Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8910 del 14/04/2010

Cassazione civile sez. lav., 14/04/2010, (ud. 24/03/2010, dep. 14/04/2010), n.8910

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – rel. Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 34315-2006 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la rappresenta e difende,

giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

M.C.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PILO

ALBERTELLI 1, presso lo studio dell’avvocato PISTRITTO GIUSEPPE,

rappresentata e difesa dall’avvocato MAURIELLO GIACOMO, giusta

mandato in calce al ricorso;

– controricorrente –

e contro

ME.AN., F.S., R.M.P., C.

K., CO.FA., J.F.M., MU.

I.;

– intimati –

sul ricorso 2335-2007 proposto da:

ME.AN., F.S., R.M.P., C.

K., CO.FA., J.F.M., MU.

I., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA RENO 21, presso lo

studio dell’avvocato RIZZO ROBERTO, che li rappresenta e difende,

giusta mandato a margine del controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

Contro

POSTE ITALIANE S.P.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 5841/2005 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 05/07/2006 R.G.N. 169/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

24/03/2010 dal Consigliere Dott. GIANFRANCO BANDINI;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI;

udito l’Avvocato RIZZO ROBERTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per: inammissibilità per

intervenuta conciliazione per MU., rigetto ricorso principale

in subordine accoglimento per quanto di ragione, per ricorso

incidentale accoglimento per quanto di ragione.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza del 14.7.2005 – 5.7.2006, con intervenuta integrazione del dispositivo letto in udienza relativamente alla posizione di F.S., in riforma della decisione di prime cure, ha dichiarato, per quanto qui ancora rileva, la nullità dei contratti a termine intercorsi fra la Poste Italiane spa e i lavoratori Me.An., F.S., R. M.P., Co.Fa., M.C.A., J.F. M. e Mu.Ir., dichiarando la prosecuzione giuridica dei rapporti di lavoro dalla rispettiva data di scadenza e condannando la parte datoriale al pagamento in favore delle controparti delle mensilità di retribuzione dalle date di costituzione in mora “sino al terzo anno successivo alla scadenza ultima dei rispettivi contratti a termine”; la sentenza anzidetta ha inoltre disposto lo stralcio della causa relativa alla posizione dell’appellante C.K..

Per la cassazione di tale sentenza la Poste Italiane spa ha proposto ricorso fondato su tre motivi.

Gli intimati Me.An., F.S., R.M. P., Co.Fa., J.F.M., Mu.Ir. e C.K. hanno resistito con controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale fondato su un motivo e depositando memoria illustrativa. L’intimata M.C.A. ha resistito con controricorso.

In corso di causa è stato depositato il verbale di conciliazione in sede sindacale concluso tra la ricorrente e l’intimata Mu.

I..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Va preliminarmente disposta la riunione dei ricorsi, siccome proposti avverso la medesima sentenza.

2. Deve rilevarsi l’inammissibilità del ricorso proposto nei confronti di C.K., non avendo la sentenza impugnata pronunciato al riguardo, stante il disposto stralcio della sua posizione.

La ricorrente principale va quindi condannata alla rifusione delle spese in favore della predetta intimata, nella misura indicata in dispositivo.

3. Dal ricordato verbale di conciliazione, debitamente sottoscritto dalla lavoratrice interessata Mu.Ir. e dal rappresentante della Poste Italiane spa, risulta che le parti hanno raggiunto un accordo transattivo concernente la controversia de qua, dandosi atto dell’intervenuta amichevole e definitiva conciliazione a tutti gli effetti di legge e dichiarando che, in caso di fasi giudiziali ancora aperte, le stesse sarebbero state definite in coerenza con il verbale stesso.

Ad avviso del Collegio il suddetto verbale di conciliazione si appalesa idoneo a dimostrare l’intervenuta cessazione della materia del contendere nel giudizio di cassazione ed il conseguente sopravvenuto difetto di interesse delle parti a proseguire il processo.

Alla cessazione della materia del contendere consegue la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi (principale e incidentale per quanto relativi alla predetta Mu.Ir.), in quanto l’interesse ad agire (e, quindi, anche ad impugnare), deve sussistere non solo nel momento in cui è proposta fazione o l’impugnazione, ma anche nel momento della decisione in relazione alla quale, ed in considerazione della domanda originariamente formulata, va valutata la sussistenza di tale interesse (cfr, Cass., SU, n. 25278/2006). Tenuto conto del contenuto dell’accordo transattivo intervenuto tra le parti, si ritiene conforme a giustizia compensare integralmente tra le stesse le spese del giudizio di cassazione.

4. Tutti gli altri odierni intimati sono stati assunti con contratti a termine stipulati a norma dell’art. 8 del CCNL 26 novembre 1994 ed in particolare in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997, che prevede quale ipotesi legittimante la stipulazione di contratti a termine la presenza di esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane.

I contratti per i quali è stata dichiarata l’illegittima apposizione del termine sono stati conclusi dopo il 30.4.1998, ad eccezione di quello relativo a F.S., stipulato anteriormente a tale data e prorogato sino al 30.5.1998.

5. La Corte territoriale, premesso che l’accordo de quo era disciplinato dalla L. n. 56 del 1987, art. 23 ha attribuito rilievo decisivo, tra l’altro, al fatto che, avendo le parti raggiunto un’intesa originariamente priva di termine, le stesse avevano stipulato accordi attuativi che avevano fissato un limite temporale alla possibilità di procedere con assunzioni a termine, limite fissato inizialmente al 31 gennaio 1998 e successivamente al 30 aprile 1998; i contratti a termine in esame, per quanto stipulati in epoca successiva all’ultimo dei termini sopra indicati, erano illegittimi in quanto privi del supporto derogatorio.

Con il primo motivo la ricorrente ha ampiamente censurato la suddetta impostazione, contestando, in particolare, l’interpretazione data dalla Corte di merito al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997 ed agli accordi dalla stessa definiti come attuativi;

deduce, in particolare, che questi ultimi accordi avevano natura meramente ricognitiva.

Le censure della società ricorrente sono infondate.

Con numerose sentenze questa Corte Suprema (cfr, ex plurimis, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378), decidendo su fattispecie sostanzialmente identiche a quella in esame, ha univocamente confermato le sentenze dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto a contratti stipulati, in base alla previsione dell’accorcio integrativo del 25 settembre 1997 sopra richiamato (esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione …), dopo il 30 aprile 1998.

Premesso, in linea generale, che la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge (principio ribadito dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte con sentenza 2 marzo 2006 n. 4588), e che, in forza della sopra citata delega in bianco, le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997, la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, ha reputato che con tali accordi le parti abbiano convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31 gennaio 1998 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30 aprile 1998), della situazione di cui al citato accordo integrativo, con la conseguenza che, per far fronte alle esigenze derivanti da tale situazione, l’impresa poteva procedere (nei suddetti limiti temporali) ad assunzione di personale straordinario con contratto tempo determinato; da ciò deriva che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di presupposto normativo.

In particolare è stato osservato che la suddetta interpretazione degli accordi attuativi non viola alcun canone ermeneutico, atteso che il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti; infatti, nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr, ex plurimis, Cass. n. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453).

E’ stato altresì rilevato che tale interpretazione è rispettosa del canone ermeneutico di cui all’art. 1367 c.c., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la stessa attribuisce un significato agli accordi attuativi de quibus (nel senso che con essi erano stati stabiliti termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano nel primo accordo sindacale del 25 settembre 1997); diversamente opinando, ritenendo cioè che le parti non avessero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, si dovrebbe concludere che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, erano “senza senso” (così testualmente Cass. n. 14 febbraio 2004 n. 2866).

Infine è stata ritenuta corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001, in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga e, cioè, quando il diritto del soggetto si era già perfezionato; ed infatti, ammesso che le parti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la suddetta conclusione è comunque conforme alla regula iuris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina del D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, ex plurimis, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141).

Il sopra citato orientamento di questa Corte deve essere pienamente confermato, atteso che le tesi difensive che si sono confrontate nelle fasi di merito, quelle oggi proposte all’attenzione della Corte e, infine, le ragioni esposte nella sentenza impugnata, non sono sorrette da argomenti che non siano già stati scrutinati nelle ricordate decisioni o che propongano aspetti di tale gravità da esonerare la Corte dal dovere di fedeltà ai propri precedenti.

6. La Corte di merito ha altresì ritenuto Pillegittimità del termine apposto al “primo contratto”, evidentemente riferendosi a quello concernente l’odierna intimata F.S., sul presupposto che, anche nelle ipotesi individuate dai contratti collettivi a norma della L. n. 56 del 1987, art. 23 fosse necessario che l’apposizione del termine fosse stata giustificata da un’esigenza temporanea e specifica concretamente riferibile alla singola assunzione; rilevato che nel caso di specie la società Poste Italiane non aveva provato la riconducibilità della singola assunzione alla ristrutturazione aziendale menzionata dalla contrattazione collettiva, ha concluso per l’illegittimità del termine benchè ricadente in un periodo precedente la data del 30 aprile 1998. Nessun specifico rilievo è stato svolto dalla Corte territoriale in ordine alla legittimità della proroga del contratto de quo, avendo rilevato che la proroga era intervenuta successivamente all’aprile 1998, ma non traendo alcuna esplicita conclusione da tale pacifico elemento fattuale.

La suddetta impostazione è stata censurata dalla Società ricorrente con il secondo motivo, deducendo, in particolare, che l’interpretazione data dalla Corte di merito si basa, in sostanza, su una erronea interpretazione della L. n. 56 del 1987, art. 23. La censura è fondata.

Infatti, secondo il costante insegnamento di questa Corte di cassazione (cfr, in particolare, Cass. 26 luglio 2004 n. 14011; Cass. 7 marzo 2005 n. 4862), specificamente riferito ad assunzioni a termine di dipendenti postali previste dall’accordo integrativo 25 settembre 1997, l’attribuzione alla contrattazione collettiva, della L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962 discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato.

La Corte di merito ha deciso in palese violazione del suddetto principio di diritto; alla base della motivazione della decisione è l’assunto secondo cui non sarebbe consentito autorizzare un datore di lavoro ad avvalersi liberamente del tipo contrattuale del lavoro a termine, senza l’individuazione di ipotesi specifiche di collegamento tra contratti ed esigenze aziendali cui sono strumentali; la sentenza, quindi, si muove pur sempre nella prospettiva che il legislatore non abbia conferito una delega in bianco ai soggetti collettivi, imponendo al potere di autonomia i limiti ricavabili dal sistema di cui alla L. n. 230 del 1962, art. 1; ciò in contrasto con quanto ripetutamente affermato da questa Corte Suprema e ribadito dalla citata sentenza delle Sezioni Unite 2 marzo 2006 n. 4588.

7. Per quanto concerne le conseguenze economiche derivanti dalla declaratoria di illegittimità del temine apposto ai contratti collettivi de quibus, la relativa statuizione della Corte di merito è stata censurata sia dalla Poste Italiane s.p.a. (con il terzo motivo del ricorso principale), sia dai ricorrenti incidentali.

7.1 Sotto un primo profilo la ricorrente principale censura la suddetta statuizione nella parte in cui ha condannato la società al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni dalla data di messa in mora;

la società ricorrente denuncia in sostanza la violazione del principio di corrispettività delle prestazioni oltre che della disciplina privatistica in tema di onere probatorio.

La censura è del tutto infondata in base all’insegnamento di questa Corte Suprema (cfr, Cass., SU, 8 ottobre 2002 n. 14381, nonchè, ex plurimis, Cass. 13 aprile 2007 n. 8903), che, con riferimento all’analoga ipotesi della trasformazione in unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato di più contratti a termine succedutisi tra le stesse parti, per effetto dell’illegittimità dell’apposizione dei termini o, comunque, dell’elusione delle disposizioni imperative della L. n. 230 del 1962, ha affermato che il dipendente che cessa l’esecuzione delle prestazioni alla scadenza del termine previsto può ottenere il risarcimento del danno subito a causa dell’impossibilità della prestazione derivante dall’ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla – in linea generale in misura corrispondente a quella della retribuzione – qualora provveda a costituire in mora lo stesso datore di lavoro ai sensi dell’art. 1217 cod. civ.; posto che la Corte territoriale ha esplicitamente individuato gli atti con i quali i lavoratori hanno offerto le proprie prestazioni determinando così, a carico del prestatore di lavoro, una situazione di mora accipiendi, la censura deve essere considerata inammissibile per violazione del principio di autosufficienza, non essendo stato riprodotto nel ricorso il testo del suddetto documento, del quale viene contestata l’idoneità a costituire atto di costituzione in mora (cfr, ad esempio, Cass. 10 agosto 2004, n. 15412).

7.2 Sotto un secondo profilo la ricorrente principale si duole che la Corte territoriale non abbia tenuto conto della possibilità che i lavoratori abbiano espletato attività lavorativa retribuita da terzi una volta cessati i rapporti lavorativi inter partes.

Deve rilevarsi che la Corte territoriale non ha affatto trattato la questione dell’aliunde perceptum sollevata con la censura all’esame.

Trova quindi applicazione il principio secondo cui, poichè i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio d’appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d’ufficio, il ricorrente, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione avanti al giudice del merito, ma anche di indicare in quale atto del precedente giudizio lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminarne il merito (cfr, ex plurimis, Cass., n. 2140/2006).

Tale onere non è stato assolto dalla ricorrente principale, che non precisa in che termini e con quale atto la questione anzidetta fosse stata espressamente devoluta (art. 346 c.p.c.) al giudizio della Corte territoriale, limitandosi ad indicare di avere vanamente reiterato in secondo grado le istanze istruttorie già asseritamente svolte in prime cure.

Il profilo di doglianza di che trattasi deve quindi ritenersi inammissibile.

7.3 L’accoglimento del secondo motivo del ricorso principale, concernente la sola F.S., comporta l’assorbimento del ricorso incidentale proposto da quest’ultima.

7.4 Deve ritenersi fondato l’unico motivo del ricorso incidentale proposto da Me.An., R.M.P., Co.Fa. e J.F.M., con il quale viene censurata la statuizione della sentenza impugnata che, in sede di liquidazione equitativa del danno, individua nella scadenza del terzo anno successivo alla data di interruzione del rapporto il termine ad quem scelto come parametro per la determinazione del danno subito dal lavoratore. Premesso che, come ripetutamente affermato da questa Corte Suprema (cfr, ad esempio, Cass. 30 marzo 2004 n. 6285) l’esercizio in concreto del potere discrezionale conferito al giudice di procedere alla liquidazione del danno in via equitativa è suscettibile di sindacato in sede di legittimità se la motivazione non da adeguatamente conto dell’uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito, deve osservarsi che nel caso in esame, nel quale l’individuazione del suddetto termine è finalizzata alla liquidazione equitativa del danno, tale motivazione è del tutto mancante; in particolare la Corte territoriale non ha spiegato affatto le ragioni per cui ha fissato in tre anni dalla data di cessazione del rapporto il periodo presumibile di durata della situazione reddituale creatasi alla scadenza del termine (dichiarato illegittimo) apposto ai contratti di lavoro subordinato (cfr, Cass. 1 settembre 2008 n. 22911).

8. In definitiva il ricorso principale deve essere accolto limitatamente al secondo motivo, concernente, come detto, la posizione della sola intimata F.S., e rigettato nel resto; il ricorso incidentale proposto da F.S. resta conseguentemente assorbito, mentre, per quanto proposto da Me.

A., R.M.P., Co.Fa. e J.F. M. deve essere accolto. Per l’effetto la sentenza deve essere cassata in relazione alle censure accolte, con rinvio della causa ad altro Giudice, designato in dispositivo, il quale provvederà alla luce dei principi sopra affermati. Il giudice del rinvio provvederà altresì, ex art. 385 c.p.c. sulle spese del giudizio di legittimità inerenti alle parti in relazione alle quali la sentenza d’appello è stata cassata.

La ricorrente principale, secondo il criterio della soccombenza, va invece condannata a rifondere le spese di lite, liquidate come in dispositivo, alla controricorrente M.C.A., che non ha proposto ricorso incidentale.

PQM

La Corte riunisce i ricorsi; dichiara inammissibile il ricorso principale proposto nei confronti di C.K. e condanna la ricorrente principale alla rifusione delle spese, che liquida in Euro 10,00, oltre ad Euro 2.000,00 (duemila) per onorari ed accessori di legge; dichiara inammissibili il ricorso principale proposto nei confronti di Mu.Ir. e il ricorso incidentale proposto da quest’ultima, compensando le spese; accoglie il secondo motivo del ricorso principale, che rigetta nel resto; dichiara assorbito il ricorso incidentale proposto da F.S.; accoglie il ricorso incidentale proposto da Me.An., R.M.P., Co.Fa. e J.F.M.; cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione; condanna la ricorrente principale alla rifusione delle spese in favore di M.C.A., che liquida in Euro 15,00 oltre ad Euro 2.000,00 (duemila) per onorari ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 24 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 14 aprile 2010

 

 

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA