Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8933 del 31/03/2021

Cassazione civile sez. II, 31/03/2021, (ud. 07/01/2021, dep. 31/03/2021), n.8933

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21983/2019 proposto da:

M.F., elettivamente domiciliato in Crotone via Libertà n.

27/B, presso lo studio dell’avv.to ASSUNTA FICO, che lo rappresenta

e difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che

lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 598/2019 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 25/03/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

07/01/2021 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. La Corte d’Appello di Catanzaro, con sentenza pubblicata il 25 marzo 2019, respingeva il ricorso proposto da M.F., cittadino del (OMISSIS), avverso il provvedimento con il quale il Tribunale di Catanzaro aveva rigettato l’opposizione avverso la decisione della competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale che aveva, a sua volta, rigettato la domanda proposta dall’interessato di riconoscimento dello status di rifugiato e di protezione internazionale, escludendo altresì la sussistenza dei presupposti per la protezione complementare (umanitaria).

2. La Corte d’Appello preliminarmente riteneva non necessario procedere all’audizione del richiedente la protezione internazionale. Non essendo state prospettate esigenze specifiche che potessero eventualmente comportare la necessità di una nuova audizione.

Il richiedente dinanzi la commissione territoriale aveva dichiarato di essersi recato a pregare in una moschea unitamente al cugino, presso un villaggio vicino, e che in tale occasione era scoppiata una rissa tra Sciiti e Sunniti per quale gruppo dovesse pregare per primo, e uno sciita aveva aperto il fuoco e aveva ferito e ucciso suo cugino. A seguito di tali avvenimenti egli aveva sporto denuncia e poi aveva subito numerose minacce, fin quando gli sciiti avevano aperto il fuoco contro il suo negozio ed egli, temendo di essere ucciso, era fuggito.

Secondo la Corte d’Appello non sussistevano i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), essendo la richiesta di protezione fondata su un fatto avente esclusivo rilievo personale. Doveva evidenziarsi inoltre che ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato ed anche per la protezione sussidiaria i responsabili del danno grave devono essere lo stato, i partiti e le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio nonchè soggetti non statuali appartenenti alle organizzazioni che lo controllano e che non venga fornita protezione con l’adozione di adeguate misure per impedire atti persecutori.

La Corte d’appello evidenziava che la situazione economico sociale del Pakistan come risultante da istituti geografici, enciclopedie, organi di stampa, organismi internazionali, associazioni con finalità di tutela dei diritti umani non poteva ricondursi alla nozione di violenza indiscriminata in un conflitto armato da intendersi nel senso della presenza di un così elevato grado di violenza da far ritenere che un civile in caso di rientro nel paese correrebbe, per la sola presenza nel territorio, un rischio effettivo di subire la suddetta minaccia.

Infine, la Corte d’Appello rigettava anche il motivo di impugnazione relativo alla mancata concessione della protezione umanitaria, sia perchè non erano stati allegati elementi concreti di una specifica situazione di vulnerabilità sia perchè non erano stati sufficientemente provati fatti o accadimenti sulla cui base poter ragionevolmente ritenere la sussistenza in capo al richiedente di una condizione soggettiva tale da determinare il riconoscimento dell’invocata misura a causa di un pericolo nel caso di rientro in Pakistan.

3. M.F. ha proposto ricorso per cassazione avverso il suddetto decreto sulla base di cinque motivi di ricorso.

4. Il Ministero dell’interno si è costituito con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: omessa, insufficiente contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. Omessa audizione del ricorrente.

La Corte d’Appello, nonostante gli asseriti dubbi avanzati in merito alla credibilità delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, avrebbe omesso di procedere all’audizione personale, disattendendo l’espressa richiesta istruttoria volta dalla parte. Procedendo all’audizione del richiedente la Corte avrebbe avuto modo di constatare l’omesso intervento da parte delle forze dell’ordine pachistane e il fatto che la fattispecie esulava dall’esclusivo rilievo personalistico. Peraltro, l’audizione fatta dinanzi alla commissione territoriale non era stata adeguata e sarebbe stata utile anche in relazione all’acquisizione di elementi idonei per accedere alla protezione umanitaria.

1.1 Il primo motivo è inammissibile.

Il motivo è strutturato sulla precedente formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si censura, infatti, l’omessa, contraddittoria e insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, vizio non più contemplato. In ogni caso, in materia di protezione internazionale anche prima della riforma del rito avvenuta con il D.L. n. 113 del 2018, nel giudizio di appello non vi era alcun obbligo di procedere all’audizione del richiedente, sicchè, la decisione della Corte d’Appello non può essere oggetto di censura per violazione di legge, e il vizio di motivazione è censurabile solo sotto il profilo dell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.

Deve dunque darsi continuità al seguente principio di diritto: “Nel procedimento, in grado di appello, relativo a una domanda di protezione internazionale, non è ravvisabile una violazione processuale, sanzionabile a pena di nullità, nell’omessa audizione personale del richiedente, poichè l’obbligo di sentire le parti, desumibile dal rinvio operato dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35, comma 13, al precedente comma 10 (testo previgente al D.Lgs. n. 150 del 2011), non si configura come un incombente automatico e doveroso, ma come un diritto della parte di richiedere l’interrogatorio personale, cui si collega il potere officioso del giudice di valutarne la specifica rilevanza, ben potendo il giudice del gravame respingere la domanda di protezione internazionale, che risulti manifestamente infondata, sulla sola base degli elementi di prova desumibili dal fascicolo di causa e di quelli emersi attraverso l’audizione o la videoregistrazione svoltesi nella fase amministrativa” (Sez. 1, Ord. n. 8931 del 2020).

2 Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, per omessa valutazione dei documenti prodotti.

La Corte d’Appello nel ritenere non credibile il racconto del richiedente non ha fatto riferimento alla documentazione prodotta nel corso del giudizio quali il certificato di morte del cugino, il certificato sanitario e la denuncia contro l’assassino sporta dal richiedente. Peraltro, la Corte d’Appello avrebbe omesso di valutare anche la documentazione relativa ai rapporti di lavoro ai fini dell’integrazione per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 5,6 e 14 e D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8-27.

Il collegio giudicante avrebbe commesso un chiaro errore valutativo nel giustificare il mancato riconoscimento delle forme di protezione internazionale ed in particolare di quella sussidiaria omettendo di compiere adeguata istruttoria in merito alla concreta ipotesi che in caso di rimpatrio il ricorrente possa trovarsi nella condizione di pericolo di incorrere in un danno grave alla sua incolumità o in una condizione di vulnerabilità tale da necessitare di adeguata protezione. La Corte d’Appello avrebbe omesso di riscontrare d’ufficio le fonti mediante le quali accertare la sicurezza del paese di provenienza del richiedente che, invece, presenta una situazione particolarmente critica.

4. Il quarto motivo di ricorso è così rubricato: violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 e violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, mancata comparazione tra integrazione sociale e situazione personale del richiedente.

Il ricorrente richiama il proprio atto di appello evidenziando che un suo eventuale rimpatrio significherebbe esporlo al duplice pericolo di essere depauperato dei diritti acquisiti e vessato dai medesimi agenti persecutori che ne hanno determinato l’espatrio.

La censura attiene all’erronea valutazione della situazione del Pakistan in relazione agli attacchi di violenza subiti dal ricorrente da parte del gruppo terroristico responsabile addirittura dell’omicidio dello zio e della madre. Inoltre, il ricorrente non avrebbe ottenuto tutela neanche da parte dell’autorità, nonostante la denuncia presentata. In tal senso il ricorrente richiama le fonti dalle quali emergerebbe la corruzione all’interno del governo della polizia del Pakistan. Pertanto, alla luce di quanto dedotto, le vicende patite dal ricorrente sarebbero ricollegabili a ragioni terrorismo con matrice religiosa e, dunque, riconducibili al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, lett. b).

5. I motivi secondo, terzo e quarto, che stante la loro evidente connessione possono essere trattati congiuntamente, sono inammissibili.

La valutazione in ordine alla credibilità del racconto del richiedente costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito. (Sez. 1, Ord. n. 3340 del 2019).

La Corte d’Appello di Catanzaro ha motivato ampiamente le ragioni della ritenuta non credibilità del racconto sulla base di una valutazione complessiva. Peraltro, la mancata valutazione di un documento non integra una violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, ma, al più ricorrendone le condizioni, un omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.

In proposito deve richiamarsi il consolidato principio di diritto secondo cui: “L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonchè la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata”. (Sez. 1, Sent. n. 16056 del 2016).

La Corte di merito ha effettuato una valutazione complessiva delle risultanze istruttorie, sufficientemente e logicamente argomentata, fondando il proprio convincimento sugli elementi ritenuti più attendibili e non era tenuta ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti, essendo limitato il controllo del giudice della legittimità alla sola congruenza della decisione dal punto di vista dei principi di diritto che regolano la prova (Cfr. Cass., Sez. 1, sentenza n. 11511 del 23 maggio 2014, Rv. 631448; Cass., Sez. L, sentenza n. 42 del 7 gennaio 2009, Rv. 606413; Cass., Sez. L., sentenza n. 2404 del 3 marzo 2000, Rv. 534557).

Inoltre, la Corte d’Appello ha fatto esplicito riferimento a fonti qualificate dalle quali ha tratto la convinzione che il Pakistan non sia una zona rientrante tra quelle di cui al D.Lgs. n. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c).

Il potere-dovere di cooperazione istruttoria, correlato all’attenuazione del principio dispositivo quanto alla dimostrazione, e non anche all’allegazione, dei fatti rilevanti, è stato dunque correttamente esercitato, benchè la vicenda personale narrata sia stata ritenuta non credibile dai giudici di merito e anche non idonea, quanto ai restanti fatti rappresentati (Cass. n. 14283/2019).

Deve ribadirsi che, in tema di protezione sussidiaria, anche l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui alla norma citata, che sia causa per il richiedente di una sua personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito. Il risultato di tale indagine può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. ord. 30105 del 2018). Il potere-dovere di cooperazione istruttoria, correlato all’attenuazione del principio dispositivo quanto alla dimostrazione, e non anche all’allegazione, dei fatti rilevanti, è stato dunque correttamente esercitato, benchè la vicenda personale narrata sia stata ritenuta non credibile (Cass. n. 14283/2019).

Inoltre, con riferimento alle ipotesi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), deve evidenziarsi che il racconto del richiedente non è stato ritenuto credibile e che, in tal caso, non si impone l’esercizio dei poteri officiosi circa l’esposizione a rischio del richiedente in virtù della sua condizione soggettiva.

In ordine al riconoscimento della protezione umanitaria, anche in questo caso il diniego è dipeso dall’accertamento dei fatti da parte del giudice di merito, che ha escluso, con idonea motivazione, alla stregua di quanto considerato nei paragrafi che precedono, l’esistenza di una situazione di integrazione da cui derivare una sua particolare vulnerabilità in caso di rientro forzoso. All’accertamento compiuto dai giudici di merito viene inammissibilmente contrapposta, in modo peraltro del tutto generico, una diversa interpretazione delle risultanze di causa. In particolare, deve nuovamente evidenziarsi che il ricorrente non ha allegato alcuna effettiva condizione di integrazione e che la condizione di vulnerabilità è stata esclusa sia sotto il profilo soggettivo che sotto quello oggettivo in relazione alla situazione generale del Pakistan.

6. In conclusione il ricorso è inammissibile.

7. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

8. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2100 più spese prenotate a debito;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 7 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2021

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