Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8944 del 14/05/2020

Cassazione civile sez. I, 14/05/2020, (ud. 06/02/2020, dep. 14/05/2020), n.8944

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28906/2016 proposto da:

Menghi Shoes S.r.l., in persona del legale rappresentante pro

tempore, domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria

Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa

dall’avvocato Nicolini Giovanni, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Teddy S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, Via Ortigara n. 3, presso lo

studio dell’avvocato Aureli Michele, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato Casanti Filippo, giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1806/2016 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 11/10/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/02/2020 dal Cons. Dott. FALABELLA MASSIMO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato Nicolini Giovanni che si riporta

e chiede l’accoglimento;

udito, per la controricorrente, l’Avvocato Casanti Filippo che si

riporta.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Menghi Shoes s.r.l. conveniva in giudizio Teddy s.p.a. innanzi al Tribunale di Bologna deducendo che la convenuta aveva acquistato e commercializzato calzature (sandali) che costituivano copia di propri prodotti, pure oggetto di alcuni modelli, italiani, registrati e comunitari, non registrati.

Nella resistenza di Teddy, il Tribunale accoglieva le domande con cui erano lamentate la contraffazione dei modelli e la concorrenza sleale per imitazione servile, e condannava la convenuta stessa al risarcimento del danno, che era liquidato in Euro 250.000,00.

2. – Proponeva appello la società soccombente in primo grado.

La Corte di Bologna, con sentenza dell’11 ottobre 2016, in parziale riforma della pronuncia impugnata, rigettava la domanda che aveva titolo dell’illecito concorrenziale e riduceva l’ammontare del risarcimento del danno a Euro 125.000,00.

Per quanto qui rileva, la Corte emiliana osservava che la domanda di concorrenza sleale, in quanto basata sui medesimi elementi di fatto posti a fondamento della domanda relativa alla contraffazione, costituiva una non consentita duplicazione di questa; rilevava, inoltre, non essere prova che il prodotto della convenuta fosse ricondotto dal consumatore medio all’appellata: e ciò sia in quanto altre case di moda “apparivano sui prodotti Menghi”, sia in quanto i prodotti in contraffazione recavano il marchio (OMISSIS) e mostravano la provenienza da Teddy. Lo stesso giudice distrettuale osservava, inoltre, che il danno risarcibile risultava essere stato quantificato in modo eccessivo. Osservava, in proposito: che l’importo dell’utile lordo stimato per la società appellante, e pari a Euro 91.417,14, non era comprensivo dei costi particolari da questa affrontati; che andava considerato il rapido decadimento dei modelli nel mondo della moda e alcune specifiche voci correlate all’attività produttiva di Menghi, quali il possibile riutilizzo degli stampi e l’ammortamento; che, con riferimento al danno all’immagine, non risultavano provati annullamenti di ordini, lettere di contestazione o proteste dei consumatori finali; che il tempestivo ritiro dei prodotti di Teddy dal mercato aveva contenuto tale pregiudizio. Il giudice distrettuale, pertanto, quantificava in Euro 100.000,00 il danno patrimoniale e in Euro 25.000,00 quello non patrimoniale.

3. – Contro tale pronuncia ricorre per cassazione, con due motivi di impugnazione, Menghi Shoes. Teddy resiste con controricorso. Sono state depositate memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Col primo motivo di ricorso vengono denunciate violazione e falsa applicazione dell’art. 2598 c.c., n. 1 e omesso esame di fatti decisivi. La censura investe la decisione impugnata nella parte in cui ha escluso che la medesima condotta potesse integrare, al contempo, contraffazione del modello e concorrenza sleale per imitazione servile, in presenza dell’appropriazione di forme individualizzanti. Secondo la ricorrente, “nulla impedisce che un atto di contraffazione della privativa sia valutabile anche in termini di atto confusorio di imitazione servile, ovviamente nell’ipotesi in cui la forma imitata sia oggetto di privativa industriale e al contempo dotata di capacità individualizzante per il prodotto, di modo che la sua imitazione ad opera del concorrente sleale provochi il rischio di confusione”.

2.- Il motivo non è fondato.

2.1. – Occorre premettere che, come è noto, l’imitazione rilevante ai sensi dell’art. 2598 c.c., n. 1, non esige la riproduzione di qualsiasi forma del prodotto altrui, ma solo quella che cade sulle caratteristiche esteriori dotate di efficacia individualizzante, e cioè idonee, in virtù della loro capacità distintiva, a ricollegare il prodotto ad una determinata impresa, sempre che la ripetizione dei connotati formali non si limiti a quei profili resi necessari dalle caratteristiche funzionali del prodotto (Cass. 12 febbraio 2009, n. 3478; cfr. pure Cass. 26 novembre 2008, n. 28215; Cass. 19 gennaio 2006, n. 1062).

Ora, in linea di principio, non è corretto escludere che a fronte della medesima condotta contraffattiva l’interessato possa avvalersi sia della tutela spettantegli in ragione della registrazione del modello (artt. 31 c.p.i. e segg.), sia di quella, di carattere generale, elargita contro l’imitazione servile (art. 2597 c.c., n. 1). E infatti, se il prodotto presenta una forma individualizzante, tale da essere percepibile dal consumatore medio, quella forma ha in sè carattere distintivo, per modo che all’altrui attività di contraffazione potrà reagirsi indipendentemente dal fatto che si sia proceduto alla registrazione del modello. E’ da ricordare infatti, che, al fine della registrazione, il modello deve avere carattere individuale: deve cioè suscitare, nell’utilizzatore informato, una impressione generale che differisce da quella suscitata in altro modello o disegno divulgato in precedenza (art. 33, comma 1, c.p.i.). Vengono in definitiva in questione due distinte soglie di tutela: se la forma ha carattere solo individuale, il modello riceve protezione unicamente in ragione dell’avvenuta registrazione e per la durata di cui all’art. 37 c.p.i.; se, invece, la forma è percepibile anche dal consumatore medio, è ammesso il cumulo tra la tutela accordata dalla registrazione del modello e quella operante contro gli atti di concorrenza confusoria e, segnatamente, contro l’imitazione servile. Il titolare del modello può certamente avere un interesse a far valere, in giudizio, sia la domanda basata sulla violazione del proprio diritto di privativa che l’imitazione servile: potrebbe difatti temere che il contraffattore opponga, fondatamente, la nullità del brevetto e considerare, quindi, la necessità di prospettare in causa l’imitazione servile delle forme del proprio prodotto, siccome percepibili anche dal consumatore medio; ma egli potrebbe anche decidere di adottare una tale strategia sulla base della semplice considerazione dei risultati favorevoli che da essa possano discendere (ad esempio, sul piano risarcitorio, avendo riguardo ai danni ulteriori patiti per effetto della altrui commercializzazione di un prodotto confondibile col proprio da una più ampia platea di consumatori: una platea costituita da quegli utilizzatori – riconducibili, per l’appunto, alla figura del consumatore medio – che erano in grado di apprezzare la forma distintiva di esso).

Sarebbe scorretto, d’altro canto, ritenere che, con riferimento alla fattispecie della contraffazione del modello, il positivo accertamento dell’imitazione servile, sanzionata dall’art. 2598 c.c., n. 1, implichi l’allegazione e la prova di condotte anticoncorrenziali ulteriori, come solitamente sostenuto con riferimento agli illeciti che riguardano altre privative, diverse dal marchio (con riferimento al marchio si suole affermare, invece, che l’attività contra jus, consistente nell’appropriazione o nella contraffazione del marchio, mediante l’uso di segni distintivi identici o simili a quelli legittimamente usati dall’imprenditore concorrente, possa essere da quest’ultimo dedotta a fondamento non soltanto di un’azione reale, a tutela dei propri diritti di esclusiva sul marchio, ma anche, e congiuntamente, di un’azione personale per concorrenza sleale, ove quel comportamento abbia creato confondibilità fra i rispettivi prodotti: Cass. 19 giugno 2008, n. 16647; Cass. 29 gennaio 2019, n. 2473). Nel caso della contraffazione del modello e dell’imitazione servile la medesima condotta di riproduzione delle forme del prodotto non impedisce infatti il concorso dei due illeciti, giacchè la configurazione dell’uno o dell’altro di essi dipende solo dal diverso parametro di cui ci si avvale per dar ragione del valore (rispettivamente individuale o distintivo) delle dette forme, che è nel primo caso l’utilizzatore informato e nel secondo il consumatore medio: e, ove il modello presenti, oltre che carattere individuale, un connotato distintivo riconoscibile dal consumatore medio, il titolare della privativa potrà avvalersi anche dei rimedi codicistici contemplati per l’illecito confusorio (art. 2598 c.c., n. 1).

2.2. – Ciò detto, la Corte di appello, ha senz’altro errato nel ritenere che nella fattispecie, “in assenza di un qualunque fatto o circostanza ulteriore”, non potesse configurarsi l’imitazione servile.

Il giudice del gravame ha tuttavia pure osservato che era mancata la prova “che il consumatore medio potesse ictu oculi ricondurre erroneamente la ciabatta Teddy al produttore Menghi”, posto che “altre case di moda o produttori” contrassegnavano gli articoli dell’attrice e, inoltre, le calzature dell’odierna controricorrente esibivano un proprio marchio riferibile alla stessa Teddy.

Ora, questa Corte ha affermato, in più occasioni che, in quanto inserito nel contesto dell’art. 2598 c.c., n. 1, che tratta della concorrenza confusoria, il divieto dell’imitazione servile tutela soltanto l’interesse a che l’imitatore non crei confusione con i prodotti del concorrente, realizzando le condizioni perchè il potenziale acquirente possa equivocare sulla fonte di produzione; e ha pure precisato che tale interesse è senz’altro soddisfatto dalla presentazione del prodotto con la precisa indicazione che lo stesso è fabbricato da un diverso imprenditore (Cass. 19 gennaio 2006, n. 1062; nel medesimo senso: Cass. 3 agosto 1987, n. 6682; Cass. 9 novembre 1983, n. 6625). Sempre secondo la giurisprudenza di legittimità (e quella di merito appare orientata nel medesimo senso), la circostanza che il prodotto rechi un marchio idoneo ad attribuirne l’origine a un determinato produttore può – certamente – non essere sempre sufficiente ad escludere la concorrenza per imitazione servile: ma è certamente riservato al giudice del merito l’apprezzamento circa il fatto che tale marchio non adempia alla sua funzione qualificante e distintiva (Cass. 19 febbraio 1997, n. 1541).

Nel caso in esame, come si è detto, la Corte di appello ha escluso la confondibilità avendo proprio riguardo ai segni distintivi presenti sui prodotti in contraffazione e su quelli contraffatti (recando i primi il marchio (OMISSIS) e i secondi marchi diversi, non riconducibili a Menghi Shoes). L’accertamento in questione, per cui il consumatore medio non avrebbe ragione di ricondurre l’articolo prodotto da Teddy alla società ricorrente non è sindacabile in questa sede, essendo di pertinenza esclusiva del giudice del merito, salvo non sia dedotto l’omesso esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti (art. 350 c.p.c., n. 5) o una radicale anomalia motivazionale, nel senso chiarito da Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054. Nel primo motivo è bensì svolta una censura di omesso esame di fatto decisivo, ma la doglianza inerisce al diverso tema della portata distintiva e individualizzante delle calzature prodotte da Menghi Shoes (in particolare, pag. 12 del ricorso): profilo estraneo alla tematica che qui interessa e che la Corte di appello ha evidentemente ritenuto non decisivo proprio in ragione di quanto da essa osservato con riguardo alla marcatura dei prodotti.

Non può del resto reputarsi concludente la considerazione della ricorrente secondo cui la differenziazione dei marchi era inidonea a escludere, in capo al consumatore, il convincimento per cui i prodotti commercializzati da Teddy potevano costituire una “seconda linea” dell’articolo realizzato da Menghi. Anche a voler prescindere dal rilievo per cui tale questione non risulta essere stata specificamente posta al giudice di appello, è la stessa sentenza della Corte di Bologna ad escludere che essa potesse assumere una qualche centralità ai fini che qui interessano: poichè, infatti, il giudice di appello ha sottolineato che le calzature conformi al modello registrato non recavano il marchio della società istante (e non erano, per tale ragione, riconducibili a questa), un problema di confondibilità dei prodotti, nei termini indicati, non aveva modo di prospettarsi.

2.3. – In conclusione, in ipotesi di contraffazione del modello la tutela accordata per la violazione della privativa può concorrere con quella prevista per la concorrenza confusoria per imitazione servile se il prodotto rechi una forma individualizzante, tale da essere percepibile, oltre che dall’utilizzatore informato, anche dal consumatore medio; spetta in questo caso al giudice del merito accertare se l’apposizione del marchio sul prodotto con cui è realizzata l’imitazione sia idoneo ad escludere, in base alle circostanze del caso, la confondibilità dei prodotti e il detto apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, salvo che per il mancato esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti o per l’anomalia motivazionale che si traduce in violazione di legge costituzionalmente rilevante.

3. – Con il secondo motivo è lamentata la violazione, falsa o errata applicazione dell’art. 125 c.p.i., anche in relazione all’art. 2598 c.c., n. 1 e art. 2600 c.c. e art. 115 c.p.c., nonchè omessa valutazione di fatti decisivi in punto di quantificazione del risarcimento del danno. Le doglianze formulate sono plurime. Ad avviso della ricorrente, la Corte di merito non avrebbe anzitutto considerato il danno concorrenziale specifico, diverso ed ulteriore rispetto a quello derivante dalla contraffazione, determinato dal grave svilimento del prodotto, giacchè la controparte aveva realizzato un articolo di bassissima qualità che conteneva percentuali di cadmio al di sopra dei limiti di legge; essa avrebbe mancato inoltre di apprezzare lo sviamento di clientela derivante dal rischio di associazione dei modelli. Inoltre il giudice del gravame avrebbe errato nell’attribuire rilevanza ai costi particolari sostenuti dal contraffattori per commercializzare i propri prodotti, giacchè l’art. 125 c.p.i. attribuisce rilievo ai benefici conseguiti dall’autore dell’illecito, elemento, questo, che doveva essere svincolato dal concetto “bilancistico” di utile; per la società ricorrente il richiamo ai costi particolari sostenuti da Teddy doveva essere quindi ritenuto incongruo: tale elemento era estraneo ai parametri di valutazione del danno, il quale risultava, oltretutto, indeterminato e non provato. Secondo l’istante l’affermazione del giudice d’appello circa il fatto che l’investimento fosse destinato ad essere ammortizzato in brevissimo tempo era smentita dai dati oggettivi e dalle risultanze istruttorie: elementi, questi, che erano stati totalmente ignorati. La stessa pretesa possibilità di un riutilizzo degli stampi costituirebbe, ad avviso della ricorrente, “mera illazione non suffragata da alcuna prova”. Infine, la Corte di appello avrebbe mancato di considerare che la cessazione della commercializzazione delle calzature in contraffazione aveva avuto luogo nel luglio 2005, quando la stagione commerciale primavera – estate era in corso e quando 8.000 paia di calzature a marchio (OMISSIS) erano state già vendute.

4. – Nemmeno tale motivo merita accoglimento.

4.1. – La Corte di merito, come in precedenza accennato, ha quantificato il risarcimento del danno sulla base del criterio della c.d. retroversione degli utili. Si tratta di una tecnica liquidatoria che ha trovato l’odierna espressione grazie al D.Lgs. n. 140 del 2006, art. 17, recante norme di attuazione della dir. 2004/48/CE sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale (c.d. direttiva Enforcement): questo ha modificato l’art. 125 c.p.i. con l’inserimento di un comma 3, prima inesistente, a mente del quale “(i)n ogni caso il titolare del diritto leso può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento”. E’ da osservare, peraltro, che anche prima di tale intervento normativo, l’art. 125, prevedeva, al comma 1, che il risarcimento del danno andasse liquidato “anche tenendo conto degli utili realizzati in violazione del diritto” e che pure nella vigenza del R.D. n. 929 del 1942 (c.d. legge marchi) si era evidenziato come al giudice non risultasse precluso il potere-dovere di commisurare il danno, nell’apprezzamento delle circostanze del caso concreto, al beneficio tratto dall’attività vietata (Cass. 1 marzo 2016, n. 4048): l’impiego di un questo criterio era del resto comunemente adottato per la liquidazione del danno in materia di opere dell’ingegno nel periodo anteriore alla modificazione – ad opera del D.Lgs. n. 140 del 2006, art. 5 – L. n. 633 del 1941, art. 158, con cui è stato parimenti previsto che tale danno vada liquidato “tenendo conto degli utili realizzati in violazione del diritto” (cfr. ad esempio: Cass. 29 maggio 2015, n. 11225: Cass. 15 aprile 2011, n. 8730).

L’utile percepito dal contraffattore impone di considerare, come è del tutto evidente, non l’intero ricavo derivante dalla commercializzazione del prodotto contraffatto, quanto il margine di profitto conseguito da colui che si è reso responsabile della lesione del diritto di privativa. Ed è altrettanto ovvio che la locuzione “benefici realizzati dall’autore della violazione” (di cui è parola nell’art. 125, comma 1, c.p.i., che l’istante richiama) evochi un concetto del tutto analogo: per l’appunto quello dei vantaggi o utilità conseguiti da quel soggetto attraverso l’illegittimo sfruttamento della privativa.

Il nominato margine di profitto, poi, non consiste nella differenza tra il prezzo di acquisto (del bene poi rivenduto, o della materia prima, ove essa sia oggetto di trasformazione da parte dell’autore della violazione) e il prezzo di rivendita. Come rettamente osservato dalla Corte di appello, occorre considerare anche i costi particolari affrontati dalla società responsabile della contraffazione. Infatti, fattori negativi (quali ad esempio i costi produttivi e di distribuzione) concorrono a determinare l’utile e la mancata considerazione di essi porterebbe alla valorizzazione di un elemento economico diverso da quello preso in considerazione dalla norma.

L’istante si limita a censurare la decisione del giudice del gravame assumendo che quello dei costi sarebbe un dato non pertinente, estraneo alla previsione e alla ratio dell’art. 125 cit., ma il rilievo, per quanto osservato, non merita condivisione.

4.2. – Le censure incentrate sulla mancata considerazione, da parte della Corte del merito, di specifici elementi – reputati idonei a dare maggiore consistenza al danno lamentato – sono infine inammissibili. La ricorrente non chiarisce, infatti, come le questioni da essa poste, di cui la Corte di merito non si occupa (lo svilimento del prodotto, il rischio di associazione), fossero state fatte valere in giudizio: essa si limita ad assumere genericamente di aver dedotto, nella citazione in primo grado, che controparte commercializzava a prezzi infimi prodotti di bassissima qualità che contenevano alte percentuali di cadmio, ma non spiega se della spettanza di un risarcimento ancorato a tali evenienze fosse stato investito il giudice di appello. Va ricordato, a quest’ultimo proposito, che ove con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. 13 giugno 2018, n. 15430; Cass. 9 agosto 2018, n. 20694).

Del resto, sul piano astratto, non è possibile sfuggire all’alternativa che segue: o i danni da svilimento del prodotto e da rischio di associazione erano stati presi in considerazione dal giudice di primo grado: e in tal caso l’istante non si può dolere di nulla, giacchè tali voci sarebbero da ritenere ricomprese nell’importo liquidato dalla Corte di appello, che non ha certamente inteso eliderle (occupandosi di altri profili: i costi di produzione, l’insussistenza del danno concorrenziale, il rapido “decadere” dei modelli nel mondo della moda, la mancata evidenza di annullamenti di ordini o di contestazioni da parte della clientela); oppure le indicate voci di danno non sono state liquidata dal Tribunale: ma di ciò la ricorrente non può lamentarsi in sede di legittimità, dal momento che avrebbe dovuto far valere la questione in appello (ciò che – come sì è detto – non viene dedotto sia stato fatto).

4.3. – Su altri temi – questi affrontati dalla Corte territoriale (l’ammortamento degli investimenti, il reimpiego degli stampi e i tempi di commercializzazione dei prodotti in contraffazione) – le censure si risolvono in doglianze che ineriscono all’accertamento di fatto devoluto al giudice del merito e che sono per ciò sottratte al sindacato di legittimità.

5. – Il ricorso è in conclusione rigettato.

6. – Le spese di giudizio seguono la soccombenza.

PQM

La Corte;

rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000,000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 6 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 14 maggio 2020

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