Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8902 del 14/04/2010

Cassazione civile sez. lav., 14/04/2010, (ud. 25/02/2010, dep. 14/04/2010), n.8902

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 19526-2006 proposto da:

P.P., M.N., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA VALADIER 53, presso lo studio dell’avvocato

LUCIANI ANDREA, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato

SANTELLI ERNESTO, giusta delega in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

TECNOCHEMICAL S.R.L.;

– intimata –

e sul ricorso 22242-2006 proposto da:

TECNOCHEMICAL S.R.L., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VIRGILIO 8, presso lo

studio dell’avvocato CICCOTTI ENRICO, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato ICHINO PIETRO, giusta delega in calce al

controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

P.P., M.G.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 142/2006 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 13/02/2006 R.G.N. 1319/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/02/2010 dal Consigliere Dott. VITTORIO NOBILE;

udito l’Avvocato MERCATI NERONI LAURA per delega LUCIANI ANDREA;

udito l’Avvocato CICCOTTI ENRICO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FEDELI Massimo che ha concluso per il rigetto del ricorso principale,

e accoglimento del ricorso incidentale.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 2343/2004 il Giudice del lavoro del Tribunale di Milano, accertava la violazione da parte di P.P. e M.N. del patto di non concorrenza esistente con la datrice di lavoro s.r.l. Tecnochernical, confermava il provvedimento cautelare di cessazione della condotta lesiva, condannava i convenuti P. e M. a pagare alla società a titolo risarcitorio rispettivamente Euro 153.774,72 ed Euro 88.167,02, oltre interessi e rivalutazione dal 11-3-2002, e rigettava le domande riconvenzionali di pagamento, ingiustificato arricchimento e risarcimento del danno contributivo svolte dai convenuti, condannando, infine, questi ultimi al pagamento delle spese.

Avverso la detta sentenza proponevano appello il P. e il M.. La appellata resisteva e proponeva appello incidentale teso ad ottenere la maggiore quantificazione dei danni e, in subordine, in caso di ritenuta invalidità o risoluzione del patto di non concorrenza, la restituzione del relativo compenso percepito.

La Corte d’Appello di Milano, con sentenza depositata il 13-2-2006, in parziale riforma della sentenza appellata riduceva gli importi dovuti da P. e M. rispettivamente a Euro 118.500,00 e 33.300,00; confermava nel resto e compensava per metà le spese pronunciando condanna per l’altra metà.

Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso il P. e il M. con tre motivi.

La Tecnochemical s.r.l. ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale con un unico motivo.

Infine è stata depositata dichiarazione contestuale del M. e della Tecnochemical, nonchè dei relativi difensori, di reciproca rinuncia al ricorso principale e a quello incidentale con le rispettive adesioni.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi avverso la stessa sentenza ex art. 335 c.p.c..

Tenuto conto dell’atto depositato contenente le rispettive rinunce al ricorso principale e al ricorso incidentale con le reciproche adesioni, tra il M. e la Tecnochemical, ricorrendo tutti i presupposti di cui agli artt. 390 e 391 c.p.c., va dichiarato estinto il processo tra le dette parti, senza che debba provvedersi in ordine alle spese fra le parti medesime (v. art. 391 c.p.c., comma 4).

Esaminando, quindi, il ricorso principale del P., osserva in primo luogo il Collegio che nella fattispecie, trattandosi di ricorso avverso sentenza depositata il 13-2-2006, nella fattispecie non trova applicazione ratione temporis l’art. 366 bis c.p.c., per cui non assumono rilevanza i quesiti pur formulati nel ricorso stesso.

Con il primo motivo del ricorso principale il P., denunciando violazione dell’art. 414 c.p.c., n. 3, deduce che il ricorso di primo grado della società non riportava il conteggio del danno ma si limitava ad indicare “somme ricavate dalle fatture allegate … disattendendo così la necessità della sufficienza dell’atto introduttivo che deve poter mettere il convenuto in condizione di capire tutti gli elementi che sorreggono la domanda, senza dover analizzare la documentazione la cui funzione ha carattere probatorio e non descrittivo della domanda”.

Il ricorrente principale aggiunge che “nel presente caso è accaduto che il nuovo difensore per l’appello, non disponendo di tale documentazione in quanto il relativo fascicolo era stato ritirato, si è venuto a trovare di fronte a cifre di cui non capiva la fonte”.

Il motivo non può essere accolto.

Come questa Corte ha ripetutamente affermato “nel rito del lavoro la valutazione di nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per mancanza di determinazione dell’oggetto della domanda o per mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto sulle quali questa si fonda, ravvisabile solo quando attraverso l’esame complessivo dell’atto sia impossibile l’individuazione esatta della pretesa dell’attore e il convenuto non possa apprestare una compiuta difesa, implica una interpretazione dell’atto introduttivo della lite riservata al giudice del merito, censurabile in cassazione solo per vizi di motivazione, il che comporta l’esame non del ricorso introduttivo, ma delle ragioni esposte nella sentenza impugnata per affermare che il ricorso stesso sia o meno affetto dal vizio denunciato” (v. Cass. 27-8-2004 n. 17976, Cass. 17-3-2005 n. 5879, Cass. 16-1-2007 n. 820, Cass. 19-3- 2009 n. 6694).

Nel caso di specie la censura del ricorrente principale non denuncia espressamente un vizio di motivazione ed in ogni caso la Corte d’Appello, con motivazione congrua e priva di vizi logici, ha rilevato che “la domanda risarcitoria della società è stata formulata per importi che corrispondono alla somma aritmetica delle diverse voci di danno elencate nel ricorso” e pertanto ha disatteso l’eccezione di nullità della domanda stessa.

Peraltro la circostanza della mancata disponibilità della documentazione attorea da parte del nuovo difensore del P. in appello, stante l’avvenuto ritiro del fascicolo di controparte, non inficia la piena regolarità del contraddittorio già svoltosi, anche sulla detta documentazione, nel corso del giudizio di primo grado (nel quale il P. era stato in grado di apprestare tutte le difese del caso) e tanto meno rende il ricorso introduttivo carente a posteriori degli elementi essenziali di cui all’art. 414 c.p.c., n. 3.

Con il secondo motivo il P., denunciando violazione degli artt. 1226 e 2056 c.c. in sostanza deduce che erroneamente la Corte territoriale ha fatto ricorso alla determinazione equitativa del danno, in quanto “non vi è nulla di più determinabile di un danno subito da una società di capitali che, disponendo del bilancio, possiede in via assoluta tutti gli elementi contabili necessari per una tale attività di calcolo”, trattandosi “solo di stabilire quali voci del bilancio hanno o non hanno incidenza nella determinazione del danno”.

All’uopo il ricorrente richiama il principio costantemente affermato da questa Corte, secondo cui “l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa da luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, che, pertanto, da un lato è subordinato alla condizione che risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile per la parte interessata a provare il danno nel suo preciso ammontare, dall’altro non ricomprende anche l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo già assolto l’onere della parte di dimostrare sia la sussistenza sia l’entità materiale del danno, nè esonera la parte stessa dal fornire gli elementi probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, affinchè l’apprezzamento equitativo sia per quanto possibile ricondotto alla sua funzione di colmare solo le lacune insuperabili nell’iter della determinazione dell’equivalente pecuniario del danno stesso” (v.

Cass. 18-11-2002 n. 16202, Cass. 18-4-2003 n. 6329, Cass. 22-7-2004 n. 13761, Cass. 7-6-2007 n. 13288, Cass. 9-8-2007 n. 17492, Cass. 10- 12-2009 n. 25820).

Con il terzo motivo il P., denunciando violazione degli artt. 1223, 2491 (ora 2478 bis), 2425 e 2697 c.c. e art. 115 c.p.c., in sostanza deduce che lo “sbrigativo conteggio posto a base della domanda risarcitoria” “ha dato luogo ad un utile di circa il 16% maggiore rispetto a quello medio” ricavabile dai bilanci degli anni precedenti, tenendo conto dei costi (“fissi o non fissi”).

Il ricorrente principale aggiunge che “controparte, ai fini della determinazione del mancato utile, avrebbe dovuto produrre i bilanci, indicando altresì gli elementi del conto economico quali poste positive per la individuazione dell’utile esercizio”.

I detti motivi, che in quanto connessi possono essere trattati congiuntamente, risultano in parte inammissibili e in parte infondati.

In primo luogo infondata è la censura, contenuta nel secondo motivo, riguardante il ricorso alla liquidazione equitativa del danno, in quanto la impugnata sentenza ha pienamente applicato il principio invocato dal P., osservando, con motivazione congrua e priva di vizi logici, che “è stata dimostrata, nell’an, l’esistenza di danno per la società, in particolare derivante dalla vendita di beni dalla stessa commercializzati e dalla perdita di alcuni clienti” (danno provocato dalla violazione di un obbligo contrattuale) e che “circa il quantum, è inevitabile in materia provvedere alla liquidazione in via equitativa ex art. 1226 cod. civ., essendo impossibile determinare tutte le potenzialità lesive dell’atto”.

La Corte territoriale, quindi, correttamente, una volta accertata la esistenza del danno, lo ha determinato sulla base del criterio dell’utile, come risultato dalla fatture prodotte e dal conteggio della società recepito dal primo giudice (“differenza tra importo fatturato dalla società Tecnochemical al cliente nel periodo di riferimento e il costo sostenuto nello stesso periodo per l’acquisto dei prodotti miscelati e rivenduti a quello stesso cliente”).

In particolare la Corte di merito ha evidenziato che:

“il criterio non riguarda gli incassi ma la differenza con le spese.

Ed è logico che tra queste non si siano considerati i costi fissi, che comunque vengono sopportati dalla società; equitativamente, all’importo considerato dal primo giudice – dallo stesso determinato in ragione di un’annualità – va fatta un’aggiunta in ragione della durata triennale del patto. Non appare però equo tener conto dell’intero periodo, posto che comunque la permanenza del cliente, e la stessa continuità dell’azienda, sono legati anche ad eventi di vario tipo che inducono a ridurre il triennio, appunto, equitativamente, alla metà: onde l’aumento del 50% dell’importo riconosciuto”.

La Corte d’Appello, quindi, per determinare la perdita subita ha applicato il criterio dell’utile (in base alla differenza come sopra delineata, senza considerare i costi fissi), partendo dalle fatture prodotte e dai conteggi relativi, ed in sostanza ha valutato equitativamente la estensione temporale della perdita stessa (quest’ultima in misura diversa da quella determinata dal primo giudice).

Tale valutazione di fatto, riservata al giudice del merito, oltrechè legittima, risulta anche congruamente motivata, e resiste alle censure del P..

In particolare gli argomenti svolti dal ricorrente principale per contrastare la congruità del criterio adottato dalla Corte di merito, risultano, oltrechè nuovi, anche i neon ferenti.

Da un lato, infatti, il danno relativo alla perdita di alcuni clienti derivante dall’inadempimento del P. non sarebbe potuto emergere dall’esame dei bilanci della società e dei dati relativi (aggregati in base ad elementi del tutto estranei all’inadempimento stesso).

Dall’altro la determinazione, del lucro cessante, effettuata dalla Corte di merito (in relazione alla specifica situazione concreta ed in base al criterio dell’utile come sopra delineato, necessariamente valutato equitativamente nella sua estensione temporale, rispetto alla durata del patto), non è assolutamente comparabile con la percentuale dell’utile medio risultante dai bilanci, essendo i dati a confronto totalmente disomogenei, e neppure, infine, risulta illogica, all’interno del criterio adottato, la esclusione dalle “spese” dei costi fissi, congruamente motivata dal rilievo che gli stessi “comunque vengono sopportati dalla società”.

Così respinto il ricorso principale del P., va esaminato il ricorso incidentale della Tecnochemical s.r.l. nei suoi confronti, con il quale la società, denunciando violazione degli artt. 1223 e 2125 c.c. in sostanza lamenta che erroneamente la sentenza impugnata ha escluso tra le voci di danno la restituzione dei compensi pagati.

In particolare la società deduce che “la decisione non è rispettosa della norma contenuta nell’art. 1223 c.c. che impone al debitore inadempiente di risarcire così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta” e rileva che il compenso pagato “si è risolto, in conseguenza diretta dell’inadempimento dell’obbligo di non tacere assunto dal debitore “in un’erogazione priva di causa, in una mera perdita subita dalla creditrice, e quindi in un danno emergente risarcibile” (la società formula anche il quesito di diritto, che però non assume rilevanza nella fattispecie, stante la inapplicabilità, ratione temporis, dell’art. 366 bis c.p.c.).

Il motivo è fondato.

Come questa Corte ha ripetutamente affermato il risarcimento del danno per l’inadempimento deve comprendere, a norma dell’art. 1223 c.c. “sia la perdita subita dal creditore che il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata”, “dovendo porre il creditore nella stessa situazione economica in cui si sarebbe trovato se l’inadempimento non si fosse verificato” (v. fra le altre Cass. 23-6- 1982 n. 3830, Cass. 15-10-1999 n. 11629).

Dovendo, quindi, essere ristabilito integralmente “l’equilibrio economico turbato” dall’inadempimento (v. fra le altre Cass. 15-4- 1980 n. 2458, Cass. 16-6-1969 n. 2145) deve riconoscersi che il corrispettivo pagato ai sensi dell’art. 2125 c.c. dal datore al prestatore di lavoro, una volta accertato l’inadempimento di quest’ultimo, ben può rientrare nel danno emergente risarcibile.

Il ricorso incidentale (nei confronti del P.) va pertanto accolto e la sentenza impugnata va cassata, in relazione a tale accoglimento, con rinvio alla stessa Corte di Appello di Milano, in diversa composizione, la quale provvederà attenendosi al principio sopra richiamato, statuendo anche sulle spese di legittimità.

PQM

La Corte riunisce i ricorsi, dichiara estinto il processo fra il M. e la Tecnochemical s.r.l., nulla per le spese fra le dette parti; rigetta il ricorso principale del P., accoglie il ricorso incidentale della Tecnochemical s.r.l.. cassa la impugnata sentenza in relazione al ricorso accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Milano in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 25 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 14 aprile 2010

 

 

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