Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8914 del 31/03/2021

Cassazione civile sez. II, 31/03/2021, (ud. 22/09/2020, dep. 31/03/2021), n.8914

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24424/2019 proposto da:

A.S., rappresentato e difeso dall’Avvocato DANIELA GASPARIN,

presso il cui studio a Milano, via Lamarmora 42, elettivamente

domicilia, per procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi

12, domicilia per legge;

– controricorrente –

avverso il DECRETO n. 5887/2019 del TRIBUNALE DI MILANO, depositato

il 6/7/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 22/9/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il tribunale di Milano, con il decreto in epigrafe, ha respinto il ricorso con il quale A.S., nato in (OMISSIS), aveva impugnato il provvedimento di rigetto della domanda di protezione internazionale da lui presentata.

A.S., con ricorso notificato il 2/8/2019, ha chiesto, per tre motivi, la cassazione del decreto, dichiaratamente non notificato.

Il Ministero dell’interno ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 4,5,6 e 7, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27 e artt. 2 e 3 della CEDU, l’omesso esame di fatti decisivi e l’assenza di motivazione, nonchè la violazione dei parametri normativi relativi agli atti di persecuzione subiti in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui il tribunale, dopo aver escluso l’opportunità di procedere ad una nuova audizione dell’interessato, ha ritenuto che il racconto del richiedente era generico e superficiale.

1.2. Così opinando, infatti, ha osservato il ricorrente, il tribunale ha omesso di considerare che il ricorrente era stato, invece, dettagliato e analitico quanto più non avrebbe potuto essere, trattando peraltro di vicende intime e personali, come la violenza usata sulla moglie, la falsa denuncia a suo carico ed il coinvolgimento di tutta la sua famiglia. Di tali fatti, invece, pur se decisivi, il giudice di merito non si è affatto curato ovvero ne ha considerato solo alcuni ed in modo assolutamente superficiale e contraddittorio.

1.3. Il tribunale, del resto, ha aggiunto il ricorrente, ha riportato nel decreto solo gli stralci di minore importanza dell’audizione del richiedente, trascurando gli altri pur se essenziali ai fini della decisione. L’esame complessivo del verbale, fermo restando il potere-dovere del giudice di chiedere chiarimenti in udienza, avrebbe dovuto comportare, infatti, ad un giudizio di credibilità del richiedente il quale, in totale spontaneità, rispettando i criteri previsti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la sua domanda, con dichiarazioni coerenti e plausibili.

1.4. Il tribunale, inoltre, ha proseguito il ricorrente, non ha valutato la domanda del ricorrente sulla base del preciso contesto sociale e culturale del suo Paese il quale, come emerge dal rapporto di Amnesty International 2016-2017, è caratterizzato da una situazione di diffusa privazione dei diritti umani oltre che da un’instabilità politica e sociale che ne rende pericolosa la permanenza.

1.5. Il tribunale, infine, ha concluso il ricorrente, ha omesso di esaminare fatti decisivi che lo stesso aveva allegato, che certamente configurano la fattispecie di persecuzione, vale a dire l’aggressione per motivi politici, le torture subite e l’ingiusta accusa, l’impossibilità di far ricorso alle forze dell’ordine nonchè la paura di fare rientro nel proprio Paese, violando, peraltro, il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 4, a norma del quale un serio indizio di fondatezza del timore di persecuzioni future può essere tratto da persecuzioni, minacce e violenze già subite.

2.1. Il primo motivo è infondato in tutte le censure in cui risulta articolato. Intanto, questa Corte, in tema di protezione internazionale, nell’enunciare il principio secondo cui, in mancanza della videoregistrazione del colloquio, il giudice deve necessariamente disporre lo svolgimento dell’udienza di comparizione delle parti, configurandosi altrimenti la nullità del decreto pronunciato all’esito del ricorso, per inidoneità del procedimento a consentire il pieno dispiegamento del contraddittorio, salvo che non sia stato lo stesso richiedente ad aver visto accolta la propria istanza motivata di non avvalersi del supporto della videoregistrazione, ha precisato che l’obbligatorietà della fissazione dell’udienza di comparizione, ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, non comporta automaticamente la necessità di dar corso all’audizione del richiedente (cfr. Cass. n. 17717 del 2018; Cass. n. 32318 del 2018). Il giudice, di conseguenza, può decidere di non procedere all’audizione nel caso in cui ritenga di poter effettuare un esame siffatto in base ai soli elementi contenuti nel fascicolo, ivi compreso, se del caso, il verbale o la trascrizione del colloquio personale svoltosi in occasione del procedimento di primo grado (cfr. Corte di Giustizia UE, 26/07/2017, in causa C-348/16, Moussa Sacko). Non merita, pertanto, alcuna censura il decreto impugnato, il quale, lì dove (p. 5) ha ritenuto che, pur in mancanza di videoregistrazione del colloquio, non fosse necessario, la rinnovazione dell’audizione del richiedente, ha adeguatamente giustificato tale decisione evidenziando che lo stesso non aveva introdotto temi di indagine ulteriori, nè aveva allegato fatti nuovi, e di avere, quindi, a disposizione tutti gli elementi necessari ai fini della decisione senza che fosse a tal fine necessario sentire nuovamente la parte.

2.2. In tema di protezione internazionale, inoltre, l’accertamento del giudice del merito deve avere preliminarmente ad oggetto la credibilità soggettiva del richiedente il quale, infatti, ha l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. a), essendo possibile solo in tal caso considerare “veritieri” i fatti narrati (cfr. Cass. n. 27503 del 2018). In materia di protezione internazionale, in effetti, il richiedente è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, ed, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora lo stesso, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 (Cass. n. 8367 del 2020, in motiv.; Cass. n. 15794 del 2019; conf., Cass. n. 19197 del 2015). La valutazione in merito all’attendibilità o meno delle dichiarazioni rese dal richiedente costituisce, peraltro, un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito (Cass. n. 27503 del 2018) che, in quanto tale, può essere denunciato, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e cioè per omesso esame di una o più di circostanze la cui considerazione avrebbe consentito, secondo parametri di elevata probabilità logica, una ricostruzione dell’accaduto idonea ad integrare gli estremi della fattispecie rivendicata.

2.3. Nel caso di specie, il tribunale ha ritenuto che il racconto del ricorrente, oltre che generico e superficiale, non fosse credibile. Ora, a fronte di tale apprezzamento, che ha compreso l’esame della violenza asseritamente usata sulla moglie del richiedente e la falsa denuncia a suo carico, il ricorrente non ha specificamente indicato i fatti, principali ovvero secondari, il cui esame, nell’accertamento dell’attendibilità della sua narrazione, sia stato del tutto omesso dal giudice di merito, pur se dedotti in giudizio, nè, infine, la loro decisività ai fini di una diversa pronuncia a lui favorevole, limitandosi, piuttosto, a sollecitare una inammissibile rivalutazione del materiale istruttorio acquisito nel corso del giudizio. La valutazione delle prove raccolte, in effetti, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.).

2.4. Nel caso di specie, del resto, il tribunale ha ritenuto che i fatti narrati dal richiedente non fossero rilevanti ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, in mancanza tanto del presupposto della persecuzione subita nel proprio Paese d’origine, quanto dei motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica che, al predetto fine, devono necessariamente essere alla base della temuta persecuzione. Si tratta, com’è evidente, di un apprezzamento fattuale, non censurato dal ricorrente, a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per omesso esame circa uno o più fatti decisivi specificamente indicati, a fronte del quale la decisione conseguentemente assunta dal giudice di merito, certamente non illogica e contraddittoria rispetto ai dati accertati, si sottrae alle censure svolte in ricorso.

2.5. Il decreto del tribunale, per il resto, si sottrae ad ogni censura di violazione di legge. La norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 2, lett. e), definisce, infatti, il “rifugiato” come il cittadino straniero che, per il fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trovi fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non possa o, a causa di tale timore, non voglia avvalersi della protezione di tale Paese e non possa o a causa di siffatto timore, non voglia farvi ritorno, ferme le cause di esclusione di cui all’art. 10.

Il primo elemento costitutivo della definizione di rifugiato e requisito essenziale per il riconoscimento del relativo status è costituito, quindi, dal fondato timore di persecuzione personale e diretta nel Paese d’origine del richiedente, a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell’appartenenza ad un gruppo sociale ovvero per le opinioni politiche professate (Cass. n. 14157 del 2016; Cass. n. 18353 del 2006).

Il secondo elemento fattuale necessario per il riconoscimento dello status di rifugiato è, invece, la persecuzione, in relazione alla quale rilevano gli atti od i motivi di persecuzione.

Gli atti di persecuzione, a norma del cit. D.Lgs. n. 251, art. 7, devono alternativamente:

a) essere sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti per cui qualsiasi deroga è esclusa, ai sensi dell’art. 15, paragrafo 2, della CEDU;

b) costituire la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto sia sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello di cui alla lett. a).

Essi possono, tra l’altro, assumere la forma di: – atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale; provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziari, discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio; – azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie; – rifiuto di accesso ai mezzi di tutela giuridici e conseguente sanzione sproporzionata o discriminatoria; – azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza del rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo potrebbe comportare la commissione di crimini, reati o atti che rientrano nelle clausole di esclusione di cui all’art. 10, comma 2; – atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia.

I motivi di persecuzione sono indicati nel D.Lgs. n. 251 cit., art. 8, che li definisce in relazione a: a) “razza”: riferita, in particolare, a considerazioni inerenti al colore della pelle, alla discendenza o all’appartenenza ad un determinato gruppo etnico; b) “religione”, che include, in particolare, le convinzioni teiste, non teiste e ateiste, la partecipazione a, o l’astensione da, riti di culto celebrati in privato o in pubblico, sia singolarmente sia in comunità, altri atti religiosi o professioni di fede, nonchè le forme di comportamento personale o sociale fondate su un credo religioso o da esso prescritte; c) “nazionalità”, che non si riferisce esclusivamente alla cittadinanza, o all’assenza di cittadinanza, ma designa, in particolare, l’appartenenza ad un gruppo caratterizzato da un’identità culturale, etnica o linguistica, comuni origini geografiche o politiche o la sua affinità con la popolazione di un altro Stato; d) “particolare gruppo sociale”, che è quello costituito da membri che condividono una caratteristica innata o una storia comune che non può essere mutata oppure condividono una caratteristica o una fede che è così fondamentale per l’identità o la coscienza che una persona non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi, ovvero quello che possiede un’identità distinta nel Paese di origine, perchè vi è percepito come diverso dalla società circostante; e) “opinione politica”: si riferisce alla professione di un’opinione, un pensiero o una convinzione su una questione inerente ai potenziali persecutori di cui all’art. 5 e alle loro politiche o ai loro metodi, indipendentemente dal fatto che il richiedente abbia tradotto tale opinione, pensiero o convinzione in atti concreti.

Nel caso di specie, però, nessuno di tali presupposti è stato, come detto, accertato, in fatto, dal tribunale la cui pronuncia, pertanto, si sottrae alle censure svolte sul punto dal ricorrente.

2.6. La mancanza dei requisiti, come sopra descritti, necessari per il riconoscimento dello status di rifugiato esclude, infine, ogni rilievo alla denunciata mancanza di adeguata valutazione della situazione interna del Paese d’origine del richiedente.

3.1. Con il secondo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione dei parametri normativi relativi alla credibilità delle dichiarazioni del richiedente fissati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. c), in violazione degli obblighi di cooperazione istruttoria incombenti sull’autorità giurisdizionale, l’omesso esame di fatti decisivi, la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3 e 14, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27 e degli artt. 2 e 3 della CEDU, la violazione dei parametri normativi relativi alla definizione di danno grave nonchè, infine, la violazione degli artt. 6 e 13 della CEDU, dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dell’art. 46 della direttiva Europea n. 2013/32, ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui il tribunale ha ritenuto che le dichiarazioni del richiedente sono generiche omettendo, tuttavia, qualsiasi collaborazione per reperire riscontri delle allegazioni.

3.2. Il tribunale, inoltre, ha aggiunto il ricorrente, non ha riportato in modo completo la situazione in Bangladesh, limitandosi a tre generici richiami a fonti internazionali ma senza riportarne il contenuto laddove proprio la lettura dei documenti citati dal tribunale dimostra la costante violazione dei diritti umani in quel Paese.

3.3. La valutazione della domanda, peraltro, non può prescindere, a norma dell’art. 3, comma 3, dall’esame di tutti i fatti pertinenti che riguardano il Paese d’origine al momento della decisione, come la situazione d’insicurezza generale e di assenza di protezione da parte delle autorità statuali, riconducibile ai modelli normativi di protezione sussidiaria, che permane anche oggi in un contesto di gravi violazioni dei diritti umani.

4.1. Il secondo motivo è del pari infondato in tutte le censure che lo compongono. Il tribunale, invero, ha escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria quale misura applicabile al cittadino straniero che non possegga i requisiti per ottenere lo status di rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi per ritenere che, se ritornasse nel paese d’origine, correrebbe il rischio effettivo di subire un grave danno e che non può o non vuole, a causa di tale rischio, avvalersi della protezione di tale Paese. Il tribunale, in particolare, ha ritenuto di non poter ravvisare, in fatto, una situazione concretamente riconducibile tra l’altro – alla previsione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), sul rilievo che, in Bangladesh, come emerge dalle fonti internazionali, non sussiste attualmente, al netto di violenze episodiche e legate principalmente alle scadenze elettorali, alcun conflitto armato interno o internazionale. Ritiene, al riguardo, la Corte che, a fronte di tali accertamenti in fatto, non censurati dal ricorrente per omesso esame di uno o più fatti decisivi, la decisione assunta dal giudice di merito si sottrae alle censure svolte in ricorso.

4.2. In effetti, il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g) ed h) e, in termini identici, il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 1, lett. f) e g), definiscono “persona ammissibile alla protezione sussidiaria” il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno e non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese. Il cit. D.Lgs. n. 251, art. 14, comma 1, a sua volta, dispone che il “danno grave” sussiste, tra l’altro, nell’ipotesi di “c)… minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”.

4.3. Nel caso di specie, come visto, non è risultato, in punto di fatto, che il ricorrente, in caso di rientro in patria, possa ricevere una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona in ragione della violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Ed è, invece, noto, che, in materia di riconoscimento della protezione sussidiaria allo straniero, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), dev’essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, per cui il grado di violenza indiscriminata deve aver raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Cass. n. 18306 del 2019; Cass. n. 9090 del 2019; Cass. n. 14006 del 2018).

4.4. Nè rileva, a fronte dei fatti allegati dal richiedente così come incontestatamente esposti nel decreto impugnato, il dedotto inadempimento da parte del giudice di merito al dovere di cooperazione istruttoria. In tema di protezione internazionale, infatti, l’attenuazione dell’onere probatorio a carico del richiedente non esclude l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. a), essendo possibile solo in tal caso considerare “veritieri” i fatti narrati (Cass. n. 27503 del 2018). In sostanza, l’attenuazione del principio dispositivo, in cui la cooperazione istruttoria consiste, si colloca non sul versante dell’allegazione ma esclusivamente su quello della prova, dovendo, anzi, l’allegazione essere adeguatamente circostanziata: il richiedente, infatti, ha l’onere di presentare “tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la… domanda”, ivi compresi “i motivi della sua domanda di protezione internazionale” (D.Lgs. n. 251 cit., art. 3, commi 1 e 2), con la precisazione che l’osservanza degli oneri di allegazione si ripercuote sulla verifica della fondatezza della domanda medesima, sul piano probatorio, giacchè, in mancanza di altro sostegno, le dichiarazioni del richiedente sono considera veritiere, tra l’altro, soltanto “se l’autorità competente a decidere sulla domanda ritiene che: a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi” (D.Lgs. n. 251 cit., art. 3, comma 5). Solo quando colui che richieda il riconoscimento della protezione internazionale abbia adempiuto all’onere di allegare i fatti costitutivi del suo diritto, sorge, pertanto, il potere-dovere del giudice di accertare anche d’ufficio se, ed in quali limiti, nel Paese straniero di origine dell’istante si registrino i fenomeni tali da giustificare l’accoglimento della domanda (Cass. n. 17069 del 2018; Cass. n. 29358 del 2018, in motiv.). Il giudice, quindi, non può supplire, attraverso l’esercizio dei suoi poteri ufficiosi, alle deficienze probatorie del ricorrente sul quale grava, invece, l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto circa l’individualizzazione del rischio rispetto alla situazione del paese di provenienza. D’altra parte, una volta assolto l’onere di allegazione, il dovere del giudice di cooperazione istruttoria, e cioè di acquisizione officiosa degli elementi istruttori necessari, è circoscritto alla verifica della situazione oggettiva del paese di origine e non alle individuali condizioni del soggetto richiedente, essendo evidente che il giudice, mentre è tenuto a verificare anche d’ufficio se nel paese di provenienza sia obiettivamente sussistente una situazione talmente grave da costituire ostacolo al rimpatrio del richiedente, non può, per il resto, essere chiamato – nè d’altronde avrebbe gli strumenti per farlo – a supplire a deficienze probatorie concernenti, come in precedenza esposto, la situazione personale del richiedente medesimo, dovendo a tal riguardo soltanto effettuare la verifica di credibilità prevista nel suo complesso del D.Lgs. n. 251 del 2007, già citato art. 3, comma 5 (Cass. n. 29358 del 2018, in motiv.).

4.5. Questa Corte, d’altra parte, ha affermato, con le ordinanze n. 13449 del 2019, n. 13450 del 2019, n. 13451 del 2019 e n. 13452 del 2019, il principio per cui il giudice di merito, nel fare riferimento alle cd. fonti privilegiate di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, deve indicare la fonte in concreto utilizzata nonchè il contenuto dell’informazione da essa tratta e ritenuta rilevante ai fini della decisione, così da consentire alle parti la verifica della pertinenza e della specificità dell’informazione predetta rispetto alla situazione concreta del Paese di provenienza del richiedente la protezione. Nel caso di specie, la decisione impugnata soddisfa i suindicati requisiti, posto che essa indica le fonti in concreto utilizzale dal giudice di merito ed il contenuto delle notizie sulla condizione del Paese tratte da dette fonti, consentendo in tal modo alla parte la duplice verifica della provenienza e della pertinenza dell’informazione.

4.6. Per il resto, non può che ribadirsi il principio per cui, in tema di protezione sussidiaria, l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), che sia causa per il richiedente di una sua personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, quale individuato dalla medesima disposizione, implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, e il risultato di tale indagine può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei soli limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. n. 30105 del 2018). In effetti, ai fini della dimostrazione della violazione del dovere di collaborazione istruttoria che in tema di protezione internazionale grava sul giudice di merito, il ricorrente ha il dovere, rimasto inadempiuto nel caso di specie, di indicare in modo specifico gli elementi di fatto idonei a dimostrare che il giudice di merito abbia deciso sulla base di informazioni non più attuali, con il preciso richiamo, anche testuale, alle fonti di prova proposte, alternative o successive rispetto a quelle utilizzate dal giudice di merito, in modo da consentire alla Suprema Corte l’effettiva verifica circa la violazione del dovere di collaborazione istruttoria (cfr. Cass. n. 26728 del 2019). L’istante, invero, si è limitato a riprodurre, in ricorso (p. 22-25), il contenuto delle fonti di informazione segnalate dal tribunale, delle quali, pertanto, ha finito per richiedere, senza la specifica deduzione di fatti decisivi non esaminati, una inammissibile rivalutazione, tanto più a fronte della dichiarata risalenza delle relative emergenze agli anni 2015 e 2016.

5.1. Con il terzo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 2 e dell’art. 10, comma 3, la motivazione apparente in relazione alla domanda di protezione umanitaria e alla valutazione di assenza di specifica vulnerabilità, l’omesso esame di fatti decisivi circa la sussistenza dei requisiti di quest’ultima, la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 4, 7,14,16 e 17, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8,10 e 32, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, art. 10 Cost., l’omesso esame circa un fatto decisivo in relazione ai presupposti della protezione umanitaria, la mancanza o quantomeno l’apparenza della motivazione nonchè, infine, la nullità della decisione impugnata per violazione degli artt. 112,132 c.p.c., art. 156 c.p.c., comma 2 e art. 111 Cost., comma 6, ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui il tribunale ha respinto la domanda del richiedente di protezione umanitaria sul rilievo che l’attività lavorativa, sicuramente indicativa di una volontà di inserimento, e la frequenza di un corso di riparatore di veicolo a motore, non ne possono giustificare la concessione posto che l’attività lavorativa di lavapiatti, in assenza di un programma di formazione professionale idoneo a consolidare le abilità acquisite, non può essere considerata, in assenza di altri elementi significativi, come idonea a dimostrare l’inserimento sociale del richiedente.

5.2. Così facendo, tuttavia, ha osservato il ricorrente, il tribunale ha omesso di considerare, innanzitutto, un problema di salute molto serio che ha il richiedente, e cioè il diabete, che necessita di molte cure ed è fonte di dolore molto intenso ed è fattore di vulnerabilità, ed, in secondo luogo, il suo inserimento nel nostro Paese, dove ha trovato un lavoro ma anche la cura per il suo diabete.

5.3. D’altra parte, ha proseguito il ricorrente, tenuto conto della grave situazione in cui versa il Bangladesh, risulta evidente che il confronto tra le due realtà doveva indurre a ritenere che nel nostro Paese il richiedente non avrebbe avuto le medesime opportunità di cura e di lavoro, così come non avrebbe goduto del medesimo rispetto dei diritti fondamentali, a partire dalla possibilità di avvalersi delle protezione a tutela di uno Stato, che nel suo Paese gli è stata negata.

5.4. Il tribunale, invece, che pure ha l’obbligo di valutare le condizioni che possono esporre il richiedente a rischi apprezzabili nel suo Paese d’origine, non ha esaminato nè la situazione del Bangladesh, caratterizzato dalla permanente violazione dei diritti fondamentali, nè il suo inserimento in Italia, omettendo di valutare il rischio che lo stesso possa subire trattamenti inumani e degradanti.

5.5. Il richiedente ha individuato e sottolineato la propria condizione personale di vulnerabilità ma, ha concluso, il tribunale su tali aspetti decisivi non ha svolto alcun accertamento, laddove, al contrario, per poter legittimamente escludere la sussistenza di rischi in caso di rientro, il giudice avrebbe dovuto procedere ad ulteriori considerazioni relativamente ai motivi di pericolo dedotti e alla situazione del Paese d’origine, rispetto a cui, invece, non vengono in alcun modo menzionati i rapporti informativi prodotti.

6.1. Il motivo è infondato. La protezione umanitaria, in effetti, è una misura atipica e residuale nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non possa disporsi l’espulsione e debba provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (Cass. 5358 del 2019; Cass. n. 23604 del 2017). I seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi internazionali o costituzionali, cui del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, subordina il riconoscimento allo straniero del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, pur non essendo definiti dal legislatore, prima dell’intervento attuato con il D.L. n. 113 del 2018, erano accumunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità personale dello straniero derivanti dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili (Cass. n. 4455 del 2018).

6.2. Nel caso di specie, il tribunale ha rigettato la domanda di protezione umanitaria proposta dal ricorrente rilevando, in sostanza, che il richiedente non presenta una situazione di vulnerabilità personale che possa giustificare la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Si tratta, com’è evidente, di un accertamento in fatto che, in quanto tale, può essere denunciato, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e cioè per omesso esame di una o più di circostanze la cui considerazione avrebbe consentito, secondo parametri di elevata probabilità logica, una ricostruzione dell’accaduto idonea ad integrare gli estremi della fattispecie rivendicata. Nel caso di specie, però, ciò non è accaduto: il ricorrente, infatti, a fronte dell’apprezzamento svolto dal giudice di merito in ordine tanto alla sua integrazione socio-lavorativa, quanto alle condizioni di malattia in cui versa, non ha specificamente indicato, pur avendone l’onere (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), i fatti, principali ovvero secondari, il cui esame sia stato del tutto omesso dal giudice di merito, pur se dedotti in giudizio, nè la loro decisività ai fini di una pronuncia diversa e a lui favorevole.

6.3. D’altra parte, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (applicabile ratione temporis: cfr. Cass. SU n. 29459 del 2019), al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Cass. n. 4455 del 2018). Tale comparazione presuppone, pertanto, un livello d’integrazione sociale nel Paese di accoglienza che, a sua volta, come giustamente ritenuto dal tribunale, non può derivare dal solo svolgimento in quest’ultimo di un’attività lavorativa, in difetto di qualsiasi altro elemento di valutazione, che il ricorrente non dimostra di aver dedotto (Cass. n. 8367 del 2020).

6.4. Nè, infine, rileva la malattia, e cioè il diabete, dalla quale il ricorrente risulta affetto. Questa Corte, in effetti, ha affermato il principio per cui, in tema di espulsione dello straniero, la garanzia del diritto fondamentale alla salute del cittadino straniero che comunque si trovi nel territorio nazionale impedisce l’espulsione nei confronti di colui che dall’immediata esecuzione del provvedimento potrebbe subire un irreparabile pregiudizio, dovendo tale garanzia comprendere non solo le prestazioni di pronto soccorso e di medicina d’urgenza, ma anche tutte le altre prestazioni essenziali per la vita (Cass. SU n. 14500 del 2013; Cass. n. 7615 del 2011; Cass. n. 13252 del 2016). Il tribunale, tuttavia, ha ritenuto, con apprezzamento in fatto non specificamente censurato per l’omesso esame di fatti decisivi, che il richiedente, in relazione alla patologia accertata (“piede diabetico”), non rischia di subire, in caso di rimpatrio, un pregiudizio irreparabile alla sua salute, non essendo, allo stato, necessario che lo stesso sia sottoposto ad una terapia essenziale per la sua integrità psico-fisica.

7. I motivi articolati in ricorso si rivelano, quindi, del tutto infondati. Peraltro, poichè il giudice di merito ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza di legittimità, senza che il ricorrente abbia offerto ragioni sufficienti per mutare tali orientamenti, il ricorso, a norma dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, è manifestamente inammissibile.

8. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

9. La Corte dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

La Corte così provvede: dichiara l’inammissibilità del ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare al ministero dell’interno le spese di lite, che liquida in Euro 2.100,00 per compenso, oltre spese prenotate a debito; dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 22 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2021

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