aggiungono le festività natalizie, il deposito del ricorso giudiziario ad aprile 2011 si rivela tempestivo”.

Per la cassazione della sentenza la Banca di Credito Cooperativo di Nettuno Soc. Coop. ha proposto ricorso affidato a due motivi ulteriormente illustrati da memoria.

P.D. ha resistito con controricorso ed ha comunicato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di deduce testualmente: “omesso esame di fatti ex art. 360, comma 1, n. 5” e si lamenta: “A. Omesso esame degli elementi soggettivi della condotta”, per mancata valutazione, da parte dei giudici di merito, della intenzionalità della condotta, nonchè della relativa incidenza sull’elemento fiduciario del rapporto e della idoneità a costituire giustificato motivo soggettivo di recesso; “B. Omesso esame del ruolo di responsabilità e del grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni”, per omessa considerazione del ruolo che la lavoratrice rivestiva all’epoca dei fatti, del grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dalla stessa e, conseguentemente, della lesione del vincolo fiduciario; “C. Omesso esame delle informazioni contenute nella cartella”, per avere la Corte di merito “erroneamente dedotto dalla “mancata adozione di accorgimenti tecnici impeditivi dell’accesso ai files di cui si tratta che quegli stessi files non erano, poi, così importanti e riservati, secondo la considerazione della stessa Banca””, senza un attento esame delle informazioni contenute in quei files.

2. Con il secondo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2106,2119 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art. 3, per avere la Corte di merito desunto la gravità della condotta dalla sua offensività ed avere, di conseguenza, escluso che, in mancanza di una effettiva dannosità della condotta, la sanzione espulsiva irrogata non fosse proporzionata all’accaduto.

1.1. Il primo motivo è inammissibile sotto diversi e concorrenti profili. Al riguardo, va, innanzitutto, osservato che, come sottolineato dalle Sezioni Unite di questa Corte (con la sentenza n. 8053 del 2014), per effetto della riforma del 2012, per un verso, è denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione); per l’altro verso, è stato introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Orbene, poichè la sentenza oggetto del giudizio di legittimità è stata pubblicata, come riferito in narrativa, il 13.4.2017, nella fattispecie si applica, ratione temporis, il nuovo testo dell’art. 360, comma 1, n. 5), come sostituito dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. n. 134 del 2012, a norma del quale la sentenza può essere impugnata con ricorso per cassazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Ma nel caso in esame, il motivo di ricorso che denuncia il vizio motivazionale non indica il fatto storico (cfr. Cass. n. 21152/2014), con carattere di decisività, che sarebbe stato oggetto di discussione tra le parti e che la Corte di Appello avrebbe omesso di esaminare, facendosi, invece, riferimento ad un “omesso esame di fatti” attinenti all’elemento soggettivo, alla responsabilità ed al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dalla P. ed al mancato esame delle informazioni contenute nei files di cui si tratta, e censurandosi, in tal modo, nella sostanza, valutazioni attinenti al merito ed in ordine alle quali, comunque, i giudici del gravame hanno dato ampia e condivisibile motivazione. Nè, tanto meno, il mezzo di impugnazione fa riferimento, alla stregua della pronunzia delle Sezioni Unite, ad un vizio della sentenza “così radicale da comportare”, in linea con “quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per mancanza di motivazione”. E, dunque, non potendosi più censurare, dopo la riforma del 2012, la motivazione relativamente al parametro della sufficienza, rimane il controllo di legittimità sulla esistenza e sulla coerenza del percorso motivazionale dei giudici di merito (cfr., ex plurimis, Cass. n. 25229/2015), che, nella specie – lo si ribadisce -, è stato condotto dalla Corte territoriale con argomentazioni logico-giuridiche del tutto congrue poste a fondamento della decisione impugnata (si vedano, in particolare, al riguardo, le pagg. 9 e 10 della sentenza, in cui si ribadisce che “non può essere ritenuta una grave forma di insubordinazione l’accesso a quei files, non seguito da un uso indebito degli stessi, considerato che l’user id e la password – pacificamente posseduti in modo legittimo dalla P. – comunque le consentivano – sul piano tecnologico e informatico – l’accesso a quei files, che dunque non erano protetti. Tanto è ammesso dalla stessa Banca, che in appello “sposta” la sua linea difensiva sul fatto che, comunque, sul piano del regolamento aziendale la P. doveva astenersi dall’accedere a quei files”; la qual cosa integra “un addebito dotato sì di una certa consistenza disciplinare, ma non di grado e gravità tali da giustificare la massima sanzione espulsiva. Peraltro, va ribadito che l’insubordinazione manifestata dalla P. è stata di grado minimo, considerato che a quell’ordine di servizio non aveva fatto seguito, da parte della Banca, l’adozione dell’accorgimento tecnologico (certamente possibile, secondo massime di comune esperienza) per impedire alla P. l’accesso a quei files mediante i suoi legittimi user id e password”).

Va, inoltre, sottolineato che nel primo motivo le censure sono direttamente ancorate all’esame di documenti – quali la lettera di conferimento dell’incarico, alla P., di direttrice responsabile di filiale del (OMISSIS) (v. pag. 18 del ricorso); “l’ordine di servizio che indicava l’ambito degli accessi consentiti alla lavoratrice, sottoscritto per conoscenza dalla stessa” (v. pag. 16 del ricorso); la lettera di contestazione disciplinare del (OMISSIS) (v. pag. 15 del ricorso); la cartella in cui erano contenute le informazioni cui avrebbe avuto illegittimamente accesso la lavoratrice (v. pag. 21 del ricorso) – che vengono solo menzionati, ma non prodotti, nè trascritti, nè indicati tra i documenti offerti in comunicazione unitamente al ricorso (ma solo come “allegati alla memoria di primo grado”: v. pag. 18 del ricorso di legittimità), in violazione del principio (arg. ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), più volte ribadito da questa Corte, che definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (cfr., ex multis, Cass. n. 14541/2014). Il ricorso per cassazione deve, infatti, contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013). Per la qual cosa, questa Corte non è stata messa in grado di poter compiutamente apprezzare la veridicità delle censure mosse dalla parte ricorrente, le quali si risolvono, quindi, in considerazioni di fatto inammissibili e sfornite di delibazione probatoria (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 24374/2015; 80/2011).

2.2. Il secondo motivo non è fondato. Al proposito, va premesso che la giusta causa di licenziamento è una nozione di legge che si viene ad inscrivere in un ambito di disposizioni caratterizzate dalla presenza di elementi “normativi” e di clausole generali (Generalklauseln) – correttezza (art. 1175 c.c.); obbligo di fedeltà, lealtà, buona fede (art. 1375 c.c.); giusta causa, appunto (art. 2119 c.c.) – il cui contenuto, elastico ed indeterminato, richiede, nel momento giudiziale e sullo sfondo di quella che è stata definita la “spirale ermeneutica” (tra fatto e diritto), di essere integrato, colmato, sia sul piano della quaestio facti che su quello della quaestio iuris, attraverso il contributo dell’interprete, mediante valutazioni e giudizi di valore desumibili dalla coscienza sociale o dal costume o dall’ordinamento giuridico o da regole proprie di determinate cerchie sociali o di particolari discipline o arti o professioni, alla cui stregua poter adeguatamente individuare e delibare altresì le circostanze più concludenti e più pertinenti rispetto a quelle regole, a quelle valutazioni, a quei giudizi di valore, e tali non solo da contribuire, mediante la loro sussunzione, alla prospettazione e configurabilità della tota res (realtà fattuale e regulae iuris), ma da consentire, inoltre, al giudice di pervenire, sulla scorta di detta complessa realtà, alla soluzione più conforme al diritto, oltre che più ragionevole e consona.

Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura di norma giuridica, come in più occasioni sottolineato da questa Corte, e la violazione delle stesse è deducibile in sede di legittimità come vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Pertanto, l’accertamento della ricorrenza, in concreto, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, è sindacabile nel giudizio di legittimità, a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli “standards” conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale (cfr. Cass. nn. 14319/2017; 25044/15; 8367/2014; 6498/2012; 5095/11). E ciò, in quanto, il giudizio di legittimità deve estendersi pienamente, e non solo per i profili riguardanti la logicità e la completezza della motivazione, al modo in cui il giudice di merito abbia, in concreto, applicato una clausola generale, perchè nel farlo compie, appunto, un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma, dando concretezza a quella parte mobile della stessa che il legislatore ha introdotto per consentire l’adeguamento ai mutamenti del contesto storico-sociale (Cass., S.U., n. 2572/2012).

Nel motivo di ricorso qui in esame, le censure formulate alla sentenza della Corte di Appello appaiono inconferenti, in quanto non evidenziano gli “standards” dai quali il Collegio di merito si sarebbe discostato. E, pertanto, non risulta, in sostanza, inciso da errores in iudicando l’iter decisionale della Corte di merito, perchè la sentenza impugnata si sofferma sul fatto che il comportamento della lavoratrice, ed in particolare la connotazione dello stesso quale stadio solo iniziale e preparatorio di comportamenti disciplinarmente rilevanti mai realizzati, non risulta di per sè incompatibile con la possibilità di prosecuzione del rapporto di lavoro e non integra la giusta causa di recesso.

Ed invero, poichè, secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, il licenziamento disciplinare è giustificato nei casi in cui i fatti attribuiti al lavoratore rivestano il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da ledere irrimediabilmente l’elemento fiduciario, il giudice di merito deve valutare gli aspetti concreti che attengono principalmente alla natura del rapporto di lavoro, alla posizione delle parti, al nocumento arrecato, alla portata soggettiva dei fatti, ai motivi ed all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo (v., ex plurimis, Cass. n. 25608/2014). E, nella fattispecie, i giudici di seconda istanza, nella valutazione della proporzionalità tra illecito disciplinare e sanzione applicata, si sono attenuti a tale insegnamento ed hanno tratto le conseguenze logico-giuridiche, in termini di proporzionalità, tra fatto commesso e sanzione irrogata, anche in considerazione del fatto che l’addebito contestato alla P., “dotato di una certa consistenza disciplinare”, non fosse “di grado e gravità tali da giustificare la massima sanzione espulsiva” e che “l’insubordinazione manifestata dalla lavoratrice” fosse “di grado minimo, dato che la Banca” non aveva adottato alcun “accorgimento tecnologico (certamente possibile, secondo massime di comune esperienza), finalizzato ad impedire alla P. l’accesso a quei files mediante i suoi legittimi user id e password”. E, dunque, hanno valutato che la condotta della lavoratrice non fosse così grave da compromettere il vincolo fiduciario in modo tale da non consentire la prosecuzione del rapporto o da mettere in dubbio la futura correttezza dell’adempimento da parte della stessa (cfr., tra le molte, Cass. n. 25044/2015), stante anche l’assenza di dannosità della condotta medesima, accertata in concreto (cfr. Cass. n. 8826/2017), ed in mancanza di elementi delibatori atti a dimostrare il contrario. E ciò, conformemente agli arresti giurisprudenziali di legittimità, alla stregua dei quali “In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della valutazione della proporzionalità, è sempre necessario valutare in concreto se il comportamento tenuto sia suscettibile, per la sua gravità, a compromettere la fiducia del datore di lavoro ed a far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali….secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato” (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 18195/2019; 12787/2019; 6606/2018).

Pertanto, alla stregua di tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va rigettato.

3. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

4. Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, secondo quanto specificato in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 7.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 11 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2021

 

 

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